Home | Interno | Terrorismo e instabilità del Corno d'Africa/ 4 – Di Marco Di Liddo

Terrorismo e instabilità del Corno d'Africa/ 4 – Di Marco Di Liddo

Quarta puntata – Prosegue il focus dei vari paesi dell’area: Etiopia


 
 Etiopia

L’Etiopia rappresenta il Paese egemone nella regione del Corno d’Africa e sicuramente il più europeo degli Stati africani. Infatti, Addis Abeba è la continuatrice di una lunga tradizione imperiale, iniziata attorno all’anno 1000 (i famosi negus di Abissinia), basata sulla costruzione di una forte e centralizzata burocrazia statale, su un apparato militare con alti standard di efficienza e preparazione e su una struttura di governo che, seppur con difficoltà, è riuscita parzialmente a disinnescare il settarismo etnico, ossia la prima causa di instabilità per la maggior parte delle realtà africane.
Tuttavia, la stabilità interna e la relativa efficienza della macchina statale si basano su una gestione autoritaria, centralista e verticista del potere da parte delle élite politiche, economiche e militari e sulla repressione delle opposizioni.
Per quanto riguarda la politica estera, l’Etiopia è uno degli attori più dinamici di tutto il continente africano, sia attraverso le organizzazioni regionali, come l’Unione Africana, sia attraverso la diplomazia bilaterale. Negli ultimi decenni, a partire dalla secessione dell’Eritrea nel 1993, la priorità della politica estera di Addis Abeba è stata il raggiungimento di uno sbocco al mare.
Infatti, l’imponente crescita economica etiope necessita di infrastrutture portuali per aumentare le esportazioni e non rimanere confinata al mercato interno o a quello regionale, entrambi bacini in grado di assorbire una minima parte del potenziale produttivo.
 
La ricerca dello sbocco al mare condiziona le relazioni internazionali etiopi, conducendole ad un naturale interesse per l’Eritrea e per la Somalia, ossia i due Paesi che, nelle intenzioni del governo di Addis Abeba, dovrebbero rientrare sotto la sua sfera d’influenza e diventarne i porti naturali.
Il 21 settembre 2012 Hailemariam Desalegn ha prestato giuramento come Capo del Governo etiope, assumendo un compito di grande responsabilità dopo la morte improvvisa di Meles Zenawi, al potere dal 1991, uno dei leader più influenti della scena politica etiope e promotore di importanti programmi di sviluppo economico e di modernizzazione politica del Paese.
Zenawi ha lasciato in eredità un Paese in forte espansione economica, ma tuttora alle prese con la non facile gestione dei movimenti indipendentisti e secessionisti tradizionalmente causa di numerosi e sanguinosi conflitti interni.
Tuttavia, lo sviluppo economico è stato realizzato secondo tappe forzate e spesso a discapito del pieno rispetto delle libertà fondamentali sancite dalla Costituzione e, soprattutto, a spese delle minoranze politiche e etniche. 
 
Il pugno di ferro con cui il defunto Primo Ministro ha esercitato la propria egemonia ha avuto l’effetto di accrescere il risentimento nei confronti del Governo nazionale e di alimentare le spinte centrifughe dei movimenti indipendentisti ancora attivi in diverse aree, in particolare l’Ogaden, la regione a maggioranza somala che da oltre vent’anni lotta contro Addis Abeba per l’indipendenza.
L’insediamento del nuovo Esecutivo è stato accolto, da parte dei movimenti della società civile e dei partiti, con l’auspicio dell’introduzione di un ampio programma di riforme.
Negli ultimi anni del governo Zenawi, una soluzione pacifica alla questione somala cominciava a sembrare possibile, come pure l’affermazione di maggiori libertà politiche e civili nel Paese. In effetti, l’avvio dei negoziati con l’ONLF e la liberazione di 2.000 prigionieri politici avevano rappresentato un timido progresso in questa direzione, ma a distanza di oltre un anno dall’elezione di Desalegn non si sono ancora verificati ulteriori e significativi passi in avanti.
L’immobilismo politico nei confronti della minoranza somala stride con alcune aperture concesse ad altre etnie del Paese. Ad esempio, il fatto stesso di nominare premier Desalegh, un esponente di etnia Wolayta, un gruppo minoritario in Etiopia (il 2,5 % della popolazione) ha rappresentato una novità nello scenario politico etiope, tradizionalmente dominato dall’élite di etnia Tigrai.
 
