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«Gianluigi Rocca. Memoria e disincanto» – Di Daniela Larentis

Inaugurata a Costa di Folgaria la mostra dedicata all’artista, curata da Daniela Ferrari, visitabile dal 22 luglio al 15 ottobre 2023 a Maso Spilzi – L’intervista»

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Nella suggestiva location di Maso Spilzi a Costa di Folgaria, è in corso una bella mostra dal titolo «Gianluigi Rocca. Memoria e disincanto», a cura di Daniela Ferrari, storica dell’arte e autrice di numerosi scritti sull’opera del noto artista trentino.
Organizzata dal Comune di Folgaria in collaborazione con il Mart - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, è stata inaugurata lo scorso 22 luglio innanzi a un folto pubblico, alla presenza dell’Assessora alla Cultura del Comune di Folgaria Stefania Schir.
 
Accompagnata da un esaustivo catalogo, resterà aperta con ingresso libero fino al 1° ottobre 2023, nei seguenti orari: da martedì a domenica dalle 15.00 alle 18.00 fino al 10 settembre; solo sabato e domenica dalle 10.00 alle 12.00 e dalle 15.00 alle 18.00 dal 16 settembre al 1° ottobre 2023.
Quella proposta è un’inedita lettura dell’opera e della vicenda umana dell’artista.
Nel panorama dell’arte contemporanea trentina la figura di Gianluigi Rocca si distingue per un evidente e dichiarato legame con la tradizione, sottolinea la curatrice.

Rapporto messo in luce anche dalla poetessa Lilia Slomp, attraverso una vibrante poesia (versi tratti da «Nel franare colorato dei giorni», pag.49 catalogo): «[…] Traccia fagotti di passi il lapis | carezza crepe dentro il vasellame | l’istante capovolto degli imbuti. | Bussa l’artista al portale antico | funambolo di attimi sospesi | saltimbanco di verde ai prati alti | quando la stalla diviene rifugio | profumo di latte appena munto […]»
 

 
L’Assessora Stefania Schir, nel suo contributo in catalogo, evidenzia a sua volta il legame indissolubile con la terra:
«La scelta delle opere di questo artista nasce dalla volontà di farle dialogare con il contesto di Maso Spilzi e in particolare con l’esposizione permanente Vivere e lavorare in montagna – tragan ü arbótan in pérk. Ambienti, suggestioni e antichi mestieri dell’Alpe Cimbra: un collegamento tra l’architettura, l’antica funzione del maso e il mondo a cui le opere esposte rimandano.
«Un binomio, arte e montagna, che qui si vuole presentare e di cui Gianluigi Rocca è una sorta di personificazione: artista, a lungo docente presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, ma anche fieramente attivo nelle malghe delle montagne del Brenta e dell’Adamello.»
 
Daniela Ferrari focalizza un interessante aspetto:
«Si potrebbe quasi azzardare l’affermazione che Rocca somigli più a un artista del passato che del presente, nonostante all’anagrafe egli sia nato nel settembre del 1957 a Larido, una minuscola frazione del comune di Bleggio Superiore nelle Valli Giudicarie.
La sua specificità, o inattualità, non risiede soltanto nei soggetti dei quadri: ritratti, nature morte e paesaggi, generi che definiremmo classici per un pittore; ma anche nella tecnica scelta per rappresentarli; lapis e matite colorate, gli strumenti più semplici e umili per tracciare un segno.»
Curiosi di saperne di più le abbiamo rivolto alcune domande.
 

