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Quella notte di sangue di 80 anni fa: vendetta, firmata Trentino

Dopo le violenze delle truppe marocchine che avevano sfondato a Montecassino, qualcuno decise di passare alle vie di fatto

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Scena del film «La Ciociara», per il quale Sofia Loren vinse il Premio Oscar alla migliore attrice protagonista.
I fatti che si narrano riguardano le circostanze riportate nel film.
Non se ne parla mai abbastanza e forse, se non fosse stato per il film di Vittorio De Sica, non se ne saprebbe nulla.

Il 14 maggio 1944 le unità del Corpo di spedizione francese in Italia, composto per il 60% da reparti di origine nordafricana, attraversarono il terreno apparentemente insuperabile nei monti Aurunci.
Aggirarono le linee difensive tedesche nell'adiacente Valle del Liri, consentendo al XIII Corpo britannico di sfondare la linea Gustav e di avanzare fino alla successiva linea di difesa predisposta dalle truppe germaniche, la linea Adolf Hitler.
In seguito a questa battaglia si verificarono i saccheggi dei paesi e le violenze sulla popolazione.
 
A seguito delle violenze sessuali molte persone furono contagiate da sifilide, gonorrea e altre malattie a trasmissione sessuale, e solo l'uso della penicillina statunitense - scoperta da poco - salvaguardò quelle zone da una vasta epidemia.
Molte donne rimasero incinte e altrettante abortirono o ebbero aborti spontanei. Benché non siano state fatte ricerche in merito, si ritiene che si verificarono diversi casi di suicidio tra le donne violentate, nonché molti casi di infanticidio della prole nata dallo stupro.
Per le migliaia di donne rimaste incinte, il solo orfanotrofio di Veroli, accoglieva dopo la guerra circa 400 bambini nati da quelle violenze sessuali.
 
 Le testimonianze  
Il sindaco di Esperia (comune in provincia di Frosinone) affermò che nella sua città 700 donne su un totale di 2.500 abitanti furono stuprate, e alcune di esse, in seguito a ciò, morirono.
Con l'avanzare degli Alleati lungo la penisola, eventi di questo tipo si verificarono anche altrove: nel Lazio settentrionale e nella Toscana meridionale.
Lo scrittore Norman Lewis, all'epoca ufficiale britannico sul fronte di Montecassino, narrò gli eventi:
«Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate... A Lenola il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n'erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi. I marocchini di solito aggrediscono le donne in due - uno ha un rapporto normale, mentre l'altro la sodomizza.»
 
Diverse città laziali furono investite dalla furia dei «goumier» (truppe marocchine): si segnalano nella Provincia di Frosinone le cittadine di Esperia, Pontecorvo, Vallecorsa, Castro dei Volsci, Vallemaio, Sant'Apollinare, Ausonia, Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, San Giorgio a Liri, Coreno Ausonio, Morolo e Sgurgola, mentre nella Provincia di Latina si segnalano le cittadine di Lenola, Campodimele, Spigno Saturnia, Formia, Itri, Terracina, San Felice Circeo, Roccagorga, Priverno, Maenza e Sezze, in cui numerose ragazze e bambine furono ripetutamente violentate, talvolta anche alla presenza dei genitori.
Numerosi uomini che tentarono di difendere le proprie congiunte furono uccisi o violentati a loro volta.
Il parroco di Esperia don Alberto Terrilli che cercò invano di salvare tre donne dalle violenze dei soldati, fu legato e sodomizzato tutta la notte, morendo due giorni dopo per le sevizie subite.
 
A Pico i soldati statunitensi del 351º reggimento fanteria (della 88ª divisione di fanteria, i cui membri erano soprannominati i «blue devils» per la loro ferocia in combattimento) giunsero mentre i goumier stavano compiendo le violenze, ma furono bloccati dal comandante francese del reparto, che disse loro che «erano qui per combattere i tedeschi e non i francesi».
In una relazione redatta il 28 maggio 1944 del capitano italiano Umberto Pittali viene detto che «ufficiali francesi lasciano ai marocchini una discreta libertà di azione» e «preferiscono ignorare» quanto accade.
 
