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La postura internazionale dell’Iran nell’era Rouhani/ 4

Un dossier aperto in occasione della visita del presidente iraniano in Italia – Ultima parte. Di Gabriele Iacovino e Francesca Manenti

 La proiezione di potenza nella regione 
Uno dei punti fondamentali della politica estera iraniana è sempre stata la proiezione di potenza nell’area mediorientale, scelta non legata alla struttura istituzionale creatasi dopo la rivoluzione del ’79, ma all’impostazione storica del Paese proveniente dal retaggio persiano.
Inoltre, unico Paese della regione dove la componente sciita ha una valenza così preponderante sulla struttura di potere, inevitabilmente l’Iran ha innestato le proprie scelte di politica estera nella dicotomia all’interno dell’Islam con la componente sunnita.
Se questo filone nel decennio passato si era realizzato attraverso la creazione di una rete di proxy regionali, come Hezbollah, Hamas, Jihad Islamica Palestinese, gruppi che grazie al supporto di Teheran portavano avanti un’azione politica, sociale e militare atta ad ampliare l’influenza iraniana nella regione a discapito, principalmente, degli interessi israeliani.
Infatti, in un mondo arabo cristallizzato nello scacchiere di regimi autoritari ad impronta sunnita supportati dagli Stati Uniti, l’unico spazio d’azione per le autorità iraniane era la dialettica di contrasto allo Stato israeliano, dipinto come causa ed effetto di tutti i mali.
Questa azione ha subito un’evoluzione a seguito della caduta del regime di Saddam e della presenza delle truppe internazionali nel Paese dei Due Fiumi. La distruzione dell’apparato istituzionale di Baghdad e il successivo ampliamento del peso della componente sciita in Iraq ha messo il dossier iracheno in cima alle priorità dell’establishment iraniano non solo per la propria sicurezza (di fatto, evitare che l’insorgenza sunnita non solo ampliasse troppo il proprio raggio d’azione, ma andasse a minacciare troppo da vicino i confini iraniani), ma anche per supportare alcune realtà della componente sciita irachena, al fine di ampliare oltreconfine i propri interessi strategici.
 
La creazione dell’universo delle milizie sciite in terra irachena rientra in questa strategia che ha avuto un’ ulteriore evoluzione con lo scoppio della così detta Primavera Araba e l’inizio della guerra civile in Siria.
La messa in discussione degli apparati di potere di molti Paesi della regione, da una parte, e la necessità di salvaguardare i propri interessi in Siria, dall’altra, hanno modificato gli spazi di manovra iraniani. Inoltre, la nascita e il potenziamento di Daesh in una regione di importanza strategica per Teheran ha direttamente impegnato le autorità iraniane nella definizione di una strategia regionale che ha visto sempre più impegnati i Guardiani della Rivoluzione.
È stato proprio il corpo dei Pasdaran ad assumere la leadership dell’azione iraniana in Iraq, a sostegno delle istituzioni di Baghdad contro Daesh, e in Siria, per dare supporto al regime di Damasco.
Questo è avvenuto tramite la riattivazione delle milizie sciite irachene utilizzate come truppe all’interno di una catena di comando e controllo gestita principalmente dalla struttura dei Pasdaran preposta per le operazioni all’estero, la Forza Qods.
Quello che si è visto sul territorio siriano negli ultimi mesi è stata un’azione capillare di realtà sciite, quasi completamente espressione di gruppi iracheni che dalla esplosione del Califfato prima si sono mobilitate sul territorio dell’Iraq e che, poi, hanno messo a disposizione la loro poderosa macchina di reclutamento in Siria.
Di fatto, milizie siriane di natura sciita che hanno combattuto al fianco dei lealisti di Assad ci sono state fin dal 2013. Ma negli ultimi mesi si è assistito a quella che si è dimostrata sempre più essere un’operazione coordinata da Teheran attraverso i propri proxy iracheni per sostenere il regime di Damasco nell’azione di riconquista del territorio. Questa strategia è un modello già utilizzato dagli iraniani.
Ma, se in passato a farla da padroni sono state realtà molto grandi come l’Organizzazione Badr, Kataib Hezbollah o Asaib Ahl al-Haq, ora vi è un universo di milizie legate a doppio filo a Teheran che si muovono tra l’Iraq e la Siria.
 

