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Grande Guerra: 90 anni fa si spegneva «Il sogno di Carzano»

L'irripetibile occasione si presentò il 17 settembre 1917: Tutto era dalla nostra parte, nulla andò in porto.

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Gli storici della prima guerra mondiale citano spesso Napoleone, secondo il quale per conquistare l'Austria si doveva passare dalla pianura Friulana, sempre ammesso che il Trentino non fosse in condizioni di non poter nuocere. E così, dopo l'inutile e sanguinosissima battaglia dell'Ortigara avvenuta nel giugno 1917, sia Cadorna che l'Alto comando Austriaco avevano la certezza di entrambe le cose. La guerra sarebbe finita, in un modo o nell'altro, sull'Isonzo.
Tranquillo che dal fianco sinistro (il Trentino) non avrebbe avuto problemi, Cadorna richiamò gran parte delle sue truppe e della sua artiglieria per affrontare una nuova battaglia sull'Isonzo.
Tranquilli che il Trentino non sarebbe stato più oggetto delle mire del nostro esercito, l'Alto comando Austro-ungarico richiamò la quasi totalità delle truppe e delle artiglierie che aveva negli altipiani di Lavarone e di un po' in tutto il territorio, per trasferirle sul Carso. Ancora una «spallata» di Cadorna sull'Isonzo, e il fronte avrebbe ceduto.
Mentre i due comandi stavano pragmaticamente seguendo le logiche strategiche di Napoleone e Moltke, accadde uno dei fatti più clamorosi di tutto il conflitto. La grande occasione perduta di Carzano.


 
(Il teatro delle operazioni. Fonte: www.viamichelin.it)

Il 12 luglio il SIM, Servizio Informazioni Militari del Regio Esercito, ricevette un singolare messaggio dell'«informatore fantasma» che il nostro esercito chiamava Paolino (Paulìn). Stavolta il Paulin si era presentato a Carzano.
Alle spalle di Borgo Valsugana, oltre Castelnuovo, lungo il torrente Maso, tutta la zona compresa tra Spera, Scurelle e Palua era la cosiddetta «terra di nessuno». Il comando militare italiano di divisione non era lontano, a Pieve Tesino. Gli Austriaci tenevano invece Carzano, Telve e Borgo, da dove controllavano la strada per Trento. Tenevano d'occhio anche la Val Calamento e Passo Manghen, ché degli Italiani è meglio non fidarsi mai…
Gli ufficiali del SIM che analizzarono il messaggio erano il T.Col. Marchetti e il Maggiore Pettorelli Lalatta Finzi. Il comandante d'Armata, di stanza ad Arsiè, era il generale Donato Etna. Dipendevano da lui le due divisioni che presidiavano dal Civaron a Strigno e da Strigno a Cimon Rava.
Anche stavolta il messaggio era ambiguo, ma era nelle abitudini dell'epoca quello di far scivolare notizie dall'una e dall'altra parte mischiando verità a fandonie, tanto per confondere le cose. La singolarità di questo messaggio, però, era tale da presentare due possibilità. O era una trappola grossolana, oppure era una chance clamorosa.

La gloria su un piatto d'argento

«Unisco piano nostra difesa. - diceva il messaggio (e l'aveva unito davvero…) - Sono pronto aiutarvi. Se accettate, tirate a mezzogiorno preciso di un giorno qualsiasi due colpi con granate da 152 contro campanile Carzano. Confermate appena annotta, con segnale luminoso da Monte Levre. Ciò vorrà dire che un mio sottufficiale dovrà venire stessa notte ore 24 prendere accordi vostri avamposti Strigno. Rimandate subito.»