Come spesso accade nei Paesi a forte impronta politica personalistica, la morte di un capo di governo al potere per decenni alimenta un clima di forte incertezza per il futuro, a causa della necessità, da parte delle elite, di ridefinire gli equilibri e nominare una nuova figura di riferimento.
In particolare, in Africa tali momenti di transizione sono tradizionalmente caratterizzati da faide interne e scontri tra clan e fazioni al potere.
In questo senso, l’Etiopia ha rappresentato un’eccezione ed ha dimostrato un elevato grado di maturità politica, affidandosi a Desalegh, un uomo dell’apparato e un dichiarato continuatore delle politiche di Zenawi.
Il nuovo capo del governo, pur non appartenendo alla schiera dei combattenti della lotta armata degli anni 80, rimane una figura di lunga militanza politica, declinata attraverso la presidenza del Southern Nations, Nationalities, and Peoples’ Region (SNNPR) dal 2001 al 2006, del Southern Ethiopian People’s Democratic Movement (SEPDM), entrambe formazioni che rappresentano i gruppi etnici del sud del Paese, e la vicepresidenza dell’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF), coalizione attualmente al potere.
Inoltre, Desalegh ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali, quali Ministro delle Relazioni tra governo e partiti (2005), Vice Primo Ministro e Ministro degli Affari Esteri (2010).
 
L’EPRDF, il cuore del sistema di potere etiope, è formata da quattro partiti, ognuno espressione di altrettante etnie. Oltre al partito di Zenawi, il Tigrayan People’s Liberation Front (TPLF), lo schieramento è costituito dall’Oromo People’s Democratic Movement (OPDM), dall’Amhara National Democratic Movement (ANDM) e dal Southern Ethiopian People’s Democratic Movement (SEPDM).
Il TPLF rappresenta gli interessi dell’etnia Tigrai (6% della popolazione), mentre l’OPDM costituisce la principale piattaforma partitica degli Oromo (34%) e l’ANDM raccoglie la maggior parte dei propri consensi presso gli Amhara (27%).
La figura carismatica di Zenawi aveva sempre rappresentato un elemento di coesione indispensabile al funzionamento della coalizione.
Nonostante alle ultime elezioni politiche svoltesi nel 2010, l’EPRDF abbia ottenuto la quasi totalità dei voti (il 99% delle preferenze e 546 seggi su 547), negli ultimi anni hanno cominciato ad affiorare dubbi sulla compattezza interna della coalizione a causa delle tensioni latenti tra le diverse etnie.
La nomina di Desalegn, in quanto membro di una minoranza non rappresentata nel Parlamento e nel governo, può essere considerata una manovra volta a placare tali tensioni latenti.
La composizione del Governo è sempre stata il riflesso dei rapporti di forza tra i partiti che compongono l’EPRDF.
 
Dunque, la nomina a Vice Premier di Demeke Mekonnen e Alemayehu Atomsa, noti esponenti rispettivamente dell’ANDM e dell’OPDM, ha dimostrato una perdita d’influenza del TPLF.
I rapporti tra governo centrale e minoranze etniche sono la principale problematica di politica interna. Infatti, l’equilibrio istituzionale e politico sancito dall’alleanza tra Oromo, Tigrai e Amhara, esclude decine di altri gruppi minoritari, molti dei quali sono composti da milioni di individui.
Il caso più eclatante di minoranze etniche non rappresentate adeguatamente nell’apparato di potere è costituto dalla popolazione somala (6% della popolazione, pari a 4 milioni di persone), presente prevalentemente nella regione orientale dell’Ogaden e rappresentata dall’ONLF, il movimento che lotta per l’indipendenza della regione da Addis Abeba. La ricerca di una soluzione alla questione somala continua ad essere tra le principali priorità del governo.
Il vecchio Presidente Zenawi aveva optato per una strategia repressiva nei riguardi dei ribelli somali, come testimoniato dai ripetuti rastrellamenti da parte dell’Esercito e delle milizie di etnia Liyu e dall’occupazione dei pozzi da cui i pastori seminomadi somali ricavano l’acqua per il bestiame.
 

