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Giornata della memoria, l’intervento di Giuseppe Ferrandi

Il direttore del Museo Storico del Trentino Giuseppe Ferrandi ha ricordato al Commissariato del Governo il dramma di Tullio Calliari

A Merano ebbe inizio l'esperienza di prigionia di Tullio Calliari. Il 10 settembre 1943, in una cartolina militare spedita dalla città del Passirio, egli racconta ai familiari la propria condizione di prigioniero.
«Voi sapete che cosa significa. Ma il nostro dolore sarà ancora più grande quando, come pare, dovremmo abbandonare anche il suolo della patria. Pregate per me.»
Poche parole che occupano il retro della cartolina, la parte stampata inneggia anacronisticamente al mussoliniano «Vinceremo».
Una parola d'ordine che documenta ancor più la distanza tra il profilo etico di Calliari e la guerra voluta da Hitler e dal capo del fascismo italiano.
 
Con quei giorni di settembre inizieranno le marce forzate e il viaggio verso l'internamento.
Fino al Brennero, a fare da scorta armata, c’è anche un gruppo di civili sudtirolesi. Questo per ricordarci, per l'ennesima volta, la profondità delle ferite e delle lacerazioni che costituiscono l'eredità pesante della seconda guerra mondiale nella nostra regione.
 
Giunto in Germania Tullio Calliari accetta di svolgere la funzione di interprete, ringraziando chi gli dette l'opportunità di imparare un po' di tedesco.
È un ruolo importante, che permette di attenuare, almeno in parte, le durissime condizioni di internamento. Nell'agosto del 1944 questa collaborazione con i tedeschi sarà alla base della sua trasformazione da "internato" a "lavoratore civile", così come certificato in un documento rilasciato dal comando dello Stammlager VI J.
 
Sono in molti, tra i compagni di prigionia di Tullio, a optare per lo status di "lavoratore civile".
Una scelta che non va affatto confusa con forme di adesione al Reich tedesco o alle milizie della Repubblica Sociale Italiana.
È lo stesso Calliari che ritorna qualche mese dopo sulla sua situazione. Il 2 febbraio 1945 scrive da Borken, in Westfalia, una lunga e significativa lettera.
«Da qualche tempo non sono più né fiduciario né interprete: lavoro anch'io come i compagni col piccone e con la pala.
«È meglio fare così. Questo perché? Chi dice sempre di sì è un pover'uomo. Sopportiamo tutto con rassegnazione nella certezza che i nostri sacrifici affrettino il ritorno della pace.»
 
L'internamento è durissimo. Si convive con la morte e la sopravvivenza è l'unico imperativo.
Ma è anche un'intensa esperienza di maturazione intellettuale e collettiva. A Essen, il 7 settembre 1944, Calliari scrive «In più occasioni ho detto ai miei compagni che noi siamo la Patria, noi siamo l'Italia. Gli internati rappresentano l'élite dell'Italia».
 
Un percorso di maturazione e di crescita, che si palesa ed esplode nei giorni della Liberazione.
È il 10 giugno 1945 e Tullio collabora con i militari americani, che l'hanno per l'appunto liberato. Scrive da una località bavarese:
«Avrei anch'io partecipato volentieri alla battaglia che vede finalmente l'Italia risorta. Noi pure abbiamo combattuto la nostra buona battaglia ogni giorno per 20 mesi.
«La battaglia della fame, delle ingiustizie, delle percosse, delle umiliazioni. Le nostre sofferenze hanno contribuito certo alla vittoria. Il nostro compito non è finito, anzi, arrivati in Italia, ci attende un nuovo, immenso lavoro di ricostruzione.»
 
Dodici giorni dopo, scrivendo una seconda lettera alla famiglia, dichiara la propria intenzione di visitare il vicino campo di Dachau.
È il suo modo per farsi carico di tragedie e orrori più grandi, la sua vocazione di testimone del sistema concentrazionario nazista.
«Con questi sistemi la guerra non poteva essere vinta. Noi internati militari abbiamo sofferto ciò che nessuno può immaginare. Raccontate pure che gli italiani di Badoglio (come ci chiamavano) sono morti di fame, sono stati ammazzati a legnate, sono stati impiccati perché costretti a rubare per fame.
«Le donne tedesche ci respingevano dai rifugi durante i bombardamenti, dicendo che per i traditori non c'è posto. Oggi le cose sono cambiate. Ma solo pensare che noi possiamo perdere il ricordo di quanto abbiamo sofferto è da pazzi.»
 
Ho citato alcuni passaggi significativi della ricca corrispondenza pubblicata in questo volume per sottolineare la personalità e il senso delle scelte compiute da Tullio Calliari.
Sono convinto che questa lettura, che pur presenta insieme difficoltà e tanti stimoli per la ricchezza e la varietà delle fonti pubblicate, permetterà al lettore di cogliere alcuni degli aspetti più caratterizzanti l'esperienza degli Internati Militari Italiani.
 
