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Il 2 dicembre 1943 i tedeschi distrussero il porto di Bari

Gli aerei della Luftwaffe affondarono 17 navi alleate e ne danneggiarono gravemente altre otto. Fu un disastro secondo solo a quello di Pearl Harbour

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Il porto visto da una postazione antiaerea dopo l'attacco.

Il bombardamento di Bari - tanto grave quanto ignorato dai più - fu un'azione d'attacco aereo effettuata dalla Luftwaffe nei confronti del naviglio alleato attraccato nel porto di Bari, città occupata dalle forze britanniche l'11 settembre 1943 - tre giorni dopo l’8 settembre - in seguito alle operazioni di invasione dell'Italia continentale, durante la campagna d'Italia della seconda guerra mondiale.
La sera del 2 dicembre 1943, 105 bombardieri Junkers Ju 88 appartenenti alla Luftflotte 2 tedesca bombardarono le navi da trasporto ancorate alla fonda del porto.
L'attacco causò grosse perdite per gli alleati, che non subivano un'incursione aerea a sorpresa di tale efficacia a un proprio porto dall'attacco giapponese di Pearl Harbor.
 
Lo scopo dell'attacco aereo era quello di rendere inagibile il porto, nel quale affluiva la maggior parte dei rifornimenti per le truppe dell'8ª Armata britannica e per le basi aeree alleate nell'area di Foggia.
Otto navi cargo furono gravemente danneggiate mentre quelle affondate furono 17, i cui relitti bloccarono il porto per tre settimane.
Gli anglo-americani, messi in difficoltà nell'approvvigionare le proprie truppe, dovettero quindi rallentare sia l'offensiva terrestre in Italia sia la costruzione degli impianti aeroportuali di Foggia.
Durante l'attacco venne colpita la nave statunitense SS John Harvey, che trasportava un importante carico di bombe all'iprite, dalla quale fuoriuscirono per alcuni giorni una grande quantità di sostanze tossiche che contaminarono le acque del porto, i militari e i civili nella zona mentre le bombe inesplose finirono sul fondo delle acque del porto.
 

Navi alleate in fiamme nel porto.
 
 Il contesto  
In vista dell'imminente invasione nel sud Italia, l'aviazione anglo-americana aveva risparmiato dai bombardamenti il porto di Bari, considerato strategico come futuro centro di approvvigionamento dei rifornimenti per l'8ª Armata britannica e per l'aviazione alleata, che stava costruendo una decina di aeroporti nella zona di Foggia e in altre parti della regione.
Tale decisione venne presa in seno all'offensiva aerea che gli alleati intendevano intensificare contro i centri industriali della Germania meridionale e contro le linee di rifornimento tedesche in Italia, e in questo senso l'utilizzo immediato degli aeroporti e dei porti della zona di Foggia fu considerato dagli alti comandi alleati di primaria importanza.
Fu addirittura deciso che le operazioni di rifornimento del fronte nella testa di ponte di Salerno, avrebbero dovuto cedere il passo alle esigenze poste dall'allestimento di un complesso di grandi basi aeree nell'area di Foggia.
Il trasporto dei bombardieri pesanti richiedeva un naviglio pari a quello necessario per trasferire due divisioni, e per mantenerli operativi occorreva una quantità di rifornimenti che doveva bastare per tutta l'8ª Armata.
 
Il 1º dicembre 1943 la 15ª Forza aerea (Fifteenth Air Force), appena creata, installò a Bari il suo quartier generale, al comando del maggior generale James H. Doolittle, che si trasferì in riva al mare in un elegante edificio precedentemente utilizzato dall'aviazione italiana.
Doolittle aveva il compito di intensificare i bombardamenti contro gli obiettivi strategici, come gli impianti aeronautici e le raffinerie tedesche, che erano l'obiettivo dei bombardieri alleati che partivano dalle basi del sud della Gran Bretagna.
Le basi alleate in Italia avrebbero agevolato tali operazioni, considerando sia la minor distanza da coprire per i bombardieri situati nella zona di Foggia, sia la maggior clemenza delle condizioni atmosferiche italiane rispetto a quelle britanniche.
Inoltre l'aviazione alleata aveva il controllo totale dei cieli italiani e i bombardieri tedeschi a lungo raggio avevano compiuto solo otto incursioni in Italia dalla metà di ottobre in poi, di cui quattro contro Napoli a novembre.
 