 
Anche Hezbollah è stato impiegato in questa azione, ma se da una parte il Partito di Dio è da anni impegnato nel conflitto al fianco dell’Esercito del regime, il raggio d’azione delle proprie milizie finora era stato circoscritto alle regioni al confine con il Libano, all’autostrada che collega Damasco con la Valle della Bekaa e alla zona meridionale di Daraa verso le Alture del Golan.
Tutti luoghi di importanza strategica in quanto legati al controllo del territorio libanese o di impatto per gli interessi israeliani. La presenza dei miliziani libanesi al nord ha rappresentato un ulteriore ampliamento dell’azione del gruppo, ma Hezbollah non ha potuto garantire un numero elevato di operativi alla causa del regime di Damasco. Non sarebbe stato sostenibile per il Partito di Dio spostare così tanti uomini dai propri interessi strategici.
Per questo motivo, per sostenere un Esercito siriano ormai ridotto ai minimi termini, la strategia del regime concordata con Teheran (o, meglio, dettata dalle Guardie della Rivoluzione iraniane) ha visto l’attivazione in massa delle milizie sciite irachene in territorio siriano.
Vi sono numerosissime formazioni sciite attive oggi in Siria, gruppi o sottogruppi di formazioni maggiori che si intersecano tra di loro, si suddividono per ampliare il bacino di reclutamento e, soprattutto, si coordinano in maniera disciplinata e sotto l’occhio vigile del Generale Soleimani, comandante della Forza Qods, sempre più frequentemente presente nei campi di battaglia attorno ad Aleppo.
Il gruppo più attivo è stato sicuramente Kataib al-Imam Ali (KIA), creato in Iraq nel giugno del 2014 da un gruppo fuoriuscito dall’Esercito del Mahdi di Muqtada al-Sadr. Infatti, il suo leader, Shebl al-Zaidi, era uno dei comandanti militari della milizia di Sadr. Grazie al suo ufficio per la comunicazione e il reclutamento, KIA è riuscito a chiamare alle armi un vasto numero di sciiti, specialmente nella zona di Najaf, in Iraq, in prima battuta grazie al proprio dispiegamento a difesa del luogo sacro del santuario di Sayyeda Zainab, a Damasco.
Un'altra milizia irachena molto attiva è Harakat Hezbollah al-Nujaba (HHN). In maniera alquanto simile rispetto a KIA, HHN nasce nel 2013 da una costola di Asaib Ahl al-Haq, anch’esso movimento scissionista dai sadristi, ed è guidato da Akram Kaabi, cofondatore del movimento con Qais al-Khazali. Attiva in Siria fin dal 2013, HHN è stata una delle prime milizie sciite ad annunciare il proprio coinvolgimento nei combattimenti ad Aleppo.
 