 
Lo scopo del Governo etiope è spingere le comunità rurali somale ad abbandonare l’Ogaden per permettere alle compagnie energetiche e minerarie di poter estrarre gas e rame, di cui la regione è ricca, senza dover pagare alle comunità locali alcun dividendo. Per giustificare le azioni di forza contro le comunità somale, Addis Abeba ha inasprito la propria legislazione anti-terrorismo ed ha ottenuto nel 2007, tramite una sottile opera diplomatica, l’inserimento dell’ONLF nella lista statunitense delle organizzazioni terroristiche di rilevanza globale.
Nello specifico, questa “certificazione” è stata ottenuta sulla base delle comprovate relazioni tra parte dell’ONLF ed al-Shabaab.
Tuttavia, soltanto alcune bande armate dell’ONLF, soprattutto delle aree rurali, collaborano con l’organizzazione terroristica somala, mentre la leadership politica mantiene posizioni assolutamente distanti dal qaedismo.
In ogni caso, la mancanza di un dialogo costruttivo tra rappresentanti della minoranza somala e il governo ha rafforzato l’influenza dell’ala militare dell’ONLF e, dunque, ha causato una progressiva escalation della violenza nella regione.
In particolare, i ribelli somali hanno iniziato ad attaccare le compagnie straniere impegnate nelle esplorazioni petrolifere. Nell’aprile 2007, l’ONLF si è resa responsabile dell’assalto ad un’istallazione mineraria cinese durante il quale 65 cittadini etiopi e 9 cinesi sono rimasti uccisi dopo essere stati sequestrati.
 
Le ostilità da parte dell’ONLF costituiscono un rischio per gli investimenti stranieri e, dunque, per il futuro del boom economico etiope. Per questa ragione il Presidente Desalegn ha deciso di modificare la strategia del governo nei confronti della minoranza somala, aprendo alla possibilità di una trattativa.
I primi incontri tra i rappresentanti del governo e quelli dell’ONLF si sono svolti a Nairobi, grazie alla mediazione del governo keniota, a partire dal settembre 2012, ma hanno subito un grave rallentamento a causa dell’inamovibilità nelle posizione dei due contendenti.
Infatti, Addis Abeba è disposta a migliorare le condizioni di accesso e di partecipazione alla vita politica dei cittadini di etnia somala, ma non intende assolutamente fare concessioni autonomiste.
Al contrario, il vero obbiettivo dell’ONLF è quello di ottenere l’autogoverno locale e di poter controllare direttamente gli introiti dell’industria estrattiva. Un dato interessante è offerto dal fatto che ai negoziati di Nairobi non hanno partecipato le municipalità dell’Ogaden, mentre dalla parte del governo etiope la delegazione era quasi completamente composta da esponenti militari.
In questo modo Addis Abeba ha lanciato un chiaro messaggio, ossia quello di continuare a considerare le richieste dei somali dell’Ogaden esclusivamente come un problema di sicurezza nazionale e non come una questione politica.
Anche se Addis Abeba continua a rassicurare gli investitori internazionali sull’inesistenza di qualsiasi minaccia alla sicurezza della ricca regione mineraria, il conflitto è ben lontano da una soluzione. Il Governo si dice certo che la maggior parte dei miliziani facenti capo all’ONLF abbia deposto le armi e che le sole attività in essere del movimento siano pura propaganda, ivi comprese le recenti minacce ai danni della compagnia canadese Africa Oil Corp a febbraio 2013.
A quest’ultima, impegnata nelle esplorazioni petrolifere, i ribelli hanno intimato la sospensione delle attività fino al raggiungimento di un accordo di pace tra l’ONLF ed il governo.
 

