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«Innamorarsi di uno sguardo» – Racconto di Daniela Larentis

Riprendiamo con Daniela la pubblicazione di racconti scritti dai nostri lettori

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 Innamorarsi di uno sguardo  
Non prendeva mai l’autobus, tuttavia la sua auto era dal meccanico e lei doveva recarsi in centro.
Con uno stridio prolungato il pesante mezzo si fermò innanzi a lei, così salì. Si sedette nell’unico posto rimasto vuoto, sistemando la borsetta sopra le ginocchia.
Si mise a guardare fuori dal finestrino.
 
Le case si rincorrevano le une a fianco alle altre in un susseguirsi di forme e colori e gli alberi parevano inseguirle a lunghi passi. Sembrava che il mondo, là fuori, si fosse improvvisamente animato, impegnato in una magica danza alla quale partecipavano non solo gli uomini e l’intero genere animale, ma anche le piante e gli stessi edifici.
La suoneria del cellulare la scosse da quei pensieri.
Era il suo compagno, l’eterno «fidanzato», l’uomo con cui conviveva.
In ufficio c’era troppo lavoro da sbrigare, per cui sarebbe rincasato più tardi quella sera.
 
Di lui conosceva tutto o almeno questo era ciò di cui era convinta.
Tuttavia, un pensiero insidioso le sfiorò la mente, ma lo scacciò. Lei sapeva qual era il suo cibo preferito, ricordava perfettamente la marca della sua schiuma da barba, rammentava con assoluta certezza quali fossero i suoi gusti in fatto di film e non solo.
Fino a che punto lo conosceva? E, soprattutto, lui la conosceva? Intuiva i suoi bisogni più profondi? Provava le sue stesse emozioni? Condivideva con lei il medesimo tipo di sensibilità nei confronti della vita? Le loro anime avevano mai vibrato all’unisono?
 
«Ci conosciamo da tanto di quel tempo…» – meditò, nel tentativo di rassicurare se stessa.
«Ma non è forse più realistico pensare che talvolta basta un attimo per conoscere davvero qualcuno, mentre altre volte, invece, non basta una vita per farlo?» – Le suggerì impertinente una vocina dentro la sua testa, ma lei la allontanò subito, rievocando un ricordo felice che la fece sorridere.
Rimise distrattamente il telefono dentro la borsa e diede un’occhiata nello stretto raggio della sua corta visuale, così lo notò.
 
Di fronte a lei era seduto un uomo. Era impegnato in una conversazione telefonica e aveva lo sguardo perso in chissà quali pensieri, così ebbe modo di osservarlo.
Non avrebbe saputo attribuirgli un’età precisa, non era mai stata brava in questo, forse perché conoscere l’anno di nascita di chiunque era per lei un inutile dettaglio.
Controllava l’etichetta dello yogurt, quello sì aveva un senso, ma le persone fortunatamente non avevano scadenza e poco importava se gli altri erano saliti sul treno della vita prima o dopo di lei!

Sulle prime parve non accorgersi della sua presenza. A un certo punto, tuttavia, la fissò negli occhi sorridendole, allora lei rispose a quel saluto di rimando e poi, per educazione, distolse lo sguardo.
Si girò nuovamente verso il finestrino. Ora non lo vedeva più nitidamente – solo la sua immagine riflessa a stuzzicare la sua innata curiosità – ma sentiva la sua voce calda e profonda diffondersi e sovrastare ogni singolo rumore: il chiacchierio della gente, il cigolio delle ruote, il rombo del motore.
Si lasciò cullare per un attimo da quel suono così piacevole, quasi fosse stata una musica, e poi si girò a guardarlo.
 
L’uomo era ancora là, naturalmente.
Portava un maglioncino grigio in leggero cotone, sotto al quale l’azzurro della camicia ben s’intonava al blu del giaccone, indossato sopra dei jeans leggermente sbiaditi.
Lo osservò. Gli occhi erano profondi e scuri, luminosi e caldi come certe notti stellate. La bocca, piegata leggermente all’insù e in procinto di sorriderle ancora, lasciava intravedere il candore di una dentatura perfetta.
Quegli occhi possedevano un’aria intelligente e ciò la incuriosì.
 
Chissà che lavoro faceva. Aveva tutta l’aria di essere un libero professionista.
Un medico? Forse un avvocato. No, un avvocato proprio no. Magari un geometra o un architetto. Sì, un architetto o un ingegnere.
No. Un ingegnere, no. O forse sì, chissà. Un dirigente? Un funzionario di banca? Un professore? E se fosse stato un musicista?
Lo scrutò ancora, cercando qualche dettaglio del suo abbigliamento che la potesse illuminare, stando attenta a non incrociare nuovamente i suoi occhi, ma non notò nulla di significativo, tranne la portadocumenti in pelle nera sulla quale tamburellava nervosamente con il tappo della penna bic.
Escluse il musicista.
 
