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Trentino Rock, dagli anni '60 a oggi/ 16 – I Federal Sound

Si esibivano al «Club dei Felpati», dove i giovani Trentini cominciarono a socializzare in maniera sana e consapevole. La generazione volta pagina

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I Baby Felps si formarono nel 1967, per trasformarsi poi l’anno successivo in Federal Suond.
È da questa evoluzione che nacque il «Club dei felpati», che per oltre 20 anni fu il punto di ritrovo più importante della città di Trento.
La base operativa del Club dei Felpati si trovava nel locale che anni dopo avrebbe ospitato La Mandragola, ma che all’epoca fu il primo vero e proprio circolo privato della città, dove i giovani trentini impararono a socializzare e – ci pare il caso di dirlo – in maniera perfettamente legale.
 
Per entrare nei Club dei Felpati (il cui nome derivava dai capelli lunghi che verosimilmente avrebbero potuto portare senza scandalizzare), si pagava una piccola quota d’iscrizione annua. In cambio il sabato e la domenica pomeriggio si ascoltava buona musica prodotta da propri coetanei e c’era perfino un piccolo bar che non vendeva nella maniera più assoluta alcolici. Inutile aggiungere che si fumavano solo sigarette.
Gli iscritti raggiunsero l'incredibile numero di 3.000 unità.
Negli anni subì varie trasformazioni, ma passerà alla storia come una sorta di vero Piper Trentino, che contribuì di fatto al cambiamento di tutte le abitudini dei giovani di quegli anni. 
 
I protagonisti musicali dei felpati erano Renzo Grosselli alla voce, Roberto Cimadon alla batteria, Alessandro Cadrobbi al sax, Alvise Fox alla chitarra e Francesco Bertoldi al basso.
Tecnicamente alcuni di loro sono molto preparati (avevano studiato musica, cosa rara per i complessi di allora) e proprio per questo, a cavallo degli anni 60-70, la band risulterà una delle più importanti nel panorama trentino.
Iniziano a suonare tutte le domeniche pomeriggio ai Felpati, facendo regolarmente il pieno di ragazzi.
«Ogni domenica pomeriggio facevamo il pieno – ricorda Renzo Grosselli, – erano per lo più studenti che si identificavano nella nostra musica con una grande voglia di ribellione.»
 
Il Club dei Felpati decise di investire su di loro.
Vennero acquistati un impianto voci all’avanguardia, un furgone e perfino le divise. Poi vennero anche ingaggiati dei giovani di supporto per il montaggio e il trasferimento degli strumenti sui luoghi dei concerti.
Anche se con qualche difficoltà, il gruppo suonava anche fuori regione, vincendo però un festival per gruppi emergenti a Milano.
La band in un momento di grandi rivendicazioni sociali riesce a far convivere al suo interno due anime. Quella strettamente proletaria e quella borghese.
«All’interno della Band le differenze non si sentivano. – Ricorda Renzo Grosselli. – L’unico obbiettivo era quello di suonare e migliorare. Grazie alla nostra musica, in città sono nati quelli che allora venivano chiamati “covi proletari” e che servivano comunque come punto di aggregazione e confronto.»
 
I Federal Sound suonano insieme fino alla fine del 1972.
«Eravamo consapevoli - aggiunge Alessandro Cadrobbi – che giunti a quel punto o si facevano le cose sul serio e quindi si passava al professionismo, oppure si smetteva.»
Cadrobbi inizierà una nuova esperienza con gli Orpheon insieme al maestro Armando Franceschini, con il quale inciderà anche un disco, che durerà fino alla fine degli anni 70.
Francesco Bertoldi, dopo aver collaborato con musicisti di fama internazionale, diventerà titolare della cattedra di pianoforte al conservatorio di Trento, dove ancora oggi vive e lavora.
Alvise Fox diventerà professore di Musica e purtroppo scomparirà il 7 luglio 1998, mentre svolgeva il servizio di docente spostandosi per gli esami di maturità al Prati di Trento. Per ricordare la sua figura di insegnante è stata istituita una borsa di studio a suo nome al Liceo “A.Maffei” DI Riva Del Garda.
Degli altri, musicalmente parlando, se ne sono perse le tracce.
 

 
Oggi sono nostri ospiti Alessandro Cadrobbi (foto sopra) e Renzo Grosselli (foto sotto), che allora rappresentavano le due anime della Band. 
 