Appare oggi singolare come fosse così poco importante il campanile di una chiesa da farlo prendere a cannonate solo per dare un segnale, ma erano tempi di guerra…
Il latore del messaggio era il primo tenente Ljudevik Pivko, ufficiale di complemento sloveno dell'Imperial Regio Esercito Austro-ungarico, 37 anni, sposato, padre di 4 figli, professore di diritto e di filosofia a Maribor. I militari austro-ungarici rimasti in Valsugana erano formati da due divisioni «fantasma», nel senso che gli armamenti erano ridotti ai minimi termini e i militari erano di età inferiore o superiore agli obblighi di leva. Per principio l'Impero non metteva mai insieme militari della stessa etnia per evitare che nascessero delle «combine», ma in Valsugana e in quel momento doveva essere l'ultimo problema che i comandi si erano posti.
Senza neppure essere perquisito, Pivko venne condotto al Comando Divisione di Pieve Tesino, dove consegnò il plico con gli schizzi al Capo di Stato Maggiore della 51ª Divisione, T.Col Cerreti.
Presa visione del «piano di difesa» citato nel messaggio, il maggiore Cesare Pettorelli Lalatta si convinse che non era un tranello e fece dare il segnale convenuto, per incontrarsi con Paulin la notte del 15 luglio. L'appuntamento era nella terra di nessuno. Il maggiore venne così a conoscenza che la rete del tenente Pivko, formata da 50 uomini e un ufficiale pilota, arrivava fino al comando Trentino: era in grado di conoscere gli ordini prima dei reparti.
Pivko avrebbe potuto mettere fuori combattimento l'intero battaglione di appartenenza con delle droghe mischiate nel rancio, offrendo così agli Italiani la possibilità di compiere un'incursione alle spalle del dispositivo di difesa, che avrebbe potuto mettere in crisi l'intero fronte austriaco fino a Trento, praticamente sguarnita.
Nella logica di una più complessa operazione, attraverso la val Calamento, il passo Manghen e val Cadino, si poteva giungere fino ad Ora superando Sella di S. Lugano. Comunque sia, un bel successo non sarebbe guastato al nostro esercito e magari avrebbe fatto richiamare un po' delle truppe appena trasferite sul Carso.

Il piano operativo, così come concepito da Pivko, si proponeva di togliere la corrente elettrica dai reticolati, di addormentare la truppa (gli intrugli dovevano portarli i nostri), di ammassare il materiale bellico sulla sponda sinistra del Torrente Maso, ivi compresa una passerella necessaria per superare il corso d'acqua. Inoltre, avrebbe comunicato le parole d'ordine, interrotto le comunicazioni telefoniche e telegrafiche e infine messo a disposizione i suoi uomini che facessero da guida ai reparti italiani.

Quando gli ufficiali del Sim cercarono di prendere contatto con Cadorna, dovettero fare la fila. Tantovero che solo in agosto Marchetti riuscì a parlare con il comandante supremo. Comunque sia, ebbe l'opportunità di esporgli il suo parere favorevole in ordine alla consistenza del progetto del maggiore Pettorelli. Ma solo il 4 settembre Pettorelli fu finalmente ricevuto da Cadorna.
Secondo il piano del maggiore, l'operazione sarebbe dovuta avvenire utilizzando truppe celeri con batterie autoportate e autoblindo dotate di mitragliatrici sulle retrovie. Avrebbero preso le retrovie austriache, per puntare poi arditamente con una colonna su Trento e con l'altra per Val Calamento e Val Candino, sulla Sella San Lugano, su Ora, Bressanone, Brennero… E magari Vienna, perché no?
Cadorna concordò per lui un nuovo incontro allargato per il 7 settembre con il gen. Etna, comandante del XVIII Corpo d'Armata. In quella occasione, precisò il maggiore Pettorelli, sarebbe stato opportuno impiegare per la prima azione (quella di infiltrazione) delle truppe scelte, già esperte della zona e bene orientate sui compiti ad esse assegnati.
Cadorna invitò quindi il generale Etna a leggere l'ordine di operazioni che aveva preparato. Le truppe destinate alla prima fase erano 21 battaglioni e oltre cento pezzi di artiglieria suddivisi in 12 colonne, al comando del generale Attilio Zincone.

Ora Zero del 17 settembre 1917

L'ora zero avvenne praticamente due mesi dopo la conoscenza della grande opportunità.
I reparti esperti erano dei bersaglieri che non avevano mai affrontato la prova del fuoco. Erano stati equipaggiati con qualsiasi cosa, ivi compresa la coperta per la notte e i viveri per due giorni, alla faccia dell'agilità con la quale avrebbero dovuto muoversi, agire e combattere. Infine, ciliegina sulla torta, i reparti giunsero solo la vigilia dell'attacco, sicché non ebbero neppure l'opportunità di conoscere le direttive dell'operazione. Tutto allo sbaraglio? No. Più semplicemente, Cadorna avrebbe utilizzato l'operazione solo come un sistema per distrarre i comandi dal fronte dell'Isonzo. Ma non lo disse agli interessati.

