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Dimissioni di Davutoglu, Turchia al bivio – Di Lorenzo Marinone

Le divergenze stanno nella gestione dei flussi migratori, nei rapporti con l’Unione Europea, nell’atteggiamento verso la stampa e nella repressione del dissenso

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Durante una conferenza stampa tenuta il 5 maggio scorso, il Primo Ministro turco Ahmet Davutoglu ha rassegnato le dimissioni dalla guida del Governo e dal vertice dell’AKP (Partito Giustizia e Sviluppo, Adalet ve Kalkinma Partisi), di cui era Presidente.
Contestualmente, è stato annunciato un congresso straordinario del partito il prossimo 22 maggio, mentre non sono state fornite indicazioni precise riguardo l’avvicendamento al Governo.
Le dimissioni di Davutoglu segnano l’apice di una fase estremamente convulsa nella vita politica della Turchia che abbraccia le ultime tre legislature e che ha subito un’accelerazione decisiva a partire dal 2015.
La crescente instabilità ha prima lambito e poi scosso profondamente le principali istituzioni.
 Si pensi all’Esercito, il cui tradizionale ruolo di primo piano nelle vicende politiche della Turchia è stato messo in discussione attraverso il processo Ergenekon, avviato nel 2008 e solo di recente risolto in un nulla di fatto da un pronunciamento della Corte Suprema.
 
La minaccia terroristica, rappresentata tradizionalmente dal PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan Partito Curdo dei Lavoratori) e da altri gruppi insorgenti curdi di minore entità è tornata, nel luglio dello scorso anno, a manifestarsi con una virulenza pari a quella della sanguinosa stagione dei primi anni ’90, abbinata alla durissima repressione di Ankara nel sud-est anatolico.
A ciò si è poi aggiunto il pericolo rappresentato dallo Stato Islamico (IS), capace di colpire con attentati nel cuore del Paese e presente sul territorio con una rete di cellule sempre più radicata.
Anche la lunga e ininterrotta sequenza di Governi monocolore guidati dall’AKP, iniziata nel 2002, invece di conferire stabilità alle politiche e alla tenuta istituzionale della Turchia, ha contribuito, soprattutto negli ultimi anni, ad inasprire il livello dello scontro politico, come dimostra lo stallo istituzionale seguito alla tornata elettorale dello scorso giugno, quando l’AKP aveva perso la maggioranza assoluta e si era dimostrato incapace di dialogare con gli altri partiti per formare un esecutivo di larghe intese o un governo di minoranza.
L’attuale perturbazione politica turca è strettamente legata alle ambizioni del Presidente Recep Tayyip Erdogan, impegnato da anni per modificare l’assetto istituzionale della Turchia in direzione di un chiaro e pieno presidenzialismo che garantisca poteri esecutivi al Capo dello Stato e trovi adeguata collocazione nella Carta Costituzionale.
 
Il sogno presidenzialista di Erdogan rappresenta la principale ragione delle dimissioni di Davutoglu.
Infatti, nonostante la vicenda politica dei due sia caratterizzata da una lunga collaborazione e da una profonda sintonia su diversi dossier, la rincorsa di Erdogan verso il presidenzialismo e l’intransigenza con cui si è manifestata, soprattutto negli ultimi mesi, hanno contribuito a scavare un solco profondo tra le due figure di spicco dell’AKP, che hanno dato vita a un conflitto a tratti sotterraneo, a tratti chiaramente visibile.
Le divergenze tra le due più alte cariche dello Stato si sono moltiplicate e spaziano dalla gestione dei flussi migratori ai rapporti con l’Unione Europea, dall’atteggiamento verso la stampa alla repressione del dissenso interno, all’impegno o meno in politica dell’attuale Direttore dell’Intelligence Hakan Fidan.
Il nodo fondamentale, però, è rappresentato dal controllo dell’AKP.
Durante la conferenza stampa, Davutoglu ha indicato nella decisione del Comitato Esecutivo del Partito (MKYK) di sottrargli il potere di nomina dei vertici dell’AKP a livello provinciale, avvenuta la settimana precedente, il motivo delle sue dimissioni.
Senza tale potere, che consente al Presidente del Partito di estendere la propria influenza in modo capillare e garantisce voce in capitolo nella selezione delle candidature, Davutoglu si è trovato di fatto esautorato.
 