Federal Sound è un nome piuttosto originale, quali sono le radici di questo nome?
«In nostro mito era l’America, – comincia Grosselli. – Da qui il nome americanizzato. I nostri punti di riferimento erano i neri d’America, la lotta contro il razzismo, le ingiustizie sociali. Suonare “Otis Redding, Wilson Pickett, James Brown, Jimi Hendrix per noi voleva dire tentare di cambiare il mondo, ricostruirlo e cambiarlo nuovamente.»
 
Si sentiva molto la voglia del cambiamento in città allora?
«Eravamo in pieno ’68, – continua Alessandro Cadrobbi. – In città si sentiva la grande voglia di cambiamento, eravamo consapevoli che noi giovani stavamo diventando importanti. Il messaggio della nostra musica era quello della ribellione più folle, noi musicisti eravamo visti come veicoli del disagio e della voglia di ribellione di tutto il mondo giovanile.»
 
Di ricordi immagino ne abbiate molti?
«Si certo. – Continua Grosselli. – Ma il più bello rimane il grande concerto al Teatro Sociale, dove chiudemmo il concerto come ospiti, prima dei Dik Dik. Ricordo bene anche il titolo della canzone che interpretammo, Night In White Satin dei Moody Blues che due anni più tardi sarebbe stata ripresa dai Nomadi e diventerà la mitica ho difeso il mio amore
«Per me invece – si aggiunge Cadrobbi, – i ricordi sono tutti molto belli. Ricordo la falegnameria di Jmmy Pedrotti dove facevamo prove, gli autografi che firmavo e le fans femminili che ci apprezzavano molto.»
 
Cosa vi ha dato la musica?
«In quei momenti – confessa Grosselli, – quando era difficile anche trovare i soldi per mangiare, la musica era sicuramente uno strumento per emergere. Ma nel mio caso, la musica mi ha aiutato a credere in me stesso. E conseguentemente ad aumentare la mia autostima.»
«La musica, a parer mio, – sorride Cadrobbi – ti costringe a metterti in gioco di continuo. Non ci sono mai pause, è come un linguaggio universale in continuo cambiamento.»
 
 
 
Rimpianti?
«Ho un grande rimpianto, – risponde Grosselli. – Temo che in quegli anni abbiamo bistrattato e buttato via delle occasioni per garantire alla canzone Italiana visibilità in tutto il mondo. Se Lucio Battisti fosse stato Inglese probabilmente adesso si parlerebbe dei Beatles, Dylan e Battisti…»
 
E la musica di adesso?
«Oggi i giovani sono molto più preparati di noi – ammette Cadrobbi, - provano in modo diverso ma soprattutto le nuove tecnologie rendono molto più facile l’apprensione e l’ascolto.»
 
Che musica ascoltate adesso?
«Per quanto mi riguarda spero di morire ascoltando De Andrè» – sorride sornione Grosselli.
Cadrobbi invece ha idee diverse in proposito. «Io ascolto molto blues, da Gerry Mulligan a Stevie Ray Vaughan, ma anche il primo Bob Dylan e gli intramontabili Otis Redding e James Brown.»
 
Vi è rimasto ancora un sogno da raggiungere, musicalmente parlando?
«Purtroppo io non ho potuto impostare bene la mia voce, – ci sorprende Grosselli. – Anzi, ritengo che l’inesperienza abbia contribuito a rovinarmela. Diciamo quindi che mi piacerebbe aiutare i giovani musicisti a non fare altrettanto…»
«Il mio sogno – interviene Cadrobbi – è invece quello di apprendere sempre qualcosa di nuovo per poter quindi suonare sempre meglio.»
 
Continuiamo l’ultima parte dell’intervista con il solo Alessandro Cadrobbi.
Ti riconosci qualche pregio e difetto?
«Sono sempre stato musicalmente molto volubile. E forse alla lunga questo può essere un difetto. Ritengo invece un grande pregio il mio grande amore ed entusiasmo verso la musica in generale.»
 
Hai ancora un sogno da raggiungere?
«Per quanto mi riguarda, il mio unico sogno è imparare bene la musica. Infatti credo che il percorso della musica in generale sia infinito.»
 
Sei sempre legato al mondo musicale?
«Anche se non direttamente mi tengo molto informato,leggo molti libri e biografie e guardo film legati al mondo musicale. Credo che un musicista lo sia per sempre, da questa passione è difficile uscirne.»
 