Ma una delle organizzazioni più grandi che fin dall’inizio ha gestito l’organizzazione e l’afflusso dei combattenti sciiti in Siria è Liwa Abu Fadl al-Abbas (LAFA). Apparsa nell’autunno 2012, anche questa organizzazione nasce per la protezione del santuario di Sayyeda Zainab e della popolazione sciita dei quartieri meridionali di Damasco. Creata su una struttura siriana, la stragrande maggioranza degli organici sono iracheni, anche se, come ombrello, non ha nessuna realtà irachena alle spalle.
Situazione un po’ diversa rispetto alle varie milizie che rientrano sotto l’organizzazione logistica di LAFA. Tra queste, è importante sottolineare il ruolo svolto da Liwa Dhulfiqar (LD). Attiva fin dal 2013 nella zona di Damasco, la milizia è stata dispiegata a inizio 2015 a Latakia, mentre alcuni suoi elementi sono stati utilizzati nella seconda metà di aprile nella zona montuosa al confine con il Libano, tra Yabous e Zabadani, a supporto delle operazioni di Hezbollah.
Un altro attore molto attivo nel convogliare combattenti in Siria che agisce sotto l’ombrello di LAFA è Qaeda Quwet Abu Fadl al-Abbas (QQAFA). Comandata da Auws al-Khafaji (un altro fuoriuscito dal movimento sadrista) e da Abu Kamil al-Lami (membro di Asaib Ahl al-Haq), la milizia è stata formata in Iraq nel giugno del 2014 a seguito dell’avanzata dello Stato Islamico e rientra nei Comitati di Mobilitazione Popolare, i gruppi iracheni utilizzati per la riattivazione e l’ampliamento delle milizie sciite contro il Califfato di Baghdadi, di cui fa parte anche Liwa Dhulfiqar. In occasione delle commemorazioni del martirio di Zaynab, a maggio, numerosi miliziani di QQAFA sono stati visti atterrare a Damasco per la sicurezza del luogo sacro. Da allora, questi operativi dovrebbero essere impiegati in combattimento in Siria in coordinamento con il network LAFA. Inoltre, appaiono esserci numerose interconnessioni tra QQAFA e KIA a dimostrazione della forza in Iraq del gruppo degli ex-sadristi, in un’operazione che sembra sempre di più aver voluto svuotare totalmente di potere l’ex figliol prodigo di Teheran Moqtada, ma lasciare forte la struttura e l’organizzazione creata dall’Iran negli anni della presenza internazionale in Iraq.
 
Dunque, la strategia iraniana appare in questo frangente chiara. La scelta di sostenere Assad non è la migliore opzione, ma l’unica a disposizione. Per fare questo, la strategia dei Pasdaran (infatti, il dossier Siria non ricade sotto l’autorità del Ministero degli Affari Esteri, ma delle Guardie della Rivoluzione) è quella di utilizzare gli ufficiali della Forza Qods come struttura di comando e controllo di questo universo di milizie che hanno la propria struttura logistica in Iraq, per ovvi motivi legati all’organizzazione dell’insorgenza dopo la caduta di Saddam, e che utilizzano la forza della dialettica sciita per la mobilitazione e il reclutamento. Infatti, il dossier Siria e quello Iraq non ricadono sotto l’autorità del Ministero degli Affari Esteri, ma delle Guardie della Rivoluzione.
Dunque, le operazioni impostate da queste milizie sotto egida iraniana sono, di fatto, parte di una strategia di Teheran volta ad ampliare la propria influenza nell’area e per cambiare determinati equilibri.
Il compito svolto per la salvaguardia di Baghdad o per la difesa del regime siriano avranno delle ripercussioni sul futuro assetto istituzionale dei due Paesi e sul ruolo di queste compagini strettamente legate a Teheran.
In più, non è da dimenticare che la loro azione non è solo circoscritta alle aree a maggioranza sciita, ma si è estesa a regioni prima impensabili. Il ruolo svolto a sostegno dell’Esercito iracheno per la ripresa di Ramadi e Fallujah ne è un esempio, a dimostrare come l’intenzione dell’Iran nella postura da assumere su i futuri assetti regionali sia sempre più chiara.
In più, l’azione del Daesh in Iraq è ritenuta di importanza fondamentale per la sicurezza iraniana. Infatti, le autorità di Teheran avrebbero stabilito una serie di linee rosse il cui superamento comporterebbe un intervento diretto e massiccio delle Forze di sicurezza iraniane in territorio iracheno, con o senza il via libera del governo di Baghdad. Un simile scenario si verificherebbe nel caso in cui le milizie del Califfato arrivassero a minacciare la capitale irachena o alcuni dei luoghi sacri dello sciismo in Iraq (a difesa dei quali già sono stati schierati centinaia di uomini appartenenti all’universo dei gruppi armati sciiti di cui sopra) oppure se si avvicinassero a 20/30 chilometri dal confine con l’Iran.
 