 
Oltre all’ONLF, la presidenza Desalegn deve affrontare la ribellione e le spinte secessioniste dell’ARDUF, il movimento etnico Afar che intende realizzare l’indipendenza dell’omonima regione settentrionale etiope nel contesto di un nuovo Stato che includa l’Eritrea e la parte nord di Gibuti.
Come nel caso della ribellione somala, anche l’ARDUF vive la costante separazione tra l’ala politica, disposta al negoziato con Addis Abeba, e l’ala militare, finanziata e sostenuta dall’Eritrea, che non intende abbandonare l’insurrezione armata.
Per quanto i ribelli Araf non conducano alcuna campagna di guerriglia su larga scala, rappresentano una problematica di sicurezza per via degli sporadici attacchi contro le pattuglie dell’Esercito etiope e i turisti occidentali.
Le difficoltà sul fronte interno non hanno rallentato lo sviluppo economico etiope, che può vantare una crescita dell’8% nel biennio 2012-13. La fase espansiva è sostenuta dagli investimenti stranieri e da un massiccio piano di costruzione di opere pubbliche volte a modernizzare la rete infrastrutturale del Paese e a migliorare i settori agricolo, dei biocarburanti e idroelettrico.
Fin dalla cerimonia di insediamento, Desalegn ha manifestato l’intenzione di proseguire il piano di sviluppo avviato da Zenawi e di ultimare il Growth and Trasformation Plan (GTP), un ambizioso programma quinquennale lanciato nel 2010 e destinato ad incrementare sensibilmente la ricchezza nazionale entro il 2025 attraverso un imponente piano di potenziamento delle infrastrutture e dell’apparato produttivo.
Tuttavia, il GTP non ha suscitato consensi unanimi da parte della popolazione locale. Infatti, il Governo è accusato di sostenere programmi che danneggiano l’equilibrio economico dei coltivatori e degli abitanti dei villaggi, con la vendita delle terre ad imprenditori stranieri (soprattutto indiani) senza considerare l’impatto sociale di tali decisioni.
 
Meles Zenawi, ex primo ministro dell'Etiopia morto nel 2012.
 
Inoltre, l’industrializzazione a tappe forzate rischia di compromettere l’equilibrio ambientale di molte aree etiopi, in particolare quelle in prossimità dei grandi corsi d’acqua. Il più impressionante dei mega-progetti etiopi è la Grande Diga della Rinascita, un’opera mastodontica, la cui costruzione è iniziata nel maggio 2013, destinata a produrre energia idroelettrica a partire dal 2017.
La diga devia le acque di uno dei maggiori affluenti del Nilo «principale», ossia il Nilo Azzurro, fiume che nasce in Etiopia e si unisce al Nilo Bianco in Sudan, formando quell’immenso corso d’acqua che poi sfocia nel Mediterraneo. Il grande progetto idroelettrico etiope, oltre a porre interrogativi sulla sostenibilità ambientale, è causa di frizioni internazionali, soprattutto con l’Egitto ed il Sudan, per via dello sfruttamento delle acque del Nilo.
 
Infatti, i trattati che regolano l’utilizzo del bacino idrico nilotico, siglati del 1929 e del 1959, hanno finora assicurato lo sfruttamento del 55% delle sue acque al Cairo ed a Khartoum, costringendo gli altri Paesi attraversati dal fiume (Burundi, Rwanda, Uganda, Tanzania, Sud Sudan ed Etiopia) a dividersi la restante quota. Addis Abeba ha sempre contestato questa ripartizione, reclamando che l’84% delle acque del Nilo ha origine in territorio etiope.
L’Egitto si è opposto alla costruzione della diga, temendo che la deviazione delle acque danneggi il settore agricolo e sottragga fondamentali risorse idriche ad una popolazione in costante crescita; lo scorso agosto, quand’era in carica il governo Morsi, la tensione tra Il Cairo e Addis Abeba aveva raggiunto i livelli di guardia, quando una fuga di notizie dalla Stato Maggiore egiziano aveva mostrato la presenza di una corrente interventista che suggeriva un’azione ostile per rallentare i lavori di costruzione della Diga della Rinascita.
La Grande Diga della Rinascita è il simbolo dei rapporti economici privilegiati tra Addis Abeba e Pechino, in quanto è stata progettata e finanziata dal governo di Pechino.
Infatti, il grande Paese asiatico è il primo partner commerciale etiope, soprattutto nei settori delle infrastrutture, delle telecomunicazioni, dell’idroelettrico e degli idrocarburi. Il 20 dicembre del 2012 è stato inaugurato il complesso idroelettrico Fincha Amerti Nesse (FAN), finanziato e costruito da una banca ed una compagnia cinesi nella regione dell’Oromia.
 