Quasi tre quarti degli aerei della Luftwaffe erano stati trasferiti in Germania per la difesa del Reich mentre i bombardieri alleati avevano costantemente aumentato la pressione contro gli aeroporti nemici, tanto che quel periodo venne soprannominato dagli aviatori alleati come i «giorni della festa del Reich».
Forte di questa situazione, nel pomeriggio del 2 dicembre 1943, il maresciallo dell'aria sir Arthur Coningham, comandante della Northwest African Tactical Air Force, tenne una conferenza stampa dove dichiarò che i tedeschi avevano perso la guerra aerea, tanto vero che affermò: «Io lo considererei come un insulto personale se il nemico tentasse qualche azione significativa in quest'area».
Le classiche ultime parole famose, pronunciate poche opre prima del disastro.

La difesa aerea di Bari fu dunque trascurata; nessuna squadriglia di caccia della RAF aveva base lì, e i caccia che si trovavano nel raggio d'azione furono assegnati a scortare altri convogli o in missioni d'attacco, ma non per la difesa del porto, le cui difese a terra erano del tutto insufficienti.
Il comando della Luftwaffe, invece, intenzionato a fermare, intralciare o almeno rallentare i rifornimenti alleati che giungevano al porto di Bari, aveva pianificato da tempo un attacco contro le navi che giornalmente attraccavano nel porto, attendendo il momento propizio per eseguire tale operazione: esso fu fissato per i primi giorni di dicembre, quando la luna crescente avrebbe consentito una sufficiente visibilità ai piloti, e reso meno individuabili gli aeroplani.
 
Il 2 dicembre diverse decine di navi alleate si trovavano presso il porto di Bari. A causa delle poche ore di luce disponibili a dicembre, per accelerare lo scarico delle forniture il porto dopo il tramonto venne illuminato a giorno e stava lavorando a piena capacità.
Fra le navi ancorate nel porto, al molo 29 era attraccata la nave di classe Liberty John Harvey comandata dal capitano Knowles, arrivata quattro giorni prima dopo un lungo viaggio che da Baltimora era proseguito con soste a Norfolk, Orano e Augusta.
Il piroscafo attendeva al porto di scaricare il suo contenuto: 1.350 tonnellate di bombe contenenti una sostanza tossica nota ai chimici come solfuro di dicloro-etile, o più comunemente iprite.
Benché diversi funzionari fossero al corrente dell'insolito e pericoloso carico, fu data la precedenza ad altre navi che trasportavano forniture mediche e munizioni convenzionali, e la John Harvey rimase in attesa al molo a fianco ad altre quattordici imbarcazioni.
U-Boote tedeschi erano presenti nell'Adriatico, e gli inquirenti conclusero in seguito che «la nave era nel posto più sicuro che si fosse riusciti a scovare in quel momento».
 

Altre navi alleate in fiamme.
 
 I dubbi sulle armi chimiche  
Durante l'operazione Torch (lo sbarco degli alleati nel Nord Africa), gli alleati non avevano trovato nessun deposito di armi chimiche dell'Asse e lo stato maggiore alleato ne riteneva «improbabile» l'uso, «se non in un momento critico della guerra, in cui una tale misura potrebbe essere ritenuta decisiva».
Il comandante supremo delle forze alleate in Europa, Dwight Eisenhower, si chiese però se quel momento non stesse arrivando e, in base alle informazioni ricevute dai servizi segreti italiani, alla fine di agosto aveva informato il generale George Marshall che Berlino aveva «minacciato di ricorrere ai gas e attuare una vendetta terribile, se l'Italia si fosse rivoltata contro la Germania», anche per dare una lezione agli alleati titubanti.
Lo stesso Winston Churchill, in una nota al presidente Roosevelt, aveva ritenuto possibile tale opzione, dato che da alcuni prigionieri tedeschi catturati dalla 5ª Armata statunitense era emerso che la Germania si stava preparando a una guerra chimica, e gli alleati avevano allo stesso tempo raccolto notizie su un gas nuovo in preparazione in diciannove impianti in Germania e in altri paesi sparsi nell'Europa occupata dal Reich.
 