La prima parte dell'azione ebbe comunque pieno successo. Il maggiore Pettorelli, dopo aver raggiunto la località di Castellare e il ponte sul Torrente Maso, alle ore 02,00 entrava in Carzano, senza colpo ferire, con la 6ª compagnia arditi ed il LXXII battaglione bersaglieri comandato dall'incerto maggiore Giovanni Ramorino. Due congiurati avevano reso inoffensiva una batteria a Telve e più di duecento prigionieri austriaci erano stati riuniti dai bersaglieri nella chiesa di Carzano (non sappiamo se il campanile fosse ancora in piedi o no…), in attesa di essere trasferiti nelle nostre retrovie.

A questo punto scoppia il caos. Anzitutto - da non credersi - avevamo dimenticato il cambio dell'ora legale, che gli austriaci facevano due notti prima di noi. Ma poi accadde che il grosso delle colonne italiane, 21 battaglioni e oltre cento pezzi di artiglieria, anziché percorrere la strada Strigno-Spera larga 4 metri, erano state avviate per un vecchio e stretto serntiero, parallelo alla strada. La scaletta dei tempi che scandiva l'azione era automaticamente saltata in un'operazione dove tutto doveva svolgersi con precisione cronometrica.

Alcuni austriaci danno l'allarme, ma questo per nostra fortuna ingenera panico negli avversari (gli ci vorranno 7 ore per dare corpo ad una parvenza di reazione). A Strigno il generale Zincone riesce a mettere in movimento le colonne solo alle 3,30 e a farsi assegnare due compagnie di bersaglieri ciclisti, da far convergere rapidamente nella zona in cui era stata aperta la breccia. Il movimento si avvia, ma purtroppo il tiro delle artiglierie nemiche, che nel frattempo si erano poste in stato di allarme, si concentra su Carzano. Senza esitazione il timoroso generale Zincone ordina alle truppe di sospendere l'azione e di ritirarsi ai punti di partenza.
Fine delle operazioni.

Il Col. Pirzio Biroli, che comandava i bersaglieri ciclisti, affermò in seguito che l'impresa era fallita per la cattiva preparazione e che, nonostante il notevole ritardo di tempo che si era accumulato, aveva invano domandato al generale Zincone, di andare avanti, ma questi non seppe prendere alcun provvedimento.
In quella maldestra azione persero la vita 13 ufficiali e 896 soldati del Regio Esercito italiano; 10 ufficiali e 306 soldati dell'Imperial-Regio Esercito austro-ungarico.

Le operazioni del LXXII battaglione bersaglieri

Già dalle ore 23 del 17, i congiurati che faranno da guide erano sui punti loro assegnati. Passava il tempo e non si vedeva nessuno. La paura serpeggiava fra di loro e alcuni lasciarono, pregiudicando il cammino dei soldati in arrivo (molti si perderanno, nella notte particolarmente buia). Gli altri, cechi, che rimangono hanno difficoltà a capirsi coi soldati italiani, i cui interpreti parlano il tedesco e non il ceco... Fra gli stessi italiani avvengono sparatorie perché si confondono con il nemico.
Il panico che si era diffuso rischiava di compromettere anche la posizione di Pivko. Sfuggì per miracolo ad una esecuzione sommaria (due dei suoi non ce la faranno). Con i pochi e maldestri soldati che avevano, gli austriaci contrattaccarono mettendo in difficoltà i bersaglieri del LXXII. Il grosso degli italiani si era intanto ritirato, anzi non era mai arrivato, e i bersaglieri si ritrovarono isolati senza saperlo. Sul battaglione sparò anche l'artiglieria italiana facendo il vuoto. Ramorino, ferito, cadde nel Torrente Maso, affogando.
La relazione ufficiale spiegò inoltre che la 7ª colonna perse la guida e si fermo a Spera anziché al torrente, l'8ª che doveva andare a Carzano andò a nord verso Caverna, la 9ª partì con un'ora di ritardo e si ritrovò coinvolta in una sparatoria e dopo, verso mattina, arrivò l'ordine di ritiro quando la 10ª si stava muovendo.
Nella piazza di Carzano c'è il monumento ai bersaglieri del 72° caduti il 18 settembre 1917

Le inchieste

Gli italiani evitarono di dare troppa pubblicità allo smacco e i tedeschi ne smorzarono i toni per evidenti motivi di opportunità. Ma le inchieste vennero aperte lo stesso.