L’impianto è destinato anche all’irrigazione di 6.000 ettari dedicati alla coltivazione di canna da zucchero. Appare significativo il fatto che quasi tutte le dighe etiopi siano state finanziate e progettate da imprenditori e tecnici cinesi, come quelle di Tekeze, di Amerti-Neshe e Gilgel Gibe 3, la più produttiva del Paese con una capacità di 1.870MW.
L’ottima relazione tra Cina ed Etiopia è resa possibile dall’incontro tra la strategia di politica estera di Pechino in Africa e le necessità politiche ed economiche di Addis Abeba.
Infatti, il Paese asiatico tende ad instaurare partnership esclusivamente economiche con i Paesi africani, senza cercare di interferire nella loro politica interna, senza richiedere particolari standard in materia di trasparenza e di rule of law e, sopratutto senza legare le attività economiche a programmi di implementazione dei meccanismi democratici e di tutela dei diritti umani.
Non a caso, i funzionari cinesi in Africa utilizzano a loro vantaggio la vulnerabilità delle istituzioni locali alla corruzione. In questo modo, le tangenti permettono alle compagnie cinesi di aggiudicarsi appalti dal valore colossale.
Ugualmente, il governo etiope accetta di buon grado una cooperazione economica che non intralcia i propri disegni di politica interna e che non richiede il miglioramento dei meccanismi di tutela dei diritti civili e politici della popolazione.
Al contrario, i Paesi occidentali sono vincolati, nella gestione dei propri affari in Africa, al rispetto di precise agende politiche e umanitarie e, inoltre, tendono a cercare partner che possano garantire basilari meccanismi di trasparenza e di tutela legale dei loro investimenti.
Oltre che con i rapporti privilegiati con la Cina, la politica estera etiope si caratterizza per la grande influenza sia a livello regionale che a livello continentale.
Negli ultimi anni Addis Abeba ha intensificato gli sforzi per contribuire alla soluzione di gran parte dei conflitti in Africa orientale e centrale, come testimoniato dalla partecipazione a diverse missioni di stabilizzazione nei principali teatri di crisi regionali.
L’Etiopia vede attualmente impegnati 7.000 militari nelle varie missioni decretate dal Consiglio di Sicurezza in Africa e nel resto del mondo.
Solo quattro Stati a livello globale forniscono un numero superiore di uomini. Gran parte dei Paesi confinanti hanno beneficiato di questi preziosi contributi, come nel caso del conflitto tra il Sudan ed il Sud Sudan, scoppiato all’indomani della lotta per l’indipendenza di quest’ultimo, dove la forza ONU dell’Interim Security Force for Abyei (ISFA), istituita nel 2011 e operante nell’area contesa di Abyei, è stata formata interamente da soldati etiopi (4.250 uomini).
Le due principali direttrici della politica regionale etiope sono l’Eritrea e la Somalia. La storia recente delle relazioni tra Etiopia ed Eritrea, unite dal 1962 al 1993, è segnata da dispute territoriali attorno ai propri confini.
Dopo 30 anni di guerriglia e l’indipendenza eritrea (1993), non si è mai trovato un accordo per definire le frontiere e, tra il 1998 e il 2000, i due Paesi hanno ripreso le ostilità. Al centro delle controversie è il villaggio di Badmè, che le Nazioni Unite hanno assegnato all’Eritrea, ma che resta occupato dalle truppe etiopi.
 