Nessun comandante alleato poteva ignorare il rischio che i tedeschi utilizzassero le armi chimiche, delle quali furono i primi utilizzatori durante l'attacco a Ypres nel 1915. Ma poiché gli allarmi e le relazioni a tal proposito si susseguivano, in agosto Roosevelt ammonì Berlino che «ci sarebbe stata una rappresaglia immediata della stessa natura», e in questo senso le autorità militari alleate avevano autorizzato la costruzione di depositi chimici in Nordafrica per permettere una rappresaglia immediata in caso di attacco tedesco.
Il Dipartimento di guerra statunitense aveva quindi stabilito di trasportare in segreto nel Mediterraneo una ingente quantità di gas venefici, sufficiente per una rappresaglia di 45 giorni sulla Germania, incluse più di 200.000 bombe a gas, e un grande quantitativo di iprite sarebbe stato immagazzinato in depositi di Foggia, cominciando proprio dal carico della John Harvey.
 

Il molo devastato.
 
 L'attacco aereo tedesco  
Alle 17:30, mentre la maggior parte dei soldati alleati erano fuori servizio o si stavano svagando, un altro convoglio arrivò al porto di Bari, facendo salire il numero delle navi ormeggiate a circa quaranta.
Nel frattempo durante un volo di ricognizione fotografica sopra l'area di Bari, il pilota tedesco Werner Hahnd a bordo di un ricognitore Messerschmitt Me 210, volando ad alta quota, avvistò le oltre 40 navi ancorate.
 
Il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante tedesco in Italia, con il suo stato maggiore aveva in precedenza considerato come possibili obiettivi i campi di aviazione alleati presso Foggia, ma alla Luftwaffe mancavano le risorse necessarie per attaccare con successo un così grande complesso.
Il Generalfeldmarschall Wolfram von Richthofen, comandante della Luftflotte 2, aveva suggerito come alternativa Bari.
Richthofen riteneva che paralizzando il porto si sarebbe potuto allentare la pressione dell'8ª Armata britannica contro le forze tedesche, e allo stesso tempo bloccare temporaneamente lo scarico dei rifornimenti nel porto.
Egli comunicò a Kesselring che gli unici aerei disponibili erano i suoi bombardieri Junkers Ju 88, ed era in grado di radunarne 150 per il raid. Ma giunta la segnalazione da parte del ricognitore tedesco solamente 105 Ju 88 erano disponibili per l'azione, che venne immediatamente avviata.
 

Uno Junkers Ju 88, il bombardiere impiegato dalla Luftwaffe durante il raid su Bari. Non era grande velivolo, inferiore al nostro Savoia-Marchetti S.M.79 Sparviero (detto «Gobbo maledetto»), peraltro già superato anche lui. Ma i tedeschi non avevano di meglio.

Alle 19:30, dal suo ufficio sul mare, proprio Doolittle sentì il rombo degli aerei, ma non erano dei C-47 come lui pensava, bensì i primi due incursori della Luftwaffe che sganciarono scatole piene di striscioline di stagnola, che gli alleati chiamavano Window (finestra) i tedeschi Düppel (imbroglio), che servivano a deflettere e a disperdere i segnali radar.
Gli alleati e i tedeschi erano dotati di radar. Solo gli italiani, che pure lo avevano scoperto da tempo, non ce l’avevano in dotazione perché i vertici militari lo avevano definito «inutile».
 
La maggior parte degli aerei tedeschi decollò da cinque aeroporti nel nord Italia (tra cui Orio al Serio e Ronchi dei Legionari), mentre alcuni erano provenienti da due aeroporti nei pressi di Atene.
Ai piloti dei bombardieri fu ordinato di volare verso est fino a circa 30 miglia a nord-est di Bari, dove alle 19.25 avvenne il concentramento dello stormo, da dove gli aerei virarono verso sud-ovest e raggiunsero la città volando a bassissima quota per sfuggire ai radar nemici.
Per motivi tecnici 17 apparecchi tedeschi dovettero abbandonare la rotta sull'Adriatico per cui gli aerei effettivamente partecipanti alla fase finale dell'attacco furono 88.
 