Forse aveva una compagna. Certamente sì, anche se sarebbe stato meglio immaginarlo single, dopotutto. Chissà se ne era innamorato… Questo non riusciva proprio a immaginarlo. Ci provò per un attimo.
Se lo raffigurò in un istante, intento a baciare una lei evanescente con uno slancio che la stupì. Quella scena ipotetica la infastidì impercettibilmente.
Riflettendoci appena, si diede della stupida e rivolse la sua attenzione ancora una volta al finestrino.
 
Gli uomini. Non era sicura di capirli davvero o forse erano loro a non capire quanto fosse esaltante volare con la fantasia, creare la poesia di infinite suggestioni.
Quasi sempre troppo logici, ben attenti a far quadrare ogni cosa, così maledettamente pratici… almeno quelli che aveva conosciuto lei.
La vita cosa è mai senza l’immaginazione, senza un po’ di magia? È un triste dipinto in bianco e nero e lei amava il colore, così come amava i contrasti.
Era stato Charlie Chaplin, no, ad affermare che non li si devono temere perché perfino le stelle a volte si scontrano fra loro, dando origine a nuovi mondi? Lei la pensava allo stesso modo.
 
Cercò di spostare la sua attenzione verso qualcosa d’altro, così visualizzò il suo pesce rosso e si rammentò improvvisamente di essersi dimenticata di cambiargli l’acqua.
Avvertì nitidamente uno sguardo posarsi su di lei, così si girò in direzione dell’uomo, con il preciso proposito di lanciargli un’occhiata sfuggente. Lui la stava fissando.
A quel punto si sentì avvampare.
Pensò di essere davvero una sciocca. Ma che diavolo stava facendo? Non era sua abitudine comportarsi a quel modo.
 
Tuttavia, quel tipo le suggeriva un non so che di poetico, forse erano quelle mani affusolate ad attribuirgli un certo fascino, la maniera in cui le muoveva… Una maniera decisamente sexy.
No. Era il modo stranamente affabile in cui la guardava e quel non so che di beffardo ad accendere in lei immagini di notti rischiarate dalla luna, di cieli stellati, di scogliere a picco sul mare.
Quello sguardo limpido, così diretto e carico di intenzioni, la via più breve fra anime che si riconoscono, la trafissero come una lama.
Come sarebbe stato bello conoscersi in un’altra epoca, in un altro contesto. In un castello, per esempio.
Si immaginò incedere velocemente dentro il suo splendido vestito color cremisi, lungo quel lungo corridoio dalle pareti altissime, mentre lui, dal lato opposto, impegnato in una fitta conversazione le veniva incontro, incrociando il suo sguardo.
 
No. Il castello era una location troppo banale. Preferì raffigurarselo in prossimità di un vecchio porto, lui a bordo di un elegante vascello d’altri tempi, alto e fiero, mentre il vento gli scompigliava i capelli; lei ferma sulla banchina a scrutare l’orizzonte, avvolta in un elegante mantello color ghiaccio.
A pensarci bene, era quasi più interessante immaginarlo in tempi più recenti, magari seduto in aereo nella fila accanto, oppure scorgerlo al di là della vetrina, fuori dal negozio, mentre, all’interno, era occupata a provare un paio di scarpe coi tacchi.
L’autobus si fermò bruscamente e lei avvertì il contraccolpo, ricadendo contro lo schienale.
 
Non sapeva nulla di lui eppure provava un’assurda sensazione, avvertiva qualcosa, nel modo in cui la guardava, un non so che mai provato prima, come se si conoscessero.
Si conoscevano? Che assurdità!
Si sistemò i lunghi capelli e realizzò che fra due fermate sarebbe dovuta scendere.
Fuori, le strade congestionate dal traffico si intersecavano in un susseguirsi di incroci.
Si alzò.
Anche l’uomo lo fece e ora la stava seguendo.
 
Si fermarono davanti alle porte, nuovamente l’una di fronte all’altro, compenetrandosi in un ultimo significativo sguardo che parve dilatarsi in eterno, divisi dalla gente e dall’assoluta certezza di vivere due vite diverse, che difficilmente si sarebbero intersecate ancora, abitanti probabilmente di una stessa città, di una stessa nazione, di uno stesso mondo, nello stesso universo, separati tuttavia dalla consapevolezza di essere due perfetti estranei che difficilmente si sarebbero accorti l’uno dell’altro se non in quell’unico e irripetibile istante.
Il fastidioso cigolio delle porte annunciò loro che l’incanto era finito e così scesero, continuando tuttavia a guardarsi ancora, fino a quando, una volta toccati i piedi sul nero dell’asfalto, le loro vite ripresero una diversa direzione.
 
Daniela Larentis

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