Infatti, nonostante il ruolo di Primo Ministro garantisca formalmente a Davutoglu la piena disponibilità del potere esecutivo, Erdogan ha più volte rivendicato questa prerogativa per la figura del Presidente dello Stato, spingendosi con crescente insistenza a dettare l’agenda al Governo, facendo pressioni per inserire nell’Esecutivo figure a lui vicine (ad esempio il genero Berat Albayrak, nominato obtorto collo da Davutoglu Ministro dell’Energia), nonché riunendo e presiedendo frequentemente il Consiglio dei Ministri (decisione prevista dalla Costituzione ma di fatto irrituale).
Con una limitata libertà di manovra nell’azione di Governo e perdendo l’unica altra leva rimastagli, ovvero la direzione dell’AKP, Davutoglu si è trovato messo all’angolo.
L’allineamento totale del Partito al Presidente era peraltro stato preparato da tempo, attraverso l’epurazione di esponenti di spicco dell’AKP non allineati ad Erdogan dal MKYK (tra cui l’ex speaker del Parlamento e membro prominente del Partito Bülent Arinç, l’ex Vicepremier con delega all’Economia Ali Babacan, l’ex Ministro dell’Interno e fondatore dell’AKP Besir Atalay), durante il congresso dell’AKP dello scorso settembre.
 
Con le dimissioni di Davutoglu, l’AKP si trova quanto mai saldamente sotto il controllo di Erdogan, che potrà procedere verso l’instaurazione di un presidenzialismo forte senza incontrare forti resistenze interne al suo Partito.
In questa prospettiva, il prossimo passo è l’approvazione di una riforma costituzionale che sancisca il passaggio del ruolo del Presidente da prettamente cerimoniale a depositario del potere esecutivo e il tramonto della Turchia quale Repubblica parlamentare.
In quest’ottica, lo scoglio principale da aggirare è la rappresentanza dell’AKP in Parlamento.
Infatti, benché la sua performance elettorale nella tornata del novembre scorso sia valsa 317 deputati, questo risultato impedisce all’AKP di modificare la Costituzione senza l’appoggio degli altri partiti (servirebbe una maggioranza di 367 seggi), così come di proporre un referendum popolare per cambiarla (sono necessari 330 seggi).
 
Le vie possibili sono essenzialmente due.
La prima consiste nel trovare un accordo con i Partiti presenti in Parlamento. Benché anche nel recente passato sia i «socialdemocratici» kemalisti del CHP (Partito Popolare Repubblicano, Cumhuriyet Halk Partisi) sia i nazionalisti del MHP (Partito del Movimento Nazionalista, Milliyetçi Hareket Partisi) abbiano manifestato forte contrarietà in tal senso, all’AKP basterebbe drenare soltanto 13 voti per ottenere l’approvazione della riforma.
Le difficoltà interne che entrambe le formazioni si trovano oggi ad affrontare potrebbero essere sfruttate dall’AKP per guadagnare i consensi necessari, anche attraverso un eventuale rimpasto di Governo e l’ingresso nell’Esecutivo di alcuni esponenti delle opposizioni.
Ottenuto il via libera dal Parlamento, però, resterebbe ancora l’incognita di una consultazione popolare.
 
In alternativa, il Presidente Erdogan potrebbe premere per lo scioglimento dell’Assemblea e optare per una nuova competizione elettorale, dalla quale ottenere i 367 seggi necessari a evitare il referendum.
Benché questa possibilità appaia certamente più densa di incertezze della precedente, anche alla luce dell’ambiguo responso delle urne nel giugno e novembre scorsi, dove l’AKP ha prima perso e poi recuperato alcuni milioni di voti pari al 10% dei suffragi, non si tratta di un risultato impossibile.
Infatti, se l’HDP (Partito Democratico Popolare curdo, Halklarin Demokratik Partisi) non dovesse superare la soglia di sbarramento del 10%, la legge elettorale turca premierebbe l’AKP con una sovra-rappresentanza rispetto ai suffragi ottenuti.
Per impedire l’ingresso in Parlamento della formazione curda, Erdogan potrebbe contare sull’impatto della repressione militare diretta contro il PKK su quella parte degli abitanti del sud-est sempre più esasperata dagli scontri e meno affine alla retorica autonomista curda, che potrebbe far mancare il proprio appoggio all’HDP.

Inoltre, lo stesso HDP potrebbe essere fortemente indebolito nel caso in cui la quasi totalità dei suoi deputati finisse sotto processo in seguito all’annullamento dell’immunità, un provvedimento già approvato in sede di Commissione parlamentare che potrebbe essere sottoposto all’Assemblea in tempi molto brevi.
Entrambe le alternative presentano alcuni vantaggi e numerose incognite, che il periodo di grave instabilità turco non fa che accrescere.
La rilevanza anche simbolica dell’obiettivo finale del Presidente Erdogan, la riforma della Costituzione e la modifica epocale dell’assetto istituzionale della Repubblica fondata da Kemal Ataturk, la cui figura ed eredità si riverberano ancora con forza nelle vicende della vita politica e sociale del Paese, contribuisce a rendere non scontato l’esito della fase attuale.
 
Lorenzo Marinone
(Ce.S.I.)

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