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Turchia: l’origine dello scontro Erdoğan e Gülen – Di L. Marinone

I «terroristi» di Hizmet sono ritenuti i principali responsabile dell’attacco eversivo alle istituzioni nazionali

Il tentativo di colpo di Stato che ha scosso la Turchia nella notte tra il 15 e il 16 luglio ha ulteriormente acuito il conflitto tra la leadership politica di Ankara e il movimento «Hizmet» (Servizio), ritenuto il principale responsabile dell’attacco eversivo alle istituzioni nazionali.
Tuttavia, i rapporti tra la rete dell’Imam Fetullah Gulen e il partito islamista AKP (Partito Giustizia e Sviluppo, Adalet ve Kalkınma Partisi) del Presidente Erdogan si erano incancreniti ben prima degli eventi di luglio.
In questo senso, la guerra tra Erdogan e il suo antico mentore potrebbe avere nelle accuse golpiste il suo momento culminante e di massimo sforzo per lo sradicamento del movimento dai gangli della società civile e della politica turche, con il conseguente indebolimento dell’ennesimo fronte di opposizione all’ambizioso «nuovo Sultano».
Durante la seduta del 26 maggio 2016 scorso, il Consiglio Nazionale di Sicurezza (MGK) turco ha inserito il movimento Hizmet nella lista delle organizzazioni terroristiche, al pari di gruppi insorgenti come il PKK (Partito Curdo dei Lavoratori, Partîya Karkerén Kurdîstan), al-Qaeda, Stato Islamico (IS o Daesh).
La decisione ha conferito ufficialità e forza di legge all’azione repressiva che le istituzioni turche conducono ormai da diversi anni contro la rete di Gülen.
L’imam turco, in esilio volontario negli Stati Uniti dal 1999, viene accusato di guidare un oscuro «Stato parallelo» infiltrato all’interno delle principali istituzioni dello Stato con lo scopo di sovvertirne l’ordinamento.
Tra i più veementi accusatori di Hizmet figura proprio Erdoğan, un tempo stretto alleato di Gülen.
 
La comunità gülenista ha ricoperto un ruolo essenziale nell’ascesa politica di Erdoğan.
Nata negli anni ’70 attorno ad associazioni di studenti e fondazioni private e ispirata all’insegnamento del teologo curdo di cittadinanza turca Said Nursi, Hizmet è riuscita a penetrare in modo capillare nelle istituzioni e nel tessuto economico del Paese senza irritare autorità e Forze Armate, custodi della laicità della Repubblica kemalista.
Col passare dei decenni la sua crescita ha dato vita, di fatto, ad una nuova classe dirigente che ha costituito un importante serbatoio di voti, nonché un’efficace macchina del consenso, da cui Erdoğan ha abbondantemente attinto per portare l’AKP (Partito Giustizia e Sviluppo, Adalet ve Kalkınma Partisi) al trionfo elettorale nel 2002 e, in seguito, per consolidare tale posizione.
La rete di Gülen, che ha tratto vantaggi consistenti dai Governi guidati da Erdoğan, è così arrivata a controllare gruppi bancari, un ramificato network mediatico, holding di primo piano nei settori dell’energia, della Difesa e dell’edilizia.
 
La rottura tra Gülen e Erdoğan si è consumata tra il 2007, quando l’allora Premier Erdoğan propose una riforma della Costituzione in senso fortemente presidenzialista, e il dicembre 2013, data in cui un pesante scandalo di tangenti e corruzione ha investito esponenti di primissimo piano dell’AKP e ha lambito la famiglia di Erdoğan.
In quest’ultima occasione proprio Gülen è stato additato quale manovratore occulto dell’attacco giudiziario.
Le crescenti ambizioni di Erdoğan, il maggior controllo dell’Esecutivo sulla vita politica della Turchia, ma soprattutto il rafforzamento della base elettorale dell’AKP, legata ormai con modalità personalistiche al carisma e alla retorica populista di Erdoğan, hanno decisamente preoccupato Gülen, che ha temuto di perdere la capacità di controllo sull’alleato.
In questa chiave, dominata da una sempre più accentuata svolta autoritaria dell’attuale Presidente, vanno dunque letti i successivi capitoli di questo scontro, che dal processo Ergenekon passano a ulteriori modifiche della Costituzione e infine al più recente attacco contro i principali assetti economico-finanziari di Hizmet.
 
