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Quarant’anni fa, in autostop per vedere il Muro di Berlino

Un viaggio d'altri tempi: in autostop da Trento per andare al Charlie Point

Se per la politica mondiale la caduta del Muro di Berlino rappresenta la fine della Guerra Fredda, per gli Europei significa l'inizio dell'Europa Unita, quella che noi giovani del dopoguerra sognavamo, sapendo che era solo un sogno.
Ma, come ricorda Walt Disney, «se lo hai sognato, vuol dire che puoi farlo»… Accadde quando noi che nel '68 avevamo 20 anni siamo diventati quarantenni nel 1989. Ciò che non eravamo riusciti a fare con le barricate, lo avevamo fatto in una notte, vent'anni dopo, con la politica. Eravamo arrivati al potere inserendoci nella normale corsa della vita.
Adesso, che ne sono passati altri venti, ci giriamo a guardare il passato con un sorriso che non ha nulla di malinconico. Diciamo semplicemente «ha valso la pena passare questi sessant'anni», perché abbiamo cambiato il mondo. Certo, non sarà merito nostro, ma di sicuro possiamo dire che non è stato il mondo a cambiare noi.
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Quando avevo vent'anni, io e due compagni di scuola decidemmo di andare in vacanza a Berlino. Il Muro era uno sconcio, una provocazione. Insomma in qualche modo dovevamo violarlo.
I due compagni si chiamavano Grazia Corradini e Mauro Finotti. Lavorammo alla raccolta delle mele in Val di Non quanto bastava per raggranellare i soldi per sopravvivere, quindi ci facemmo portare dai genitori in Via Brennero a Trento, «a fare l'autostop». Proprio così. Ve li immaginate oggi papà o mamma che accompagnano i propri ragazzi all'imbocco dell'Autobrennero? Beh, allora l'autostrada non c'era.
Eravamo in tre, ma trovammo subito un Tir disposto a caricarci.

Al Brennero scendemmo, perché lui avrebbe impiegato 5 o 6 ore a far dogana, noi no. Passammo il confine a piedi e fummo raccolti da un altro Tir che aveva già fatto dogana e che aveva voglia di compagnia. Ci scaricò a Rosenheim, per via della dogana. Stessa trafila, poi via fino a Monaco di Baviera.
Lì avevo uno zio che era nato nel 1900. Viveva in una delle vie del centro, che adesso non c'è più. Ci accolse come dei figli e ci fece dormire fino all'indomani.
Di mattina presto prendemmo l'autobus e ci portammo fuori della città, al nord.
Trovammo il solito Tir che ci portò fino a Colonia. Altra tappa a visitare la città, poi via a Munster. Qui, l'amico Mauro aveva una morosa, conosciuta nel'estate trentina sui laghi. La sua famiglia ci accolse in casa calorosamente. Due giorni dopo (Mauro aveva bisogno di salutare bene la sua amica) ripartimmo per Düsseldorf nella Ruhr e poi verso Helmstedt, confine settentrionale con la DDR.



La Germania Orientale rappresentava per noi una sorta di altro mondo, qualcosa che si doveva conoscere e possibilmente violare. Il Muro era stato costruito da pochi anni contro ogni logica apparente ed eravamo determinati ad andare a vedere come vivevano dall'altra parte.
Forse è bene spiegare che l'Italia, come la maggior parte degli Stati Occidentali, non aveva riconosciuto la DDR e pertanto non c'erano rapporti diplomatici tra i Paesi. Insomma, la Germania Orientale non esisteva. Era come andare sulla Luna.
Giunti al confine con il passaporto italiano, infatti, ci fecero compilare un modulo di richiesta d'ingresso sul quale apporvi il timbro «Zurück», indietro. Chiuso.
Passammo la notte in un ostello per la gioventù a Helmstedt, pagando a testa in marchi il controvalore di un centinaio di lire. C'eravamo solo noi.
La mattina tornammo al confine e tentammo di nuovo. Perché? Mah, testardi. Ci fecero nuovamente compilare il modulo del giorno prima e stavolta, incredibilmente, ci misero il timbro di accesso. Cosa fosse cambiato, proprio non lo sapremo mai.
Passammo il confine in pochi minuti, a piedi.
Giunti dal'altra parte del confine, facemmo nuovamente l'autostop e ci caricarono subito.
Dopo sei o sette ore, arrivammo al confine con Berlino Occidentale. Perdemmo tre ore, ma alla fine ci fecero passare. Eravamo nella fatidica West Berlin, arrivati in autostop… L'alternativa era l'auto propria o l'aereo.