 

Per quanto riguarda la Somalia, a partire dall’inizio della guerra civile nel 1991, il governo etiope ha costantemente cercato di sostenere personalità di sua fiducia, provenienti in larga misura dal clan Darod, senza mai riuscire a imporne nessuna ai vertici dell’establishment di Mogadiscio.
Neppure l’intervento militare del 2006 contro l’Unione delle corti islamiche (UCI), il governo islamico radicale che aveva preso il potere in Somalia in quel momento storico, è riuscito a instaurare il tanto agognato protettorato etiope.
 
Ad oggi, i rapporti con Mogadiscio sono incentrati sul contrasto ad al-Shabaab e al terrorismo di matrice qaedista, come testimoniato dalla perdurante campagna militare a bassa intensità diretta contro le istallazioni del movimento jihadista nel sud-ovest della Somalia.
Tuttavia, rispetto all’intervento contro l’UCI del 2006, l’approccio di Addis Abeba è cambiato. Infatti, il Presidente Desalegn, realizzata l’ascesa dell’influenza keniota sul governo di Mogadiscio e di fronte all’impegno militare di Nairobi nella regione, ha deciso di limitare numericamente e territorialmente le operazioni delle Forze Armate etiopi in Somalia.
Si può affermare con certezza che, a partire dal 2007, l’azione di contrasto ad al-Shabaab, pur mantenendo la ratio del miglioramento della situazione di sicurezza nel Corno d’Africa, abbia perso la sua dimensione internazionale e di politica estera per trasformarsi nel tentativo di risolvere una problematica prettamente interna, ossia l’irredentismo pan-somalo dei miliziani dell’ONLF nella regione dell’Ogaden.
Infatti, l’Esercito e le agenzie di sicurezza interna etiopi hanno intensificato il pattugliamento e le operazioni contro-terrorismo all’interno del territorio nazionale, limitando al massimo le sortite in Somalia e lasciando più responsabilità alle Forze Armate keniote e ad AMISOM. L’unica eccezione a questa nuova tendenza è costituita dalla cittadina di Beledweyne, capoluogo della regione sud-occidentale somala di Gedo, dove Addis Abeba mantiene alcuni battaglioni. Infatti, in quelle regioni la porosità dei confini agevola i contatti con i miliziani dell’ONLF.
 
Ad ulteriore testimonianza del fatto che Addis Abeba ora ritenga le attività di al-Shabaab un prolungamento di una criticità interna è il fatto che nessun militare etiope faccia parte di AMISOM, poiché l’Etiopia preferisce agire al di fuori del mandato, delle strutture di comando e dei vincoli dell’Unione Africana.
In ogni caso, l’incessante impegno delle forze armate etiopi per la stabilizzazione del Corno d’Africa e per la lotta al terrorismo qaedista fanno di Addis Abeba un alleato insostituibile per alcuni Paesi occidentali, in primis, gli Stati Uniti.
Il contributo etiope alla pace e alla stabilità dell’Africa orientale è sostenuto anche grazie ad accordi di cooperazione militare con il governo di Washington, che garantiscono ad Addis Abeba assistenza addestrativa e finanziaria.
Già dal 2011, l’amministrazione del Presidente Obama ha lanciato importanti iniziative, tra cui la realizzazione di una base per i droni MQ-9 Reaper ad Arba Minch, alcune centinaia di chilometri a sud di Addis Abeba. Inoltre, l’Etiopia ha intensificato gli sforzi per il potenziamento del settore difesa attraverso l’accesso a sofisticati sistemi d’arma e nuovi equipaggiamenti.
A febbraio 2013, i infatti, una fonte militare etiope ha rivelato al Sudan Tribune che l’Etiopia ha ricevuto addirittura il suo primo drone nazionale, frutto dell’accordo siglato nel 2011 con la BlueBird Aero Systems israeliana per la fornitura di aerei a pilotaggio remoto Spylite e Boomerang.
 