Fu lo stesso Hitler che decise di denominare i prigionieri di guerra italiani «internati militari».
Se, in apparenza, tale decisione può apparire irrilevante e solo nominale, in realtà fu gravida di conseguenze per la sorte e il trattamento di quei soldati e di quegli ufficiali che dopo l'8 settembre 1943, data dell'annuncio dell'armistizio tra l'Italia e gli anglo-americani, vennero catturati, imprigionati e avviati verso i lager predisposti dai nazisti nei territori del Terzo Reich.
Secondo le stime più accreditate si trattò di un numero davvero impressionante: circa 800 mila uomini.
 
Dietro questi numeri e la durezza delle condizioni di internamento e di sfruttamento, gli «schiavi di Hitler», secondo la fortunata espressione di Lazzero Ricciotti, rappresentano una questione storiografica molto complessa e un altrettanto rilevante nodo della memoria pubblica nazionale.
Solo in tempi recenti la storiografia ha posto adeguata attenzione su questo aspetto del coinvolgimento degli italiani nell'ultima guerra mondiale, tema che andava indagato seriamente, utilizzando la memorialistica ma superando i limiti della stessa, utilizzando le fonti tedesche e inquadrando questa vicenda nei «sistemi di guerra» usati dai nazisti, così come li chiama Calliari nel giugno del 1945.
Sistemi che prevedevano lo sterminio e l'annientamento di ebrei, nomadi, omosessuali, avversari politici, «anormali».
Lo sfruttamento, fino alla morte, di milioni di prigionieri di guerra da utilizzare nell'imponente sforzo produttivo germanico.
La conquista di territori sempre più vasti con la relativa sottrazione di risorse.
Vi erano, di fatto, razze da annientare e popoli da schiavizzare e sottomettere.
 
Quale ruolo specifico occuparono gli IMI in questa vicenda?
Appartenevano a un esercito alleato dei nazisti fino al settembre del 1943, erano quindi traditori.
Nella stragrande maggioranza si rifiutarono di aderire al Reich e alla Repubblica di Salò, scegliendo la prigionia o il lavoro coatto, entrando consapevolmente tra le fila degli oppositori, dei resistenti.
 
Questa complessità della loro condizione e l'importanza della loro scelta hanno pesato, inevitabilmente, sul modo in cui hanno coltivato e gestito il loro patrimonio di memorie e di testimonianze.
A tal proposito si può parlare di «fatica del ricordo» proprio per le difficoltà che vi furono nel dopoguerra ad accogliere e rielaborare quest'esperienza.

Un caso emblematico resta quello di Alessandro Natta, uno dei più prestigiosi dirigenti del Partito Comunista, che nel 1954 decise di scrivere un testo di rilettura, in chiave politica, della propria esperienza di ufficiale internato nel famigerato campo di Wietzendorf.
Quel libro dovette attendere più di cinquant’anni per essere pubblicato. Uscì per Einaudi solo nel 1997 in una situazione, anche dal punto di vista storiografico, completamente mutata.
 
Davvero significativo il titolo scelto: «L'altra Resistenza».
Perché era così faticoso ricordare ed essere accettati nella propria condizione di ex-IMI?
La domanda, ovviamente, vale per il percorso compiuto da Tullio Calliari e va tenuta presente nella lettura di questo volume.
 
È stato per lungo tempo difficile ricordare a causa dell'esito complessivo della partecipazione italiana alla guerra.
Era vergognoso ricordare il comportamento dei comandi italiani che avevano lasciato allo sbaraglio un intero esercito.
Era poco opportuno riferirsi e valorizzare «altre Resistenze» quando andava legittimata l'unica Resistenza, quella armata, quella in grado di legittimare politicamente e moralmente la «nuova Italia».
Era, inoltre, una questione imbarazzante perchè investiva i rapporti tra Italia e Germania con la penosa, umiliante e relativamente recente vicenda dell'annunciato indennizzo seguito da un nulla di fatto.
 
Personalmente ho avuto l'opportunità di conoscere e frequentare il prof. Tullio Calliari, nel suo ruolo di presidente dell'Associazione Nazionale Ex Internati Militari Italiani (ANEI) del Trentino. Ho potuto ascoltarlo in molte occasioni e in alcuni memorabili incontri/lezione con gruppi di giovani e di studenti.
Ho avuto anche l'onore di ricordarne la figura nella cerimonia ufficiale del 25 aprile a Trento, poco dopo la sua scomparsa.
 
Rileggere le sue lettere, gli appunti, i materiali inediti che compongono questo volume, mi permette di comprendere ancor più la qualità e l'intensità del suo essere stato testimone e l'importanza, in tempi così difficili e disorientanti, di avere punti di riferimento solidi, tracce di percorsi coerenti, scelte consapevoli.
Gli appunti delle lezioni che egli tenne ai propri compagni di prigionia sono sufficienti per cogliere quella che allora, nei lager e nei luoghi di lavoro coatto, era la posta in gioco.
Per un educatore di professione si trattava di scrivere una nuova grammatica che contenesse valori, idee, punti di riferimento «ricostruttivi».
Calliari era impaziente e attendeva di partecipare allo sforzo collettivo richiesto da un Paese che faticosamente usciva dalla guerra e si liberava dalle macerie prodotte dal fascismo.
Era anche preoccupato dall'idea che qualcuno volesse «perdere il ricordo».
Queste pagine sono un antidoto.
 
Giuseppe Ferrandi

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