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Terrorismo e instabilità del Corno d'Africa/ 6 – Di Marco Di Liddo

Quinta puntata – Prosegue il focus dei vari paesi dell’area: il Kenia

 Kenya
Negli ultimi tre anni il Kenya ha attraversato una fase di profonda trasformazione politica sia interna che internazionale.
L’election day del 4 marzo 2013, che ha registrato il contemporaneo svolgimento delle consultazioni presidenziali, parlamentari ed amministrative, le prime dopo la riforma costituzionale del 2010, si è svolto senza particolari incidenti, nonostante il clima di forte tensione che l’aveva preceduto.
La vittoria di Uhuru Kenyatta, figlio di Jomo Kenyatta, eroe dell’indipendenza keniota nel 1963, e la maggioranza dei seggi (167 su 349) ottenuta dalla Jubilee Alliance (JA) all’Assemblea nazionale garantiranno al nuovo leader del Kenya la stabilità istituzionale per affrontare nel migliore dei modi i problemi economici, sociali e di sicurezza che affliggono il Paese.
Kenyatta, nel suo discorso di insediamento, ha sottolineato la volontà di proseguire il piano di sviluppo nazionale avviato dai suoi predecessori e chiamato 2030 Vision. Si tratta di un progetto ambizioso mirante alla crescita economica e della qualità della vita dei cittadini attraverso l’industrializzazione, il miglioramento delle infrastrutture e del sistema di welfare, la lotta alla corruzione e alla diffusione della piaga dell’HIV.
 
Le principali problematiche che il nuovo governo di Nairobi sarà chiamato a risolvere sono il sottosviluppo di ampie regioni del Paese, la difficile convivenza tra le diverse realtà etnico-tribali e le crescenti attività da parte di al-Shabaab.
La stabilizzazione del fronte interno appare indispensabile per la prosecuzione della linea di politica estera, inaugurata nel 2011 con l’intervento militare in Somalia, avente l’obbiettivo di aumentare l’influenza regionale del governo di Nairobi.
In ogni caso, su tutte le future sfide politiche ed economiche keniote peserà l’esito del processo di Uhuru Kenyatta e del suo principale alleato William Ruto, sui quali pende la gravissima accusa di crimini contro l’umanità in seguito alle violenze postelettorali del 2007 e del 2008. Infatti, l’ondata di violenze che ha colpito il Paese in quell’occasione rappresenta lo spettro dei delicatissimi equilibri etnici kenioti.
La crisi del 2007-2008 è scoppiata dopo che il presidente uscente Mwai Kibaki è stato dichiarato vincitore delle elezioni del dicembre di quell’anno. I sostenitori di Raila Odinga, principale oppositore di Kibaki, hanno accusato il governo di pesanti frodi elettorali, riversandosi nelle strade delle principali città (Mombasa, Eldoret, Kericho, Kisumu, Nakuru e Nairobi) ed attaccando i loro avversari politici.
 
La rivalità tra Kibaki e Odinga rientra nel più ampio conflitto tra Kikuyu (20% della popolazione) e Kalenjin (14%), i due principali gruppi etnici del Paese.
Dopo due mesi di scontri, 1.200 morti ed oltre 200.000 persone sfollate, i due contendenti hanno firmato un accordo di condivisione del potere (Nazional Accord and Reconciliation Act), che ha permesso la cessazione delle violenze e la formazione di un governo di coalizione con Kibaki alla Presidenza della Repubblica e Odinga alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Durante gli scontri del 2007-2008, Kenyatta e Ruto, rispettivamente appartenenti ai Kikuyu e ai Kelenjin, furono tra gli oratori più infuocati della scena politica.
Per questa ragione la Corte Penale Internazionale ha incriminato entrambi come mandanti morali delle violenze.
 


L’accordo tra Kibaki e Odinga rappresentava la creazione di una precaria alleanza tra le etnie Kikuyu e Kalenjin, riproposta nella tornata elettorale del 2013 con un accordo di divisione delle cariche istituzionali tra Kenyatta e Ruto, nominato Vice-Presidente.
L'accordo tra Kenyatta e Ruto ha fortemente diviso l’opinione pubblica, che lo ritiene un matrimonio di convenienza stipulato per garantirsi la reciproca immunità dalla Corte Penale Internazionale.
 