 
Partiamo dalla scelta del titolo, «Memoria e disincanto»…
«Il titolo rispecchia in modo molto puntuale quello che è il senso della mostra.
«Uno dei temi focali del lavoro di Gianluigi Rocca è proprio il tema della memoria, il desiderio di mantenere sempre viva la memoria di un tempo antico, legato anche al suo vissuto e a quello di coloro che lo hanno accompagnato nella sua infanzia, trascorsa ai piedi della montagna Cima Sera e nella Val Marcia.
«Nelle sue nature morte raffigura gli oggetti che gli sono stati affidati dalle persone che gli sono state vicine, una sorta di eredità preziosa, come i piatti di un’anziana donna del paese, in un certo senso elevati a oggetti simbolici di un ricordo, di una memoria che va preservata.
«Poi c’è il tema del disincanto, il tema legato alla consapevolezza. La consapevolezza di ciò che è la realtà, quella di vivere in un mondo che non esiste più se non attraverso il ricordo. È una nostalgia per un tempo legato alla semplicità, alla frugalità.
«Gli oggetti protagonisti delle sue opere sono lo specchio di un vissuto, le sue scarpe da montagna, per esempio, ma anche le scarpe di coloro che gli sono stati accanto, quelle dello zio, della donna amata, le scarpette da ballo consunte appartenute a una cara amica che studiava danza classica e così via.
«Egli costruisce composizioni complesse, sofisticate nonostante la semplicità degli oggetti prescelti, oggetti depositari di una memoria privata ma al contempo collettiva.»
 
Quante sono le opere esposte?
«Le opere in mostra sono una quarantina, alle quali si aggiungono i segni del suo lavoro, i trucioli di matite conservati in una bacheca, più gli oggetti da lui rappresentati, una sorta di installazione vera e propria.»
 

 
Come è stato pensato il percorso espositivo?
«Va detto che è stato possibile allestire la mostra grazie alla disponibilità dei molti collezionisti che hanno prestato le loro opere, davvero una grande fortuna.
«Attraverso queste quaranta opere, che rappresentano la produzione artistica di Gianluigi Rocca fino al 2023, è possibile comprendere tutto il percorso dell’artista. La cosa interessante è che alcuni oggetti ritornano nel tempo, reinterpretati nell’arco di vari anni.
«C’è una sorta di riferimento morandiano, lo stile di Rocca è completamente diverso da quello di Morandi, ma ci sono delle similitudini, degli aspetti che li rendono affini.»
 
Con che tecnica sono state realizzate?
«Tutte le opere sono realizzate a matita, lapis e matite colorate, solo segno tracciato sulla carta, in grado di creare una sorta di magia.»
 

 
Potrebbe ripercorrere brevemente le tappe più significative del percorso artistico di Gianluigi Rocca?
«Gianluigi Rocca è uno straordinario ritrattista. Lui inizia la sua vastissima produzione artistica, che fino ad oggi annovera tra disegni, dipinti e incisioni circa seicento opere, con il ciclo Gli abbandoni, realizzato a olio.
«Man mano che alcuni paesi attorno a lui incominciano a essere abbandonati e a morire, uno spopolamento dovuto all’avvicinamento ai grandi paesi e alle città, inizia a ritrarli e a tracciarne memoria attraverso una serie di opere eseguite tra il 1976 e il 1982.
«Nel tempo, tuttavia, questo ciclo si trasforma, lasciando il posto ad altre serie, quasi esclusivamente realizzate attraverso la tecnica della matita; non vi giunge in modo razionale, la scelta avviene con naturalezza, continuando a tracciare segni così come faceva da bambino. Ne sono testimonianza Memoria di un uomo di montagna, Fragili solitudini, Perdute cose, la serie delle ombre ecc.
«In queste opere c’è una dimensione crepuscolare molto forte, una malinconia che non è tristezza ma introspezione, profondità. Si susseguono poi tante altre serie, in mostra ci sono esempi di tutti i suoi cicli, non ci sono però i ritratti.
«Un ciclo molto intenso, molto particolare, è quello dei Fagotti che si conclude per il momento con un’opera appena terminata (per questa ragione non presente in catalogo), intitolata Il fagotto del giorno di lacrime.
«Realizzato con delle coperte, delle stoffe, il fagotto racchiude l’essenziale; è un tema che ritorna, lui ciclicamente recupera questo oggetto e lo reinterpreta assegnandogli nuovi significati.»
 
A cosa sta lavorando/progetti futuri?
«In questo periodo sto scrivendo molto; si è da poco conclusa una mostra importante, dedicata a Felice Casorati, che si è svolta alla Fondazione Magnani Rocca, a Mamiano di Traversetolo (Parma); al Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, in dicembre, verrà inaugurata una mostra attraverso la quale il Mart esporrà delle opere di Dürer in dialogo con la pittura e scultura del Novecento, ma anche con il contemporaneo».

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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