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Gian Carlo Caselli: «Non c’è libertà senza legalità»

«Garantiamo i diritti e trasformeremo i sudditi della mafia in cittadini nostri alleati»

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Gian Carlo Caselli, procuratore capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, è stato il protagonista dell'atteso incontro al teatro Sociale nel corso del quale si è esplorata una dimensione della libertà che rimanda ai classici del pensiero economico e politologico, quella legata alla legalità, al rispetto delle regole, alla certezza del diritto.

Introdotto dal giornalista Dario Laruffa, il magistrato ha parlato di lotta alla mafia, di esperienze positive come quella di Libera ma anche di come la ricerca della legalità sia minacciata dalla cattiva cultura, dai cattivi esempi, dai condoni, dagli scudi fiscali, dalle leggi ad personam.

«Tutte cose che non favoriscono l'Italia delle regole, che privilegiano l'Italia degli affaristi e dei furbi, di chi vede nelle regole un ostacolo fastidioso, degli impuniti.»

Da Caselli anche un appello alla difesa della Costituzione, una Costituzione che postula diritti uguali per tutti, e della libertà di informazione, che «inesorabilmente si riduce» ed invece una ferma stroncatura del progetto di riforma della giustizia che sta avanzando in Italia, che se realizzato «indebolirà la magistratura in maniera irreversibile».

Citando un libro scritto da Caselli, Laruffa ha aperto l'incontro dicendo che lo Stato è riuscito a sconfiggere il terrorismo ma non a vincere la guerra contro la mafia, perché mentre il terrorismo era percepito dalla società italiana come una sorta di corpo estraneo ciò non è avvenuto nei confronti del crimine organizzato.

Caselli ha ripreso questo spunto dicendo che «soltanto i cittadini consapevoli di essere realmente titolari di diritti possono dirsi davvero padroni di sé e quindi liberi».
«I diritti sono garantiti dal rispetto delle regole, dalla legalità. Ne consegue che il rapporto fra libertà e legalità è strettissimo. Quando i diritti dei cittadini non sono garantiti i cittadini non sono liberi, a volte possono trasformarsi persino in sudditi. Nelle aree caratterizzate da una forte presenza mafiosa ciò è addirittura logico.
«Il 10 agosto 1982, poco prima di morire, il generale Dalla Chiesa rilasciò un'intervista che è rimasta scolpita nella nostra memoria. Dalla Chiesa era un uomo d'ordine, uno sbirro con la esse maiuscola: al giornalista che gli chiedeva come si sconfigge la mafia rispose che gran parte delle protezioni e dei privilegi offerti dai mafiosi sono semplicemente i diritti dei cittadini.
«Garantiamo questi diritti e trasformeremo i sudditi in nostri alleati. E' quindi la latitanza delle istituzioni a produrre la mafia. Ma mafia significa anche impoverimento. Secondo il Censis se non ci fosse tanta mafia nel Mezzogiorno il Pil pro capite sarebbe simile a quello del Centro-nord.»

«Il punto di partenza però sono i diritti: se il cittadino vede che i suoi diritti non vengono garantiti dallo Stato si rivolge alla mafia, che trasforma questi diritti in favori.
«La mafia a sua volta genera povertà e quindi meno diritti, in un circolo vizioso che alimenta la criminalità organizzata e che i mafiosi conoscono benissimo.
«Le parole brutali che ho sentito pronunciate da un mafioso: quando venite nelle scuole a parlare di legalità ai nostri ragazzi, loro vi ascoltano, ma poi quando quei ragazzi escono da scuola, chi trova loro un lavoro?»

Ecco perché la lotta alla mafia non può essere delegata solo al potere giudiziario e alle forze dell'ordine.
Non può essere solo un'opera di repressione.
«Dev'essere un grande movimento culturale, morale e anche religioso, da cui scaturisce il fresco profumo della libertà.
«Dalla Chiesa e Borsellino chiedevano proprio questo, una grande partecipazione di massa alla lotta alla mafia.
«Se fossero qui con noi oggi, però, vedrebbero che qualcosa è stato fatto: le cooperative di giovani che lavorano sulle terre confiscate ai mafiosi, cooperative che consentono ai giovani uno straordinario riscatto proprio in termini di libertà.»

Non devono più baciare una mano insanguinata per lavorare, per vivere.
«Ecco la dimostrazione che la legalità paga, in termini di qualità della vita, di opportunità di lavoro. Sono solo i primi passi, passi fragili; ma ci consentono di rivendicare orgogliosamente che il nostro non è solo il paese della mafia, è anche il paese dell'antimafia, di un'antimafia che è anche e soprattutto sociale, e che fa capo prevalentemente a Libera.»