L’accordo ha avuto l’effetto di limitare parzialmente il clima di perdurante tensione tra le diverse etnie del Kenya.
Infatti, anche se i due principali gruppi hanno siglato una tregua per beneficiare dei vantaggi insiti nel governo del Paese, le tribù minoritarie continuano a lottare le une contro le altre per lo sfruttamento delle scarse risorse del territorio.
Ad esempio, nella regione meridionale del fiume Tana più di centocinquanta persone sono state uccise dallo scorso agosto e oltre dodicimila sono state sfollate a causa della lotta per l'acqua e per la terra tra i Pokomo (agricoltori) e gli Orma (pastori semi-nomadi).
In alcuni casi, la violenza dei gruppi tribali è indirizzata contro i simboli dello Stato, ritenuto colpevole della condizione di indigenza delle comunità locali.
Ad esempio, nel novembre dello scorso hanno, nel villaggio di Baragoi, presso il delta del fiume Tana, ben 42 poliziotti sono stati uccisi in un'imboscata mentre cercavano di recuperare del bestiame nell'ambito di una contesa tra le tribù Turkana e Samburu.
 
Oltre al settarismo etnico, il Governo del Kenya deve affrontare il fenomeno dei movimenti indipendentisti delle regioni costiere. In particolare, desta preoccupazione l’attivismo del Mombasa Republican Council (MRC), organizzazione il cui scopo è la formazione di una repubblica indipendente che includa la città di Mombasa e la Coast Province.
Il MRC si è formato con l’intenzione di combattere le presunte discriminazioni politiche ed economiche poste in essere dal Governo centrale nei confronti della popolazione costiera.
Il movimento era stato bandito nel 2008, ma una recente pronuncia della High Court di Mombasa lo ha nuovamente legittimato e
autorizzato.
 

 
Negli ultimi mesi le frizioni con il governo di Nairobi sono aumentate, anche a causa del sopraggiungere delle elezioni, giudicate illegittime dal MRC. Ogni qual volta i manifestanti del MRC scendono in piazza per protestare contro il governo centrale, la polizia attua misure fortemente repressive.
Il numero e la violenza degli scontri tra forze dell’ordine e rappresentanti del MRC sono in costante aumento e, ogni qual volta si verificano, trasformano Mombasa nel teatro della guerriglia urbana.
Un esempio di questa tendenza è offerto dalla ribellione scoppiata a Mombasa all’indomani delle elezioni del marzo 2013, quando gli indipendentisti hanno invaso le strade della grande città portuale in segno di protesta contro la vittoria di Kenyatta.
Il successivo confronto con la polizia è durato ben 4 giorni ed ha causato la morte di 18 manifestanti e 2 funzionari delle forze dell’ordine.
 
L’elemento più preoccupante della ribellione del MRC è che la sua leadership è formata prevalentemente dalle personalità religiose della moschea e del centro di cultura islamica di Mombasa. Si tratta prevalentemente di imam salafiti con sospette relazioni con le cellule qaediste attive in Kenya.
Infatti, Mombasa rappresenta un avamposto strategico per le organizzazioni estremiste della regione, in quanto garantisce un ampio bacino di reclutamento di miliziani, un hub per la raccolta di fondi e un corridoio per i traffici illeciti. Non è un caso che lo storico leader del MRC sia stato l’imam radicale Sheikh Aboud Rogo, sanzionato dalle Nazioni Unite per il supporto finanziario, logistico e propagandistico offerto ad al-Shabaab.
 
Le modalità con cui l’apparato di sicurezza keniota ha affrontato le attività degli imam di Mombasa e del MRC permettono di comprendere come il governo di Nairobi percepisca l’indipendentismo delle regioni costiere come un problema esclusivamente di sicurezza e non come una questione politica, economica e sociale da risolvere.
Infatti, la polizia ed i servizi segreti, oltre ad usare il pugno di ferro contro i manifestanti, adottano con troppa frequenza la tattica dell’omicidio politico, come nel caso dello stesso Rogo, ucciso nell’agosto del 2012 in circostanze mai del tutto chiare.
Al di là del settarismo etnico e delle rivendicazioni indipendentiste di Mombasa, la maggiore minaccia alla sicurezza, alla stabilità politica ed alle prospettive di crescita economica del Kenya è costituita dal terrorismo islamico di matrice qaedista che ha in al-Shabaab la sua organizzazione più attiva e pericolosa.
La dimensione delle reali capacità operative e propagandistiche di cui il movimento jihadista dispone per destabilizzare il Kenya è stata offerta dall’attacco al centro commerciale Westgate di Nairobi.
Si è trattato del più grave episodio terroristico nella storia del Paese, talmente efferato e scioccante da essere definito dalla popolazione come «l’11 settembre
Keniota».
 