Lo stormo compatto giunse in prossimità del molo foraneo del porto di Bari; lo stratagemma di occultamento radar funzionò in pieno, anche grazie al fatto che il radar principale inglese, quello che per primo avrebbe dovuto lanciare l'allarme ed era situato sul tetto del teatro Margherita al termine di corso Vittorio Emanuele, in riva al mare, non funzionava da giorni.
I caccia britannici, che come ogni giorno venivano mandati a pattugliare il cielo fino al crepuscolo, erano già rientrati, mentre i comandi alleati avevano imposto all'artiglieria navale di sparare solo in caso di attacco in corso, per scongiurare il pericolo di fuoco amico.
Questa concomitanza di fattori favorevoli consentì ai primi venti bombardieri Ju 88, guidati dalle luci portuali e dai propri razzi, di giungere sugli obiettivi ad appena cinquanta metri d'altezza.
 
Dal porto si alzarono le scie di alcuni traccianti, ma i cannonieri, accecati dal chiarore, spararono a casaccio contro gli incursori.
Le prime bombe caddero nel centro della città e uccisero soldati e civili vicino all'Hotel Corona.
Altre bombe squarciarono le condutture di carburante nel porto, e il petrolio si sparse ovunque. La fiancata della Joseph Wheeler venne squarciata da una bomba, mentre un'esplosione distrusse il ponte della John Bascom.
Il carico sanitario di questa nave prese rapidamente fuoco e gli ormeggi di poppa bruciarono, e la nave finì contro la John L. Motley, carica di 5.000 tonnellate di munizioni, che era peraltro già stata colpita da una bomba al portello numero 5.
 
La Motley in fiamme andò a cozzare contro la diga marittima ed esplose, uccidendo 64 uomini dell'equipaggio.
Lo scoppio demolì la fiancata sinistra della Bascom, mentre un ordigno esplose nella sottocoperta del mercantile britannico Fort Athabaska, uccidendo 45 dei suoi 55 uomini dell'equipaggio.
Inizialmente il vento soffiava in direzione opposta alla città, in modo tale da agevolare la popolazione, ma in poco tempo cambiò direzione; la zona attorno al porto venne invasa dal fumo.
In aggiunta, le acque del mare vennero invase dalle fiamme dato che nafta e altri combustibili bruciavano sulla sua superficie; molti marinai perirono nel tentativo di tornare sulla terra ferma.
 

Militari britannici osservano le navi ancora in fiamme durante i giorni successivi.

 Le conseguenze  
Il porto rimase inoperativo per tre settimane e tornò in piena efficienza solo a febbraio 1944. In quella mezz'ora di bombardamento erano state distrutte circa 38.000 tonnellate di materiale, inclusa una grande quantità di attrezzature mediche, e oltre 10.000 tonnellate di lastre d'acciaio destinate alla costruzione degli aeroporti.
Il cacciatorpediniere di scorta HMS Bicester, danneggiato dal bombardamento, fu rimorchiato in direzione del porto di Taranto il giorno dopo, ma durante il tragitto parte del personale accusò disturbi agli occhi, come ad esempio dolori e bruciori; nonostante tutto ciò la nave riuscì faticosamente ad arrivare alla sua destinazione].
 
Fin dalle primissime ore seguenti all'attacco gli ospedali militari si riempirono di uomini, tra cui molti marinai con gravi irritazioni agli occhi, polso debole e pressione bassa, in uno stato quasi letargico.
Le prime vescicole piene di liquido apparvero sui pazienti il venerdì mattina, che furono diagnosticate come «dermatite non ancora identificata».
Le autorità ospedaliere non furono avvertite della presenza di iprite in una delle navi colpite, per cui centinaia di persone non vennero trattate con le semplici precauzioni che potevano salvargli la vita, ad esempio togliendosi i vestiti che erano stati esposti al gas e lavarsi, cosicché moltissimi continuarono a respirare le esalazioni inodori emanate dai loro vestiti.
 