In questo scenario rientra anche la crisi yemenita. Non perché vi sia evidenza di un intervento diretto di entità iraniane nel conflitto, ma perché l’establishment di Teheran vede nella ricerca di una soluzione verso un nuovo assetto istituzionale a Sanaa il primo banco di prova per un nuovo equilibrio regionale.
Laddove, infatti, la posizione dell’Iran non è più quello di un «paria» internazionale, grazie all’accordo sul nucleare e al coinvolgimento in importanti tavoli negoziali come quello sul futuro della Siria, lo Yemen, così come più in generale le diverse crisi regionali, diventano per Teheran il terreno di prova per la propria influenza e di contrasto al potere del campione sunnita Arabia Saudita.
 
 Prospettive future 
Durante questi primi due anni di Presidenza Rouhani, il pragmatismo politico adottato dall’esecutivo ha permesso all’Iran di rilanciare il proprio ruolo internazionale, trasformandosi da Stato paria ad attore centrale per gli equilibri in Medio Oriente.
Questa nuova postura verso l’esterno ha portato, in primo luogo, ad un rinvigorimento dei rapporti diplomatici che, già nei prossimi mesi, potrebbe tradursi in importanti risultati sia sul piano politico sia su quello economico.
La visita programmata dal Presidente Rouhani in Europa per l’inizio dell’anno, la prima dal suo insediamento nel 2013, sembra dare una chiara indicazione di quale sia l’importanza che il rapporto attualmente ricopre nell’agenda del Presidente iraniano. Programmato per lo scorso novembre e posticipato a causa dei tragici attacchi di Parigi, il viaggio, che porterà Rouhani in Italia e in Francia, potrebbe essere una prima occasione per discutere e trovare punti di condivisione nelle agende dei rispettivi governi su temi di comune rilevanza quali la lotta all’estremismo, la gestione dei flussi migratori, la lotta ai traffici illeciti che dall’Asia e dal Medio Oriente giungono nel Vecchio Continente.
Dal 17 gennaio, inoltre, ha avuto inizio l’implementazione dell’accordo sul nucleare. In questo contesto la libera ripresa degli scambi con partner esteri e i conseguenti effetti positivi sull’economia interna permetteranno al Presidente di dar prova di aver rispettato a tutti gli effetti le proprie promesse elettorali.
Tale successo potrebbe rivelarsi una preziosa carta da giocare per rafforzare il consenso in favore delle forze pragmatico-riformiste all’interno del Paese e cercare di allargare così il relativo bacino elettorale di riferimento.
Ciò potrebbe rivelarsi di particolare importanza in vista dei due importanti appuntamenti previsti per la prima metà del 2016: il rinnovo dell’Assemblea degli Esperti, organo consultivo preposto alla nomina e alla supervisione della Guida Suprema, e le elezioni parlamentari. Una vittoria delle forze centriste in entrambe le consultazioni si potrebbe tradurre in un maggior supporto istituzionale al Governo Rouhani e, dunque, consentire all’esecutivo una maggior libertà di manovra nel portare avanti la propria agenda.
L’attenzione fino ad ora dimostrata da Rouhani per il rispetto dei tradizionali equilibri di potere interno, tuttavia, potrebbe portare il Presidente a voler bilanciare il rafforzamento politico interno con una sempre maggior autonomia concessa ai Pasdaran nella gestione dell’agenda regionale. In questo contesto, il reinserimento dell’Iran nel concerto internazionale ha spinto il Paese ad adottare un approccio più attivo nei confronti delle crisi regionali, incrementando, di fatto, la propria influenza nei teatri vicini.
Nel prossimo futuro, l’inevitabile necessità di ridefinire gli equilibri di potere in Medio Oriente potrebbe diventare un elemento di ulteriore tensione all’interno della regione.
 