In quest’ottica. l’assimilazione di Hizmet a gruppo terroristico rappresenta non solo un salto di qualità, ma soprattutto un indicatore dell’attuale fase di affanno in cui versa Erdoğan.
Infatti, il violento attacco a Gülen ha come condizione fondamentale, dal punto di vista della sopravvivenza politica del Presidente, la capacità di mantenere una sufficiente base di consenso e, in particolare, di disporre di strumenti adeguati per indirizzarla e plasmarla senza accusare quella perdita di appeal che, fisiologicamente, minaccia qualsiasi figura politica tenti di imporsi sulla scena per periodi di tempo lunghi.
Soprattutto in casi in cui, come per Erdoğan, tanta parte del successo deriva dall’uso di una retorica divisiva e dall’impiego di una risorsa potente, ancorché passibile di improvvisi rovesciamenti, quale il personale carisma del leader.
Tanti sono i fattori di rischio che si addensano in questi mesi sulla tenuta politica della Turchia. La ripresa del conflitto con il PKK (luglio 2015) lo dimostra in modo inequivocabile.
Infatti, da un lato ha contribuito a creare una spaccatura netta tra la minoranza curda (e la sua rappresentanza politica) e larga parte del resto della popolazione.
Presentandosi come garante della sicurezza del Paese e dell’unità e indivisibilità dello Stato, Erdoğan è riuscito ad attirarsi le simpatie delle frange più nazionaliste e dell’MHP (Partito del Movimento Nazionalista, Milliyetçi Hareket Partisi), nonché a toccare corde cui è sensibile anche parte dell’elettorato del Partito Popolare Repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP).
Ciò ha dato un contributo importante nella giustificazione della necessità di tenere elezioni suppletive nel novembre 2015, dopo che la tornata di giugno aveva pesantemente punito l’AKP costringendolo di fatto a dover governare, per la prima volta nella sua storia, in coalizione con altri partiti.
 
Parallelamente, lo stillicidio di azioni di guerriglia del PKK contro l’Esercito turco e, soprattutto, l’inedita frequenza con cui si sono verificati terribili attentati anche nelle principali città del Paese, a danno tanto dei civili quanto dei militari, ha certamente dato sostanza ad un clima di crescente e diffusa tensione, che ancora una volta l’astuzia politica di Erdoğan è stata in grado di capitalizzare in termini di creazione di consenso (presentando la stabilità come priorità assoluta), oltre ad additarla come prova della necessità di una riforma delle istituzioni in direzione di quel presidenzialismo forte, con un sistema di check and balance notevolmente ridimensionato, che rappresenta la vera priorità del Presidente.
Dall’altro lato, però, la situazione attuale del Paese potrebbe erodere il consenso di cui gode Erdoğan qualora si protraesse troppo a lungo, evidenziando una sua eventuale incapacità di trovare soluzioni adeguate, soprattutto se al versante della sicurezza si andasse a sommare una consistente frenata dell’economia nazionale, avvertibile anche nella quotidianità da parte di quel ceto medio-basso, proveniente da regioni tradizionalmente povere, sensibile al tema del ruolo della religione nella vita pubblica e caratterizzato dalla speranza di un rapido miglioramento della propria condizione, che Erdoğan condivide con la base di Hizmet e su cui ha da sempre impostato il suo agire politico.
Inoltre, nonostante lo smantellamento in corso per via giudiziaria della rete di Gülen, questi dispone ancora di importanti connessioni tanto in Turchia quanto all’estero, e potrebbe tentare operazioni di destabilizzazione simili a quella dello scandalo del dicembre 2013, colpendo in pieno la figura di Erdoğan.
 
Per scongiurare questa eventualità, nelle ultime settimane il Presidente ha ulteriormente sviluppato l’ormai consueto approccio autoritario in diversi ambiti. Innanzitutto con la destituzione del Premier Ahmet Davutoğlu, l’estromissione degli esponenti a lui fedeli tanto dal Governo quanto dai vertici del Partito e la costituzione del nuovo Esecutivo guidato da Binali Yıldırım, a tutti gli effetti esponente dell’AKP tra i più fedeli a Erdoğan.
A tal proposito va rilevata una caratteristica importante: più di un terzo dei Ministri (10 su 27) proviene dalla regione del Mar Nero orientale, la stessa del Presidente, e altrettanti condividono con lui un percorso di studi centrato nella frequentazione delle scuole religiose imam hatip.
Questa configurazione non può che accentuare il controllo che il Presidente esercita sul Governo, essenziale per procedere a tappe forzate verso il presidenzialismo forte.
Tuttavia, la sola rappresentanza dell’AKP in Parlamento non è sufficiente ad approvare una riforma della Carta fondamentale senza doverla sottoporre a referendum popolare. In questo senso risulta pressoché imprescindibile l’appoggio fornito finora dall’MHP, anche sulla base della virulenta conduzione della lotta ai separatisti del PKK.
 
Lorenzo Marinone
(Ce.S.I.)

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