L'inchiesta militare austriaca così versò agli atti: «…Doversi cioè il Paese rallegrare per aver potuto superare, senza letali conseguenze per l'Impero, il grosso pericolo che lo aveva minacciato, la cui gravità, basata sul più abietto tradimento, era tale da sgomentare.»
Inoltre, uno storico militare ebbe a scrivere: «La paralisi della nostra difesa nel settore di Carzano offrì agli italiani una rara chance di grande successo. Questo fu proprio offerto agli italiani sul vassoio e ciò nonostante l'impresa fallì non in piccola parte per la dappocaggine del comando italiano giacchè gli italiani, stipandosi su un unico passaggio persero tempo prezioso. Profittando della sorpresa e della oscurità della notte essi avrebbero potuto colpirci, avanzando anche solo nella valle, in modo particolarmente sensibile. Sono evidentemente mancati l'accordo e i contatti fra il gruppo avanzato di assalto, che ha adempiuto bene ai suoi compiti, e la brigata di riserva. Apprendiamo però con orrore che la cospirazione era durata settimane, che sui prigionieri vennero ritrovate riproduzioni fotografiche e topografiche di tutte le nostre posizioni e che esse erano esatte in tutti i dettagli, che le nostre truppe vennero perfidamente frodate dei loro più efficaci mezzi di difesa, che lavori di difesa nostri furono appositamente ritardati, frustrati. Una grande sciagura ci ha sfiorati; da essa dobbiamo imparare.»

Cadorna scrisse in una lettera al figlio Raffaele: «Fiasco completo: hanno trovato qualche varco aperto, sono passati con comodo al di là, hanno catturato 200 prigionieri, ma non hanno potuto andare avanti, dicono, allegando il terreno difficile e l'oscurità mentre Etna, tre giorni prima, mi aveva detto che se pioveva e c'era nebbia, era meglio. Nota bene che l'allarme è stato dato cinque ore dopo l'inizio. Secondo me non c'è stato né l'animo in chi doveva dirigere, né la risoluzione in chi doveva eseguire. Che cosa vuoi concludere con gente simile? Decisamente non abbiamo ciò che ci vuole per le grandi imprese.»
I capaci c'erano, il problema era che lui non sapeva riconoscerli.

Pivko e quello che restava dei suoi fedeli collaboratori, passati al nostro campo, furono ancora utili al nostro Servizio Informazioni della 1ª Armata. L'indomani dell'insuccesso di Carzano, il Generale Cadorna convocò il maggiore Pettorelli e si fece riferire i fatti così come essi si erano svolti. Dispose poi che il generale Di Robilant, Comandante la 4ª Armata, conducesse una rapida inchiesta, a conclusione della quale i generali Etna e Zincone vennero esonerati dai loro comandi e, con loro - vittime innocenti - due o tre comandanti di reggimento, responsabili soltanto di aver eseguito l'ordine di sostare così come l'avevano ricevuto.

Ma la tragedia di Carzano ha una coda.

Nel 1939 Hitler conquista la Cecoslovacchia. Chi è il C.S. Maggiore dell'Esercito cecoslovacco? E' quel tenente Irsa, principale aiutante di Pivko nella congiura di Carzano. Hitler che è austriaco di Braunau ricorda benissimo l'episodio di Carzano come un tradimento alla sua patria di origine per cui fa immediatamente fucilare Irsa. Non solo, ma siccome nel museo di Praga erano ricordati come eroi tutti gli appartenenti alla divisione cecoslovacca organizzata dall'Esercito italiano, Hitler li fa ricercare e fucilare.
Pivko, lo sloveno, si salva perché era morto nel 37. La storia di Pivko meriterebbe da sola un altro capitolo.

Si ringraziano le farie fonti cui abbiamo attinto, in particolare Cesare Pettorelli Lalatta Finzi «Carzano 1917 - L'occasione perduta», edizioni Mursia, Milano, 1967, e www.viamichelin.it per le cartine che abbiamno potuto scaricare.

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