L’incremento dell’influenza di Teheran, infatti, è visto con grande preoccupazione da parte delle Monarchie del Golfo, in particolar modo dall’Arabia Saudita che considera il vicino sciita il principale rivale per l’egemonia nel prezioso contesto mediorientale. L’antagonismo tra i due Paesi si inserisce in quella millenaria dialettica tra sunniti e sciiti che in Medio Oriente ha sempre rappresentato un potenziale focolaio di instabilità interna.
Le Monarchie del Golfo, dunque, temono che il rafforzamento dell’influenza iraniana si possa tradurre in un sostegno diretto di Teheran alle minoranze sciite presenti nei diversi Paesi e, conseguentemente, in un deterioramento della sicurezza interna. Il nuovo attivismo dell’Iran, dunque, sembra destinato ad accentuare un’accesa, quanto pericolosa, rivalità tra Teheran e Riad.
Al momento, questa contrapposizione sembra essere destinata a giocarsi in teatri terzi. Primo fra tutti lo Yemen, contesto che sembra essere diventato una carta centrale ormai nella partita tra Iran e Arabia Saudita.
Benché Teheran al momento non sembri interessata ad immischiarsi operativamente in uno scenario fuori dai propri diretti interessi, tuttavia, il governo iraniano sta facendo della crisi yemenita un argomento prettamente politico per mettere in difficoltà Casa Saud agli occhi della Comunità Internazionale.
I bombardamenti ripetuti condotti dall’Aeronautica saudita sullo Yemen, infatti, sono un argomento su cui Teheran punta il dito per mettere in evidenza come la politica saudita stia a tutti gli effetti causando una vera e propria crisi umanitaria nel Paese.
 
Benché al momento ancora circoscritta ad un piano prettamente diplomatico, l’esacerbarsi della dialettica tra i due Paesi potrebbe tradursi in una pericoloso acutizzarsi delle tensioni all’interno della regione. In questo contesto, il recente irrigidimento dell’atteggiamento dell’Arabia Saudita nei confronti del governo iraniano sembra essere l’estremo tentativo da parte di Riad di voler dimostrare all’alleato statunitense quanto gli equilibri in Medio Oriente siano precari per poter pensare ad un sostanziale ridimensionamento dei propri impegni e, soprattutto, della propria presenza, nella regione.
La scelta di alzare repentinamente i toni della dialettica rientrerebbero così nella volontà di Riad di pungolare il governo iraniano per spingerlo a compiere un passo falso e cercare così di compromettere, o almeno rallentare, la neo-avviata normalizzazione dei suoi rapporti con la Comunità Internazionale. La strategia saudita, tuttavia, non sembra la momento sortire l’effetto desiderato.
Consapevoli che uno scontro aperto con i sauditi potrebbe essere ad oggi controproducente per i propri interessi nazionali, le istituzioni iraniane stanno misurando le proprie reazioni per scongiurare di prestare il fianco alla strategia di Riad. Un segnale in questa direzione sembrerebbe giungere dalla netta condanna avanzata dal governo iraniano nei confronti del recente attacco all’ambasciata saudita a Teheran.
 
Sembra quindi plausibile pensare che, per il momento, il governo iraniano continuerà a giocare la contrapposizione con l’Arabia Saudita sul piano prettamente politico per cercare di mettere in difficoltà il governo Salman agli occhi della Comunità Internazionale. Ciò potrebbe comportare che, nei prossimi mesi, Teheran accentui la propria narrativa anti-saudita, puntando l’attenzione su due aspetti considerati i possibili talloni d’Achille del rivale sunnita: la guerra in Yemen e l’istigazione all’estremismo religioso.
Benché, dunque, la crisi tra i due Paesi sembra non condurre, almeno nel breve periodo ad uno scontro diretto tra Teheran e Riad, tuttavia non è possibile escludere che l’esasperazione delle tensioni bilaterali possa spingere i due governi, a cercare di indebolire il proprio rivale in modo indiretto, attraverso un’attenta gestione dei propri alleati regionali anche in teatri terzi.
 
Ce.S.I.
Fine
(Terza parte)

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