 
Il 21 settembre del 2013 un commando di circa 10 miliziani di al-Shabaab ha attaccato il Westgate Mall di Nairobi, principale centro commerciale della capitale keniota, abitualmente frequentato da cittadini stranieri.
Il bilancio dell’attentato è stato di 72 morti e oltre 180 feriti. Tra le vittime si annoverano 3 inglesi, 2 francesi, il diplomatico canadese Annemarie Desloges, 2 indiani, il famoso poeta ghanese Kofi Awoonor e Mbugua Mwangi, nipote del Presidente Kenyatta.
Dopo l’assalto iniziale, il commando di al-Shabaab, si è asserragliato nelle gioiellerie, nelle banche e nel casinò del centro commerciale, per sfruttarne le misure di sicurezza (vetri anti-proiettile), e ha preso in ostaggio alcune decine di persone, tra le quali cittadini occidentali, costringendole ad indossare cinture esplosive e minacciando di ucciderle in caso di azioni ostili da parte delle forze di sicurezza di Nairobi.
La polizia, l’esercito e i servizi di intelligence kenioti sono apparsi generalmente impreparati all’evento, nonostante nelle ultime settimane fossero circolate voci su imminenti azioni da parte di gruppi terroristici.
Tale fuga di notizie era avvenuta, in particolare, nel distretto Eastleigh di Nairobi, chiamato «Little Mogadiscio» per la fortissima presenza di immigrati somali e avamposto keniota di al-Shabaab e dei gruppi ad esso legati.
Per supportare l’Esercito nazionale, i governi britannico e israeliano hanno inizialmente messo a disposizione i consiglieri militari presenti a Nairobi e successivamente hanno disposto l’invio di due squadroni di Forze Speciali, che però non hanno preso parte all’assalto.
L’operazione di bonifica del centro commerciale e di neutralizzazione dei terroristi è durata oltre tre giorni.
 
Secondo i dati sinora emersi, il commando terrorista sarebbe stato composto, in buona misura, da miliziani di etnia somala reclutati tra la diaspora europea (Finlandia, Svezia) e statunitense (Kansas City, Minneapolis, Minnesota, Texas) grazie all’opera del MYC (Muslim Youth Center) e del Hijrah (la Migrazione), due costole keniote di al-Shabaab basate presso la moschea del quartiere Majengo a Nairobi.
Inoltre, tra i miliziani coinvolti, ci sarebbero anche due uomini originari del sud della Somalia e 2 cittadini kenioti.
Un ruolo di rilievo nell’organizzazione e nell’effettuazione dell’attacco potrebbe essere stato ricoperto da Samantha Lewthwaite, la «Vedova bianca» del jihad qaedista.
Samantha Lewthwaite, moglie di Jermaine Lindsay, uno degli attentatori del 7 luglio 2005 a Londra, è una delle figure più influenti del salafismo in Africa orientale, soprattutto per il suo essere una convertita inglese e una delle più feroci accusatrici e critiche dell’Occidente.
Le relazioni tra la Lewthwaite e i gruppi terroristici dell’Africa orientale hanno iniziato a consolidarsi a partire dal 2011, anno del suo presunto arrivo in Kenya. 
 

 
Da quel momento, la «Vedova bianca» ha offerto un importante contributo nell’ideazione e nell’organizzazione di attentati nel Corno d’Africa: molto probabilmente è stata lei a patrocinare l’attacco ad un bar di Mombasa durante la partita Italia-Inghilterra di Euro 2012.
Non è la prima volta che al-Qaeda ed i suoi affiliati colpiscono con estrema durezza la regione dell’Africa Orientale.
In particolare, Nairobi è stata il teatro del primo attentato qaedista della storia, quello contro le rappresentanze diplomatiche statunitensi nel 1998.
Pur nella sua drammatica spettacolarità, l’attacco al Westgate Mall rappresenta soltanto una piccola parte dell’offensiva che al-Shabaab ha scatenato in Kenya negli ultimi 2 anni.
Infatti, per quanto le tensioni siano in continua crescita a Nairobi e il MRC stia scivolando gradualmente nell’orbita jihadista, sono le città e le regioni settentrionali al confine con la Somalia, come Garissa e la Eastern Province, ad essere oggetto di ripetuti attacchi contro chiese cristiane, pattuglie dell’Esercito e commissariati.
A partire dal 2011, oltre trecento persone hanno perso la vita a causa degli attacchi dei miliziani somali.
 


L’offensiva di al-Shabaab in Kenya, oltre a testimoniare la progressiva internazionalizzazione dell’agenda politica del gruppo terroristico e la volontà di colpire sistematicamente obbiettivi fuori dai confini somali, evidenzia due gravi criticità che affliggono il governo di Nairobi.