Ma non si deve pensare che il problema delle imprese criminali riguardi solo il Mezzogiorno. La mafia oggi è un'impresa economica; un'economia illegale fiorente cresce, prospera e si diffonde con l'attività mafiosa.
«Una sociologa palermitana ha parlato della principale caratteristica della mafia oggi in questi termini: qualcosa che ha una sostanziale continuità con se stessa e che mantiene un forte radicamento territoriale pur agendo in uno spazio globale, perché le mafie sono oggi delle multinazionali e prosperano attraverso un elenco di reati infinito: traffici illegali di ogni tipo, dalle droghe agli organi ai rifiuti, sfruttamento della prostituzione, truffe e pirateria, controllo del gioco d'azzardo, cybercrimini e così via.
«Le mafie prosperano sulle guerre, e laddove non ci sono le suscitano. Le mafie inquinano l'economia e la politica, sono i peggiori nemici della giustizia, della pace e della libertà dei popoli.»

«Le mafie generano nel mondo poteri che per consolidarsi e mantenersi usano la tortura; oggi anche i poteri legali a volte cercano di recuperare la tortura come uno strumento di azione legittimo - c'è chi dice che il covo di Bin Laden è stato scoperto a Guantanamo con la tortura dei prigionieri - e noi dobbiamo respingere questo pensiero.»

«Oggi - ha proseguito Caselli - si parla di mafia liquida, perché penetra ovunque. L'economia illegale utilizza strumenti a cui è difficile resistere: disponibilità di denaro a costo zero, annichilimento della concorrenza 'lecita', possibilità di rimandare nel tempo la realizzazione di profitti perché i mafiosi sono già ricchi.
«La mafia prospera grazie al riciclaggio e quindi si indirizza nelle aree dove maggiore è la produzione di ricchezza, perché lì è più facile mescolare il denaro sporco con quello pulito. A volte, specie nei momenti di crisi, l'economia criminale viene tollerata: si pensa che l'importante è che l'economia 'giri', e in questo modo le mafie colonizzano le economie legali, conculcano la nostra libertà. Il parallelo con il colonialismo è chiarissimo.»

«La mafia genera corruzione, una tassa occulta di 60 miliardi di euro, 1.000 euro a testa, una tassa che impoverisce il paese, che impoverisce le famiglie. Questo denaro viene sottratto ai suoi usi leciti, potrebbe essere impiegato per costruire case, ospedali, asili, centri anziani.»

«Lo Stato italiano ha firmato la convenzione di Strasburgo contro la corruzione ma non l'ha ancora ratificata. Non è ancora prevista ad esempio la confisca dei beni dei corrotti, così come avviene per quelli dei mafiosi. La legalità oggi cammina su gambe fragili, zoppe.
«È minacciata dalla cattiva cultura, dai cattivi esempi, dai condoni, dagli scudi fiscali, dalle leggi ad personam. Tutte cose che non favoriscono l'Italia delle regole, che privilegiano l'Italia degli affaristi e dei furbi, di chi vede nelle regole un ostacolo fastidioso, l'Italia degli impuniti.»

La legalità, dunque, è in crisi, ma questo dimostra con ancora più forza che la legalità è il potere dei senza potere. Se la gamba culturale su cui poggia la legalità è in crisi, Caselli ha ricordato che anche l'esercizio della giustizia è in crisi, che esistono pastoie e regole barocche che impediscono il regolare svolgimento dei processi, che li allungano all'infinito.
«Una riforma possibile potrebbe essere l'abolizione dell'appello; in questo modo libereremmo una quantità di risorse da destinare al processo di primo grado, a costo zero. Ma non si fa nulla.»

L'applauso del pubblico è scrosciato più forte quando Caselli ha detto che la riforma della giustizia che il governo sta prospettando avrà effetti devastanti, perché indebolirà in maniera fortissima la magistratura nel suo insieme.
«Il presidente del Consiglio ha detto che se questa riforma fosse stata fatta a suo tempo non avremmo mai avuto Tangentopoli. Non aggiungo altro.»

Aggiungiamo noi che l'intendimento della frase pronunciata dal premier era chiara: Con una giustizia diversa, non sarebbe stata tollerata la corruzione che ha portato a Tangentopoli.
Almeno negli intenti dobbiamo assolutamente riconoscere le buone intenzioni.

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