Senza mai dimenticare che nella Berlino di allora su tre persone due erano spie o controspie, visitammo la città in lungo e in largo, dalla Kurfürstendamm alla 17. Juni Straße, dal Tiergarten alla Sprea, dalla Friedrichstraße alla Tauentzienstraße, dalla Gedächtniskirche al… Muro di Berlino.
Giunti al Charlie Point, va da sé, decidemmo di passare.
La polizia occidentale provò a sconsigliarci ma, non potendo impedircelo, ci diedero consigli, tra i quali quello di chiedere eventualmente soccorso alla diplomazia Svedese che, unica in Europa, aveva pragmaticamente riconosciuto la Repubblica Democratica Tedesca (anni dopo lo avrebbero fatto anche gli altri Stati).
I Vopos ci accolsero con diffidenza e meraviglia. Cosa facevano tre italiani ventenni al Charlie Point per entrare a Berlino Orientale? Ce lo chiesero un sacco di volte, anche separatamente. Non volevano farci entrare, ma il lasciapassare rilasciatoci al confine di Helmstedt non lasciava dubbi: o avevano sbagliato a quel confine o stavano sbagliando loro adesso. Alla fine ci fecero entrare, domandandosi ancora quale fosse il nostro vero obbiettivo. Al controllo bagagli non trovarono nulla di interessante nelle nostre borse, ma al signore che era davanti a noi sequestrarono la rivista Playboy: «niente giornali capitalisti a Ost Berlin…». Ma non lo distrussero.



Una volta di là, ci rendemmo conto di quanto diverse fossero le due città. In due parole, a Ovest c'era il benessere, a Est la miseria. O almeno quella era l'impressione che dava la parte comunista.
Andammo subito a vedere la Brandeburger Tor, restando affascinati dall'idea di poterla vedere stando dall'altra parte, stando sulla storica Unter den Linden. Contrariamente a quanto ci avevano raccomandato, ci facemmo fotografare con sullo sfondo la Porta di Brandeburgo. Il Berlinese orientale che la scattò non era un grande fotografo, ma neanche la nostra camera era un gioiello, eppure la foto bene o male riuscì come tutte le altre. È quella che pubblichiamo qui sopra.
Tra le cose che visitammo, ci fu anche il duomo di Ost Berlin. Il tetto era stato sfondato da una bomba degli aerei alleati e le autorità avevano deciso di non spendere soldi per la ricostruzione di chiese. Ci lasciarono entrare a visitare il duomo diroccato. Vidi il coccio di un capitello tra i calcinacci. Chiesi al Vopo di guardia se potevo prenderlo e portarlo con me, e lui mi autorizzò, aggiungendo che se volevo portarmi via tutto mi avrebbe pure aiutato.
[Ai vari confini non mi contestarono mai quel pezzo del duomo di Berlino orientale: spiegavo che cos'era e lo trovarono del tutto normale…]
I ricordi che abbiamo di Ost Berlin sono tanti, ma certamente l'odore di cavalli è quello che periodicamente mi torna alla mente, in contrasto con quello di benzina che la parte occidentale offriva ai turisti.
Tornando nella parte orientale, perdemmo un sacco di tempo al passaggio del Muro, perché c'era stato un allarme di qualche genere che nessuno volle spiegarci. Ci tennero segregati per ore, ma alla fine ci lasciarono andare.