Don Alfredo Salulini nel suo libro Le mie memorie del tempo di guerra (Casamari, Tipolitografia dell'Abbazia, 1992), racconto autobiografico, cita un episodio di una giovane ragazza di appena 16 anni tenuta prigioniera in un casolare di campagna all'inizio di Vallecorsa e costretta a subire violenza carnale da un intero plotone di goumiers (anche soldati francesi che si nascondevano tra loro), morta dopo una settimana di violenze.
«A S. Andrea, i marocchini stuprarono 30 donne e due uomini; a Vallemaio due sorelle dovettero soddisfare un plotone di 200 goumiers; 300 di questi invece, abusarono di una sessantenne.

A Esperia furono 700 le donne violate su una popolazione di 2.500 abitanti, con 400 denunce presentate. Anche il parroco, don Alberto Terrilli, nel tentativo di difendere due ragazze, venne legato a un albero e stuprato per una notte intera. Morirà due anni dopo per le lacerazioni interne riportate. A Pico, una ragazza venne crocifissa con la sorella. Dopo la violenza di gruppo, verrà ammazzata.
A Polleca si toccò l’apice della bestialità. Luciano Garibaldi scrive che dai reparti marocchini del gen. Guillaume furono stuprate bambine e anziane; gli uomini che reagirono furono sodomizzati, uccisi a raffiche di mitra, evirati o impalati vivi.

Una testimonianza, da un verbale dell’epoca, descrive la loro modalità tipica: «I soldati marocchini che avevano bussato alla porta e che non venne aperta, abbattuta la porta stessa, colpivano la Rocca con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, quindi veniva trasportata di peso a circa 30 metri dalla casa e violentata mentre il padre, da altri militari, veniva trascinato, malmenato e legato a un albero. Gli astanti terrorizzati non potettero arrecare nessun aiuto alla ragazza e al genitore in quanto un soldato rimase di guardia con il moschetto puntato sugli stessi.»
 
Da alcuni documenti dell’Archivio Centrale dello Stato, risulta che a Pico furono violentate 51 donne da 181 franco-africani e da 45 francesi bianchi.
Questi crimini vennero minimizzati dalla Francia, sostenendo che erano state le donne italiane, in molti casi, a provocare i militari marocchini.

 Le reazioni delle autorità  
Il 18 giugno del 1944 papa Pio XII sollecitò Charles de Gaulle a prendere provvedimenti per questa situazione. Ne ricevette una risposta accorata e al tempo stesso irata nei confronti del generale Guillaume.
Ancora, il cardinale francese Tisserant rivolse una lamentela al generale Juin, che rispose che «si era provveduto alla fucilazione di 15 militari, accusati di stupri, colti sul fatto, mentre altri 54, colpevoli di violenze varie e omicidi, erano stati condannati a diverse pene compresi i lavori forzati a vita».
Entrò quindi in scena la magistratura francese, che fino al 1945 avviò 160 procedimenti giudiziari nei confronti di 360 individui.
I reparti coloniali vennero alla fine ritirati e la 2ª divisione marocchina venne reimpiegata sul fronte tedesco, nella Foresta Nera e a Freudenstadt, nell'aprile del 1945, dove accaddero ancora episodi di stupri e rapine.
 
 Dati sulle violenze  
Una nota del 25 giugno del 1944 del comando generale dell'Arma dei Carabinieri dell'Italia liberata alla Presidenza del Consiglio, segnalerebbe nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo, e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno 1944, giorni della liberazione di Roma), 418 violenze sessuali, di cui 3 su uomini, 29 omicidi, e 517 furti.
Numerosi stupri si sono verificati anche nei comuni di Latina, Lenola, Campodimele, Fondi, Formia, Itri, Sabaudia, San Felice Circeo, Sezze, Cori, Norma, Roccagorga, Latina, Maenza, Prossedi, Spigno Saturnia, Frosinone, Ceccano, Giuliano di Roma, Vallecorsa, Castro dei Volsci, Villa Santo Stefano, Amaseno, Esperia, Supino, Pofi, Pratica, Pastena, Pico, Pontecorvo.
Le stime ammonterebbero a circa 3.100 casi, come riportato in una inchiesta italiana sottostimata per difetto fino ai dati probabilmente inverosimili delle 50.000 denunce presentate entro la fine del conflitto.
Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi (presidente dell'UDI) denunciò che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60.000 violenze da parte delle truppe «Magrebine» del generale Alphonse Juin.