 
Al di là della percezione e della strategia utilizzate per il suo raggiungimento, l’Etiopia continua a considerare la stabilizzazione della Somalia uno dei suoi principali obbiettivi politici di lungo termine.
Tuttavia, i costi economici, politici e umani del prolungato coinvolgimento militare verso il fragile vicino hanno spinto il Presidente Desalegn a cambiare strategia, intensificando l’utilizzo del soft power e degli strumenti di pressione economica, come la somministrazione di aiuti umanitari ed i buoni uffici diplomatici in occasione delle Conferenze dei Donatori.
Inoltre, la consapevolezza dei tempi lunghi della pacificazione somala hanno spinto l’Etiopia a guardare altrove per cercare lo sbocco al mare.
Nello specifico, per quanto riguarda gli Stati semi-autonomi del Somaliland e del Puntland, Addis Abeba ha scelto di appoggiare, in sede di UA e di Nazioni Unite, le loro rivendicazioni indipendentiste pur senza riconoscerne ufficialmente lo status politico.
Infatti, la maggiore stabilità dei due Stati rivieraschi in questione ha permesso al governo etiope di utilizzare i loro porti per la commercializzazione delle merci nazionali.
Tuttavia, anche in questo caso non va dimenticata la dimensione politica del sostegno etiope, visto che Somaliland e Puntland rappresentano un ostacolo al processo di riunificazione della Somalia ed hanno rapporti altalenanti con Mogadiscio.
Quindi, in questo senso, l’appoggio etiope alle due entità statali rappresenta un parziale bilanciamento all’influenza keniota nel resto della Somalia.
Sulla base di queste considerazione è possibile comprendere come la questione somala sia la cartina di tornasole che permette di decifrare le relazioni tra Etiopia e Kenya.
Al momento, queste si manifestano in maniera ambigua, visto che Addis Abeba ha migliorato i rapporti economici con Nairobi, ma vede con sospetto e preoccupazione la sua intraprendenza in politica estera e la sua volontà di emergere quale nuova potenza egemone del Corno d’Africa.
 
Il Presidente Desalegn ha personalmente supervisionato la ratificazione di importanti accordi di partenariato economico tra i due Paesi volti ad intensificare gli scambi commerciali.
In particolare, Kenya ed Etiopia stanno cooperando per accelerare l’ultimazione di una linea elettrica di 1.000km che rifornirà Nairobi con 400MW di energia all’anno entro il 2018. Importanti risorse etiopi sono state destinate allo sviluppo della rete di pipeline complementari al porto di Lamu, nel nord del Kenya, che permetteranno ai Paesi produttori di petrolio e gas, quali Sud Sudan e, in futuro, Etiopia, di affrancarsi dalla dipendenza degli oleodotti sudanesi per l’esportazione verso i mercati asiatici.
Infatti, ad oggi, l’unico oleodotto che permette l’esportazione del greggio sud sudanese è il Great Nile, che giunge a Port Sudan, sul Mar Rosso. La trasformazione del porto di Lamu in un hub petroliero porrà fine al monopolio del trasporto energetico di Khartoum.
 
Marco Di Liddo (Ce.S.I)
(4 - continua)
(Precedenti)
Foto Wikipedia

Condividi con: Post on Facebook Facebook Twitter Twitter

Subscribe to comments feed Commenti (0 inviato)

totale: | visualizzati:

Invia il tuo commento comment

Inserisci il codice che vedi sull' immagine:

  • Invia ad un amico Invia ad un amico
  • print Versione stampabile
  • Plain text Versione solo testo

Pensieri, parole, arte

di Daniela Larentis

Parliamone

di Nadia Clementi

Musica e spettacoli

di Sandra Matuella

Psiche e dintorni

di Giuseppe Maiolo

Da una foto una storia

di Maurizio Panizza

Letteratura di genere

di Luciana Grillo

Scenari

di Daniele Bornancin

Dialetto e Tradizione

di Cornelio Galas

Orto e giardino

di Davide Brugna

Gourmet

di Giuseppe Casagrande

Cartoline

di Bruno Lucchi

L'Autonomia ieri e oggi

di Mauro Marcantoni

I miei cammini

di Elena Casagrande