Home | Rubriche | Letteratura di genere | Storie di donne, letteratura di genere/ 20 – Di Luciana Grillo

Storie di donne, letteratura di genere/ 20 – Di Luciana Grillo

«Comunque padri» – Tre racconti in un libro di Maddalena Bertolini

image

Titolo: Comunque padri
Autrice: Bertolini Maddalena 
 
Editore: Marietti 2011 (collana Le fionde)
Pagine: 200 
 
Note: È costituito da tre racconti
Prezzo di copertina: € 16,00
 
Un racconto deve incuriosire il lettore, agganciarne l’attenzione e conquistarne l’interesse.
Ho cominciato a leggere il primo dei tre racconti che costituiscono «Comunque padri».
Il titolo è «Affamata».
Questo titolo mi ha incuriosito, anche se è ovvio che la protagonista,  che parla in prima persona, è affetta da un disturbo alimentare.
Alla curiosità è subentrata l’attenzione per la storia che inizia ancor prima della nascita della protagonista: la anoressica è prima un uovo, poi un embrione, poi un feto, infine – con tanta fatica – una neonata.
Il mio interesse si è acuito, è diventato vigile: l’autrice è un’ostetrica, conosce bene ciò che scrive.
Racconta con una rigorosa e controllata proprietà di linguaggio e affascina con pensieri brevi e incisivi:
«Una donna è un incrocio di braccia, progettata come una croce ma messa di sbieco: abbraccia.
«A volte viene caricata sulle spalle e portata dove non vorrebbe; ogni donna come la Madonna è stata progettata per l’assenso e lasciata di sghembo libera di fare».
 
Il secondo racconto, «Le tre di Luca», è invece tutta un’altra storia: anche qui c’è una bimba la cui nascita chiuderà il cerchio, ma i protagonisti sono un padre e un figlio che vivono ciascuno a suo modo il dolore per la perdita della moglie e della madre.
Tutto sembra routine, finché l’anziano padre non scombina le carte.
Si rompe uno strano equilibrio, il padre sembra diventare figlio di suo figlio.
«Su quel divano blu di lana consunta si stava giocando la partita sbagliata, o meglio, sbagliati erano i giocatori, i ruoli invertiti.
«Sarebbe toccato all’uomo più vecchio ascoltare quello che aveva da dire il figlio.
«Lui se l’era immaginato più volte, lo aveva sperato.»
Ed entrambi sembrano bisognosi di aiuto, di qualcuno (qualcuna?) che sbrogli la matassa…fino alla svolta finale.
Di nuovo, in questo racconto, il controllo che l’autrice esercita sulla lingua è incredibile, lucido, anche quando volutamente lascia spazio ad un parlato un po’ sciatto.
«Se non è stupida, fagli capire…» o quando immagina che Neda pensi che «la loro lingua, l’italiano, conteneva un’ambiguità stupefacente: quanto era potente e cattivo negli insulti, quanto disprezzo  nelle parole che le buttavano addosso e la tagliavano.
«Il bulgaro, parente delle russe consonanti bellicose, sembrava fatto per schioccare frustate nei litigi, per eruttare nelle gole ubriache.
Ma l’italiano, lo batteva….
«Per Neda l’italiano era una lingua ambigua, redenta solo nel mondo ultraterreno della musica.»
 
Con il terzo racconto, «In questa valle», di nuovo una voce di donna che analizza il suo rapporto con il figlio ormai adulto, dal quale si sente abbandonata.
La madre non ne condivide fino in fondo la scelta che sembra contraddire tutto ciò che il suo ragazzo ha fatto, dall’infanzia alla laurea al lavoro.
Quando questa madre, che mi fa pensare a una Pietà michelangiolesca o alla Maria evocata da Jacopone da Todi, volge lo sguardo dolente alla sua infanzia, prova sentimenti forti per sua madre, «Eppure se penso a una bestia macellata, penso a mia madre, alla sua vita ubriaca».
«Vittima del fatto che era nata serva e tale lo sapeva di restare e riflette, con ben altro animo, su suo padre: La parola padre: questa è la peggiore. Di mio padre non mi è rimasto neppure il nome.
«E si confronta, alla sua maniera, con Maria di Nazareth: E la Madonna cosa ne pensava? Quella col petto trafitto da una spada che sta in fondo alla chiesa, con la veste da Signora e la faccia dolorosa…io dico, anche lei, vedova presto, vedere suo figlio prediletto appeso e torturato, morto.
«Per la nostra salvezza, straziata
«È resuscitato, dopo, e anche andato in cielo, asceso; e lei, in fondo, è rimasta zitta.
Io la capisco.
«Questa madre si chiede anche dove sia Dio, si dà anche una risposta: Dio se ne sta lontano, come le cime che coronano la valle.
«C’è, per carità, ma se ne sta lì.
«E io non sono fatta per salire, mi fanno male le ginocchia.
«Tu invece sali, vai.
«Metti le ali.»
E’ al figlio che l’io narrante si rivolge, con un amore viscerale: «Tu sei l’erba falciata dal mio prato, il fieno odoroso che ho curato, steso al sole, rivoltato nel vento perché fossi gustoso.
«Il mio fieno prezioso che non volevo fosse sporcato dalle greggi transumanti.»
 
Questi tre racconti vanno letti, gustati, assaporati fino in fondo.
Ci sono i colori che rischiarano o rabbuiano il nostro mondo, i sentimenti talvolta inespressi, ma soprattutto sentiamo vivo e grande l’amore per la vita, «comunque» e sempre.
 
Luciana Grillo

Condividi con: Post on Facebook Facebook Twitter Twitter

Subscribe to comments feed Commenti (0 inviato)

totale: | visualizzati:

Invia il tuo commento comment

Inserisci il codice che vedi sull' immagine:

  • Invia ad un amico Invia ad un amico
  • print Versione stampabile
  • Plain text Versione solo testo

Pensieri, parole, arte

di Daniela Larentis

Parliamone

di Nadia Clementi

Musica e spettacoli

di Sandra Matuella

Psiche e dintorni

di Giuseppe Maiolo

Da una foto una storia

di Maurizio Panizza

Letteratura di genere

di Luciana Grillo

Scenari

di Daniele Bornancin

Dialetto e Tradizione

di Cornelio Galas

Orto e giardino

di Davide Brugna

Gourmet

di Giuseppe Casagrande

Cartoline

di Bruno Lucchi

L'Autonomia ieri e oggi

di Mauro Marcantoni

I miei cammini

di Elena Casagrande