Il ritorno a casa fu più avventuroso.
Facendo autostop nei pressi del confine tra West Berlin e la DDR, si fermò un'automobile. Scese un Berlinese e ci domandò se uno di noi aveva la patente ed io risposi di sì. La mostrai e ci fece un'offerta.
Lui ci dava la macchina per andare ad Hannover, al cui aeroporto ci avrebbe aspettato.
«Sono scappato da Ost Berlin - ci spiegò. - Non posso farmi vedere a un confine, altrimenti mi arrestano.»
Facemmo consiglio di viaggio e decidemmo democraticamente (e incoscientemente) di accettare. Lo accompagnammo all'aeroporto Tempelhof di Berlino, poi andammo al confine. Non più da autostoppisti, ma da automobilisti.
Nel corso del controllo ci accorgemmo dell'imprudenza. Ci controllarono tutto impiegando l'intera giornata. Svuotarono il bagagliaio, cavarono i sedili, smontarono le portiere, controllarono il serbatoio.
Credevamo che non saremmo mai passati, quando qualcuno con una imponente divisa e un cappello gigantesco ci fece salire in macchina e ci fece passare. Restammo in silenzio per un'ora, finché non cacciammo un urlo di gioia. Poi, però, mi accorsi che il sole stava tramontando dietro di noi, invece che davanti. L'orientamento non mi è mai mancato.
«Ragazzi - dissi, - stiamo andando verso Est…»
Ci fermò poco dopo la polizia stradale a un posto di blocco. Pazientemente mi spiegarono che dovevo fare inversione di marcia. Mi aiutarono a farlo e riprendemmo la giusta direzione. Non so se nella opulenta Val Padana avremmno avuto lo stesso trattamento...
Il passaggio del confine a Helmstedt fu lungo e faticoso, ma ormai non avevamo più paura, eravamo diventati esperti nei passaggi di confine fra stati che non esistono.



Arrivammo all'aeroporto di Hannover e ci incontrammo con il passeggero. Il quale non si meravigliò affatto che avessimo mantenuto la parola…
Per ringraziarci ci portò alla periferia della città per fare l'autostop. Ma di notte non ci raccolse nessuno, quindi decidemmo di dormire sotto il ponte dello svincolo autostradale, abbracciati tutti tre, nella nebbia della landa tedesca di metà settembre (allora le scuole cominciavano a ottobre).
Nel corso sella notte ci fu anche un incidente stradale mortale, che non ci svegliò.
«Qui ci sono altri cadaveri! - Gridò un poliziotto della Verkehrspolizei. - No, sono vivi. Cosa fate qua?»
Ma non attesero risposta e ci diedero del caffè.
Riprendemmo l'autostop, ma dopo un'ora decidemmo di dividerci perché in tre era difficile trovare passaggio. Io e la mia amica prendemmo la strada che porta a Monaco passando da Kassel e Norimberga, il nostro amico quella che passa da Colonia.
Ci ritrovammo dallo zio di Monaco, arrivando noi pochi minuti prima di lui. Quasi sincronizzati.
Lo zio ci disse che le nostre famiglie volevano che tornassimo a casa subito e ci portò alla stazione dei treni.
Era il primo viaggio fatto con una certa comodità. Ci addormentammo subito e ci svegliammo a Verona. Avevamo passato Trento e Rovereto senza neppure accorgerci. Riprendemmo il treno di ritorno senza pagare il biglietto, mostrando quello da Monaco a Trento, spiegando così l'errore.

Fine di un viaggio che appartiene ad altri tempi.
L'anno successivo un altro compagno di scuola andò a Berlino, ma venne arrestato al passaggio del muro per aver protestato contro le autorità tedesco orientali e venne trattenuto per qualche giorno.
Il muro cadde 20 anni dopo. Poi ne sono passati altri venti. L'Europa adesso è unita e c'è la moneta unica. Allora sembrava pura astrologia pensare a questi cambiamenti rivoluzionari, eppure a questo mondo tutto passa. Anche quel maledetto muro che Honecker aveva definito «eterno».

Guido de Mozzi

Se gli amici che viaggiarono con me quella volta vogliono aggiungere o correggere qualcosa a questo racconto, ci scrivano. Lo aggiorneremo volentieri.

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Non appena letto il reportage, Mauro Finotti mi ha telefonato.
«Tutto bene - disse. - Però hai dimenticato un ultimo particolare.»

Al confine del Brenenro ci avevano svegliato perché dovevano perquisire tutti i passeggeri. A Trento c'era stato quel maledetto attentato che aveva causato la morte di due agenti della Polizia Ferroviaria.
A parte il dolore per il sangue versato, nessun problema. Eravamo esperti e impiegarono poco a capire che eravamo puliti. Poi uno vide il mio sacchetto di nailon.
«Cosa c'è lì dentro?» - Mi chiese.
«Un pezzo del Duomo di Berlino Orientale.» - Risposi serafico, mentre i miei compagni alzarono gli occhi al cielo.
«Ah, bene...» - Rispose, e passò all'altro scompartimento.
Aveva trovato normale che uno tornasse da Berlino Orientale con un pezzo del Duomo. Chapeau!
D'altronde, per il nostro Paese, la DDR non esisteva.

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