La prima riguarda il fronte interno e si riferisce al già citato problema della difficile convivenza tra le diverse etnie e della discriminazione dei gruppi minoritari rispetto alle élite di potere.
Infatti, non bisogna dimenticare che il Kenya ospita sul proprio territorio oltre 2 milioni di somali, alcune migliaia dei quali hanno la cittadinanza nazionale.
Purtroppo, molti dei somali che vivono in Kenya popolano le fatiscenti periferie delle grandi città o, nel peggiore dei casi, i campi profughi del nord del Paese.
Dal punto di vista sociale, economico e politico, la situazione della diaspora somala keniota è drammatica, visto l’alto numero di disoccupati, la mancanza di una adeguata rappresentanza parlamentare, l’assenza di una strategia di integrazione e l’atteggiamento ostile da parte degli altri gruppi etnici.
L’indigenza e la subordinazione dei somali, unita alle carenze programmatiche del governo di Nairobi, costituiscono una frattura sociale nella quale si inseriscono le organizzazioni criminali e terroristiche. Non è un caso che i somali del Kenya rappresentano un fiorente bacino di reclutamento per al-Shabaab e per le bande di fuorilegge locali. Infatti, pur di sopravvivere, i somali preferiscono unirsi ai movimenti jihadisti o dedicarsi alle attività illecite.
La seconda criticità riguarda le esternalità negative del nuovo corso di politica estera di Nairobi nel Corno d’Africa. La volontà del Kenya di proporsi come nuovo attore egemonico nella regione si è concretizzata con il tentativo di contribuire alla stabilizzazione somala tramite un’operazione militare contro al-Shabaab. Non è un caso, dunque, che l’emiro del movimento di ispirazione qaedista, nel rivendicare l’attacco al Westgate Mall, l’abbia motivato come una rappresaglia per l’invasione dell’Esercito keniota nel sud della Somalia.
 
La liberazione di Kisimayo dalle milizie di al-Shabaab (operazione Sladge Hammer) nel settembre del 2012 può essere considerata uno degli obbiettivi principali della più vasta missione keniota «Linda Nchi» («Proteggere la Patria»), la quale ha visto l’impiego complessivo di circa 5.000 uomini delle Forze Armate della nazione africana.
Si tratta del primo intervento militare in territorio straniero condotto dalle forze armante di Nairobi, un’operazione minuziosamente preparata sin dal 2010.
L’obbiettivo di «Linda Nchi», partita nell’ottobre del 2011 e terminata nel giugno successivo, è stata la costituzione di una zona-cuscinetto tra il Kenya e le regioni centrali della Somalia tutt’ora sotto il controllo di al-Shabaab.
Tale area di sicurezza include le regioni somale meridionali di Gedo, Jubbada Hoose e Jubbada Dhexe con al suo interno Kisimayo.
 

 
Nelle iniziali intenzioni keniote, una volta sottratte ai miliziani islamici, le tre regioni citate sarebbero passate sotto l’autorità del Jubbaland\Azania, un’entità federale semiautonoma governata da esponenti del clan filo-keniota Darod-Marehan.
Questa decisione è stata motivata dall’esigenza di migliorare il quadro di sicurezza della regione ed ha spinto il Governo di Nairobi a cercare un interlocutore locale forte al quale derogare una parte dell’autorità e dell’amministrazione, ritenendo troppo lunghi i tempi per un coinvolgimento diretto del governo di Mogadiscio.
Oltre la lotta al terrorismo, la pacificazione del sud della Somalia ha l’obbiettivo di privare le bande criminali di un retroterra indispensabile all’attuazione delle proprie attività. Infatti, in un Paese nel quale il turismo incide per il 12% del PIL, episodi come il rapimento di turisti occidentali avvenuti a settembre 2011 presso l’isola di Manda (in prossimità della città settentrionale di Lamu, al confine con la Somalia) non possono essere tollerati dal governo keniota. Non bisogna inoltre dimenticare che tra i miliziani di al-Shabaab e le bande criminali esistono intesi rapporti «economici».
Infatti, è accaduto spesso che turisti occidentali catturati siano stati successivamente venduti dai sequestratori a membri di al-Shabaab.
 
Tuttavia, per non apparire agli occhi della Comunità internazionale e, soprattutto dei Paesi africani, come una potenza occupante, il governo keniota ha deciso, nel giugno 2012, di integrare le sue truppe all’interno del contingente di AMISOM.
Infatti, Nairobi ha voluto così dimostrare di essere un Paese che, nel contesto della legittimità e della legalità internazionali, si è impegnato a dare il proprio contributo alla stabilizzazione della regione.
Oltre alla contingenza dettata dalla necessità di creare una zona-cuscinetto corrispondente allo Jubbaland\Azania, diverse sono le ragioni che hanno motivato l’intervento keniota.
L’interesse primario di Nairobi è quello di affermarsi come nuova potenza egemone nella regione dell’Africa Orientale.
La battaglia contro il fondamentalismo islamico di al-Shabaab ed il sostegno al governo somalo sono funzionali al miglioramento del quadro di sicurezza sia interno sia intenzionale, all’espansione dell’influenza su un area strategicamente rilevante quale la Somalia e, quindi, alla creazione delle condizioni necessarie per lo sviluppo delle proprie attività economiche.
 
Marco Di Liddo (Ce.S.I)
(6 – Continua)
(Precedenti)
Foto l’Adigetto.it e Wikipedia
 

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