Ma è una passione così importante la musica?
«È la colonna sonora della nostra vita, ti aiuta a ricomporre e ricordare tutti i momenti belli e brutti di una vita. Proviamo a pensare un mondo senza melodia, senza ritmo, penso sarebbe una vita triste e grigia.»

 
Ed è proprio dei suoi rimpianti che ci continua a parlare Alessandro Cadrobbi
«Io avrei continuato volentieri a suonare allora, ma non si è più creata nessuna alchimia con nessun gruppo. Poi il tempo passa e della musica ti rimane solo il ricordo.»
Alessandro poi ci ricorda come in quegli anni non esistesse nessun bombardamento musicale e che ogni cosa che suonavi poteva essere una novità.
«L’unica fonte di aggiornamento per alcuni di noi era la Hit Parade che trasmettevano il Sabato alla Radio.» Poi ci racconta della cultura musicale della sua famiglia, che continua attraverso suo figlio, delle dinamiche che deve avere un musicista.
«I musicisti sono moltissimi, – conclude. – Ma quelli bravi sono davvero pochi.»
 
E forse, dentro di lui, diplomato in conservatorio, rimane questo grande rimpianto. Di essere stato bravo, ma di non aver potuto diventare lo stesso uno di quei pochi…
 
Roberto Conci
r.conci@ladigetto.it
Il prossimo appuntamento sarà con Valerio Dalvit, grande chitarrista dei Reportage.
  
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 Anche stavolta il nostro direttore vuole aggiungere qualcosa   
 
Il Club dei Felpati segnò un momento importante per la città di Trento. A due passi dalla Curia vescovile, si riunivano centinaia di ragazzi che, secondo i benpensanti di allora, ne combinavano una peggio di Bertoldo.
In realtà, però, le cose possono essere spiegate oggi in tutta serenità.
In quegli anni, i ragazzi nati nell’immediato dopoguerra cominciavano a diventare adulti.
Fino a quel momento, le ragazze non uscivano con i ragazzi per la semplice ragione che i genitori non le lasciavano uscire.
L’unica occasione per socializzare tra maschi e femmine era rappresentata dalle funzioni religiose del Vespro, che venivano celebrate nei mesi di maggio e di settembre.
 
Con i 18 anni (la maggiore età la si raggiungeva a 21 anni), chi poteva organizzava in casa dei festini dove gli ospiti portavano i propri dischi. Così si poteva ballare la mattonella, grazie anche all’assenza dei genitori, che tutto sommato li preferivano sapere a casa.
I più fortunati riuscivano a farsi una ragazza, con la quale peraltro era fuori dubbio che non sarebbe mai andato più in là di un bacio. Inutile dire che far l’amore con le ragazze era considerato inverecondo.
E quando una povera ragazza ci stava, veniva additata e isolata dalle amiche.
Eppure, le cose cambiarono proprio con i 18 anni dei ragazzi nati nel primo dopoguerra, quelli che a 20 anni fecero il Sessantotto e che a quaranta abbatterono il Muro di Berlino.
È bene dire oggi che ci si faceva un mazzo così, ma alla fine la ragazza (la tua ragazza, sia ben chiaro) ci stava. In quali circostanze potesse accadere e in quali location, non può essere ricordato senza un sorriso sulle labbra.
Vedere i giovani d’oggi che fanno sesso a casa dei genitori fa capire quante cose è riuscita a cambiare la nostra generazione.
 
Beh, per tornare a noi, i Felpati furono il vero e proprio centro di socializzazione in quella Trento bacchettona e benpensante.
L’unico posto sano e sicuro dove i giovani trentini potevano imparare a socializzare tra maschi e femmine, in maniera sana e consapevole, lontani dai genitori ma anche dai posti pericolosi e – ci pare il caso di sottolinearlo – in maniera perfettamente legale, era proprio il Club dei Felpati.
Si fumava sì, ma solo sigarette. Si beveva sì, ma dai Felpati non circolavano alcolici. Si amoreggiava sì, ma la maggior parte di quelle coppie convolò a nozze. E, a quanto pare, la metà di loro sono ancora felicemente unite.
Durò una decina d’anni: il tempo di diventare adulti e inserirsi nella società.
I giovani che vennero dopo avevano la strada spianata. Non c’era più bisogno dei Felpati.
 

Guido de Mozzi
g.demozzi@ladigetto.it 
 

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