Quanto sopra fa parte della storia.
Quanto segue, invece, è solo un episodio che ci è stato raccontato da un soldato trentino degno della massima credibilità.
È impossibile dimostrarne la veridicità, ma l
o riportiamo fedelmente perché noi gli abbiamo creduto.

 Il ruolo dei trentini  
Il soldato trentino che ce l’ha raccontato, che per comodità chiamiamo Italo, si era arruolato nei paracadutisti italiani. Non perché fosse fanatico, ma «perché i parà avevano letti con materassi veri, non pagliericci (con i pidocchi)».
Essendo molto giovane, non fu mandato in missione all’estero, quindi evitò anche la battaglia di El Alamein, dove si salvarono in pochi.
Ma quando gli alleati sbarcarono in Sicilia, fu mandato insieme ai paracadutisti tedeschi (i Grünenteufel, Diavoli verdi) nella Piana di Catania, dove si combatté l’unica vera battaglia nell’isola.

Una notte, il suo reparto fu accerchiato dagli scozzesi e, al termine di una tempesta di fuoco, fu annientato. Italo, dopo aver sparato a un nemico, si rifugiò al suo fianco, perché sapeva che non gli avrebbero sparato per non colpire il loro camerata agonizzante. In qualche modo assisté il soldato che stava morendo invocando la sua mamma.
Quando la mattina fu fatto prigioniero, fu riempito di pugni e di calci e tramortito. Si ritrovò vivo in un campo di concentramento. Ma lui era completamente cambiato. Le parolone del Duce che predicavano la grandezza dell’Italia, erano scomparse in quella terribile notte e si rese conto che il tutto era assurdo. Non avrebbe più sparato e non si sarebbe più fatto sparare.

Quando fu il momento, fu interrogato dai comandanti italiani schierati con gli alleati. Gli chiesero se fosse disponibile a passare all’esercito di liberazione e lui accettò.
Gli chiesero il grado e la specializzazione. Rispose «sergente» anche se non era vero, così riceveva uno stipendio e mangiava meglio. Aggiunse di essere «specializzato nella bonifica di campi minati», così non combatteva. E poi, raccontava, era un rabdomante: poteva evitare di servirsi del metal detector…
 
Seguendo l’esercito italiano senza sparare un colpo, arrivò anche lui a ridosso di Montecassino, dove sembrava impossibile passare vista la resistenza tedesca.
Come sappiamo, i «goumiers» riuscirono a sfondare il fronte e compirono quelle orribili violenze di cui sopra abbiamo parlato.
Una notte un capitano trentino dei paracadutisti, che conosceva bene il nostro Italo, gli disse «Sét dei nòssi stanòt
Italo sapeva cosa avevano in testa. Ma aveva deciso da tempo.
«No, – rispose. – Io ho chiuso con le armi.»
Il capitano lo comprese, lo abbracciò e scomparve.

Poco dopo la compagnia di paracadutisti italiani comandata dal capitano trentino aprì il fuoco a raffica in tutte le tende dei goumiers montate nel loro accampamento.
La vendetta durò alcune ore e fu molto sanguinosa.
La mattina dopo si tenne un consiglio di guerra al comando degli alleati per decidere cosa fare dei paracadutisti vendicativi.
Fu deciso di portarli di stanza in Sardegna a tempo indeterminato, senza muovere alcuna accusa contro di loro.

I goumiers, come abbiamo scritto sopra, vennero poi utilizzati solo in Germania contro i tedeschi.
Italo proseguì il suo lavoro fino alla fine della guerra. Anzi, un po’ prima della fine. A una settimana dal 25 aprile aveva lasciato l’esercito italiano e si era recato autonomamente a Trento, tornando a casa sua, dove lo credevano morto.
Fu dunque il primo soldato liberatore a entrare a Trento alla fine della guerra. Ma questo, nessun libro di storia lo scriverà mai.

G. de Mozzi - g.demozzi@ladigetto.it

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