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Lezioni di Storia/ 8 – «Dopo. Vittoria senza pace»

Oggi Raoul Pupo ha parlato di quella che D'Annunzio definì «vittoria mutilata»

«Novembre 1918: l'Italia è in tripudio per una vittoria che promette molto dal punto di vista dei risarcimenti territoriali.
«Rispetto al 1915, anno dell'entrata in Guerra del Regno d'Italia, il contesto internazionale è però cambiato: gli interessi italiani si scontrano con quelli di alleati mai realmente amici e il peso reale del nostro Paese al tavolo delle trattative e fra le diplomazie europee non è assolutamente pari alle iniziali ambizioni.»
Si aperta così l'ottava #LezionidiStoria del ciclo Laterza, andata in scena questa mattina al Teatro Zandonai di Rovereto e tenuta da Raoul Pupo, docente di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell'Università di Trieste, introdotto dalle riflessioni di Fabrizio Rasera, presidente dell'Accademia degli Agiati di Scienze, Lettere ed Arti.
Oggetto della lezione, anche questa volta molto partecipata dal punto di vista del pubblico, più di 200 le persone presenti, il periodo immediatamente successivo alla fine della Prima Guerra mondiale, così come da titolo: «Dopo. Vittoria senza pace».
 
«Vittoria mutilata» fu uno slogan molto famoso di Gabriele d'Annunzio. Tutti conoscono questa frase, che ebbe grande enfasi.
Meno conosciuta è la locuzione «Vittoria avvilita»: il suo autore fu un giovane Pietro Nenni, confermando come queste idee non fossero patrimonio di pochi nazionalisti, ma colsero il sentimento di una delusione di massa per i risultati della vittoria.
Ma perché si giunse a questa situazione?
In primis perché i risarcimenti territoriali arrivarono tardi, ben 2 anni dopo la fine della guerra, consentendo il fomentare dell'insoddisfazione. Poi a causa di quelle che erano le aspettative iniziali, che erano molto alte e intrecciavano rivendicazioni territoriali e politiche. Sullo sfondo c'era la volontà dell'Italia di essere riconosciuta come grande potenza.
Con il Patto di Londra del 1915 ciò sembrava a portata di mano.
 
A fine guerra però lo scenario mutò. Non c'era più la Russia, ma c'erano gli Stati Uniti che però non avevano firmato nessun patto e avevano mani libere, oltre a sostenere, con il presidente Wilson, il concetto di autodeterminazione dei popoli.
Per questo la Dalmazia, promessa all'Italia, andò alla Jugoslavia e gli alleati dell'Italia, Francia e Inghilterra, non si spesero più di tanto in favore delle rivendicazioni del Belpaese.
In reazione di questa situazione l'Italia chiese di più: anche Fiume, sull'onda della radicalizzazione delle opinioni pubbliche, conseguenza degli aspri anni di guerra.
Fiume era, infatti, abitata da italiani e divenne dunque la nuova città irredenta, oltre che oggetto di infuocato dibattito politico.
Alle trattative, Sonnino chiese dunque il rispetto del Patto di Londra, mentre Orlando, basandosi sul principio dell'autodeterminazione dei popoli, chiese Fiume: ma la delegazione italiana si trovò isolata e, di fronte all'entrata di Wilson direttamente nel dibattito politico italiano, si ritirò dal tavolo della trattative e tornò in Italia per chiedere un forte sostegno dell'opinione pubblica.
 
«A questo punto – ha detto Pupo – mi viene in mente un parallelismo con quello che è successo in Grecia pochi mesi fa, con Tsipras ed il suo referendum.»
Allo stesso modo del premier greco, l'Italia ritornò sul tavolo delle trattative ancora più debole «col cappello in mano», costretta ad accettare condizioni al ribasso.
Nacque così la «questione fiumana», sfociata nell’impresa di D'Annunzio con i legionari del Vate che proclamarono la “Reggenza italiana del Carnaro”, poi costretta alla resa.
Nei confronti della vicenda il governo italiano tenne un atteggiamento di ambiguità, come già era accaduto a suo tempo con Garibaldi.
Ma questa volta a fianco di D'Annunzio combattevano tanti soldati e ufficiali «ammutinati», sottolineando che c'era una nuova questione sullo sfondo, ossia i militari che venivano ad acquistare una coscienza «politica» fino a rompere la disciplina militare.
Era la rivoluzione delle avanguardie al potere, dell'esaltazione della nazionalità, dell'agire, dell'onore, del vitalismo. Era anche un nuovo modo di comunicare, di creazione del mito e della mistica della patria.
 
La gestione della vittoria bruciò politicamente tutti quelli che ci misero mano, di fatto anche il D'Annunzio.
Come si poté risolvere una simile situazione di stallo? Con il cambiamento degli scenari internazionali: Wilson lasciò il potere, inglesi e francesi si disinteressarono, lasciando la Jugoslavia al suo destino, con tanti problemi interni da risolvere.
A fine 1919 però l'esercito italiano era diviso in due, Giolitti e Sforza provavano a fare politica estera, rinunciando all'Albania, cercando l'amicizia della Jugoslavia e offrendosi di riconoscere il governo di Belgrado.
Al prezzo delle rivendicazioni territoriali su Fiume e la Venezia Giulia. Nacque così il trattato di Rapallo, considerato il capolavoro di Sforza e isolando D'Annunzio.
Ma ormai la crisi dello Stato italiano era troppo avanzata ed emergeva con forza e ardore la preponderante figura di Benito Mussolini.
Preso il potere, il Duce proseguì la politica di Sforza di amicizia verso la Jugoslavia, portando avanti il trattato di Rapallo.
 
Una serie di eventi che fa concludere Pupo.
«La costante della politica italiana dall'Unità al Fascismo fu sempre caratterizzata dalla forbice tra aspettative e realtà, riguardo al ruolo dell'Italia, oscillando fra il realismo e idealismo fino alla Seconda Guerra mondiale.»
E qui inizia tutta un'altra storia.
 
Un argomento molto importante non è stato affrontato, quello dell’Alto Adige.
Con il trattato di Versailles (1919) il confine dell’Italia venne portato al Brennero, alla faccia della tanto proclamata autodeterminazione dei popoli…
La disputa politica internazionale rimase calda solo al confine della Venezia Giulia fin dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, mentre nessuno ha preso in considerazione il popolo di lingua tedesca dell’Alto Adige.
L’unico passo importante fu quello sottoscritto da Degasperi e Gruber a Parigi, dove venne riconosciuta la specialità dell’Alto Adige (e grazie a Dio anche quella del Trentino).
Ma la soluzione del problema è rimasto affidato alla carità e al buonsenso della gente che si è trovata a vivere al di qua delle Alpi.

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