Le notizie del bombardamento furono immediatamente sottoposte alla massima censura, soprattutto per cercare di non far trapelare la notizia del carico di iprite a bordo della Harvey.
Coloro che erano a conoscenza del carico si riunirono a Bari alle 14:15 di venerdì: sei ufficiali britannici e americani decisero che per questioni di sicurezza «non bisognava dare l'allarme generale», e le uniche misure adottate furono quelle di disinfettare i frangiflutti del molo 29 con una tonnellata di candeggina e affiggere cartelli con scritto «Pericolo – Esalazioni».
La prima morte a causa dell'iprite avvenne circa 18 ore dopo l'attacco, e ne seguirono subito altre, ma se la segretezza alleata riuscì ad ingannare inizialmente la gente comune, non fece altrettanto con il nemico.
La famosa annunciatrice radio tedesca Axis Sally cinguettò durante una trasmissione di propaganda: «Vedo che voi ragazzi vi avvelenate con i vostri stessi gas», e nei giorni subito dopo la divisione Hermann Göring e altre unità presenti in Italia intensificarono l'addestramento alla guerra chimica, mentre un memorandum dell'alto comando tedesco ammoniva: «Gli alleati potrebbero cominciare a lanciare i gas».
 

Una nave cargo in fiamme.
 
 I danni e le scoperte dell’iprite  
I medici non ci misero molto tempo a rendersi conto che la «dermatite», i cui sintomi andavano dalla pelle bronzea alle pustole enormi, fosse dovuta all'esposizione all'iprite.
Più di mille soldati alleati morirono o risultarono dispersi, mentre gli ospedali militari confermarono 617 casi di contaminazione, 83 dei quali mortali, anche se l'inchiesta successiva parlò di «molti altri per i quali non esistono testimonianze».
Anche tra i civili ci furono all'incirca un migliaio di vittime, ma nessun resoconto ha mai chiarito il numero delle persone tra la popolazione che perirono a causa della contaminazione chimica.
Per motivi di sicurezza in un memorandum del quartier generale alleato dell'8 dicembre, tutti questi casi vennero diagnosticati come «dermatite non identificata», e i generali alleati tennero la massima riservatezza sia con la stampa sia con i sottoposti.
Successivamente Eisenhower ordinò la creazione di una commissione segreta d'inchiesta, che nel marzo 1944 concluse che i casi di «dermatite» furono causati dalla fuoriuscita di iprite dalla stiva della John Harvey.
Winston Churchill, tuttavia, ordinò che tutti i documenti britannici venissero classificati e segretati, elencando le morti per iprite come «ustioni a causa di un'azione nemica», mentre lo stesso Eisenhower, seppur confermando nel suo libro di memorie la presenza di iprite, si mantenne vago, sostenendo che il vento che spirava verso il largo spinse il gas lontano dal porto, senza causare vittime.
 
Il dott. Stewart F. Alexander, uno dei medici che a metà dicembre furono inviati a Bari nel contesto dell'inchiesta segreta voluta da Eisenhower, conservò molti campioni di tessuto dalle vittime sottoposte ad autopsia e dopo la seconda guerra mondiale questi campioni divennero molto utili nello sviluppo di una prima forma di chemioterapia a base di iprite, la mecloretamina.
A conseguenza di questo incidente, fu creato dagli alleati un programma di ricerca segreto sugli effetti dei gas sull'uomo.
A studiare l'effetto dell'azotiprite furono chiamati due scienziati dell'università di Yale, Louis Goodman e Alfred Gilman.
Studiando gli effetti mielotossici selettivi che si erano riscontrati su sopravvissuti agli effetti vescicanti dell'iprite a Bari, presero il via una sperimentazione controllata dapprima su modelli animali e poi su alcuni malati di neoplasie di origine linfatica.
Riscontrarono remissioni significative, anche se di breve durata, ma i risultati non poterono essere pubblicati se non dopo la fine della guerra, per il vincolo di segretezza che copriva il programma militare.

GdM

 Perdite  
L'attacco iniziò alle 19.30.
Morirono circa mille militari alleati e altri mille civili.
Furono affondate 17 navi cargo e altre 8 furono gravemente danneggiate.
Presumibilmente solo 2 furono gli aerei persi dai tedeschi, abbattuti dalla contraerea italiana.
Il cessato allarme fu dato alle 23, quando le sirene suonarono.
L'operazione ritardò di tre mesi la campagna d'Italia.
Tedeschi e alleati non usarono mai le armi chimiche.
Nella tabella che segue le navi affondate o gravemente danneggiate.

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