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Elogio dell'attesa – Di Minella Chilà

Riappropriarsi del proprio tempo, riscoprire la lentezza, recuperare un passo diverso

L'attesa è un luogo, uno spazio interiore in cui ci rifugiamo per riprendere fiato, per riflettere, per sognare.
È un momento, un moto dell'anima in cui desideriamo che il nostro pensiero si dispieghi in tutta la sua potenza, come un aquilone che si solleva in aria, un odore del passato, un tormento, una ruga profonda.
L'attesa richiama lentezza e ponderazione un esercizio poco diffuso nel nostro tempo, dove tutto deve esser veloce, rapido, easy, «in pillole» perché non si ha più il tempo né la voglia di concentrarsi, di soffermarsi... di attendere.
 
Anche le donne che per intere generazioni sono state «alla finestra» ad aspettare, oggi si definiscono «sempre di corsa», e dopo aver avuto un figlio ecco spuntare le «mamme acrobate» o «mamme equilibriste» che per incastrare tutti gli appuntamenti, gli impegni, con ritmi di lavoro sempre più incalzanti cercano forme di «conciliazione» sempre più estreme.
A volte a furia di dover fare mille cose contemporaneamente ci dimentichiamo quelle più importanti ed è così che inizia a spegnersi qualcosa dentro noi stessi.
Recuperare il valore dell'attesa, aspettare che quel qualcosa accada, che si trasformi o che si consumi, significa a volte concedersi il tempo di osservare da un altro punto di vista la questione, la decisione, il problema. Attendere non rientra più nelle nostre abitudini di vita, tutto e subito è l'imperativo!
 
E se riuscissimo a considerare l'attesa una condizione attiva in cui tutto può avvenire? Un luogo in cui rintanarsi per prendere tempo e cercare di rifocillarsi dai ritmi feroci che scandiscono le nostre giornate?
Eppure ci sono degli eventi nella vita di ciascuna di noi che ci impongono di rallentare, che ci offrono una vera occasione di rinascita, restituendoci un passo dimenticato.
La gravidanza è il vero banco di prova, nove mesi di carezze, di dolci pensieri, di paure, di grandi gioie, prima di poter stringere tra le braccia il proprio bambino, nove mesi in cui la nostra pancia cresce assieme a tutte le aspettative ed ai sogni carichi di un amore smisurato di cui nessuna ne conosceva l'esistenza.
E poi attendiamo che la montata lattea arrivi per nutrire il nostro piccolo, sempre con il terrore di non farcela, di non averne abbastanza.
E continua l'attesa, quando sono piccoli piccoli li vegliamo anche tra un sonno e l'altro, per paura che qualche brutto sogno ce li porti via ed una volta grandi (ma in fondo non lo saranno mai abbastanza) continuiamo silenziosamente ad aspettare, in quelle notti lunghissime, che rincasino dalla discoteca o da una cena con amici, sani e salvi.
 
Ed ancora prima… c'è quel passaggio fatidico da bambina a donna, l'attesa che arrivino le nostre cose, il ciclo, la prima espressione di femminilità, dopo, per la maggior parte della nostra vita, salvo consapevoli o inconsapevoli interruzioni, ogni mese ci toccherà combattere con sbalzi ormonali, dolori, fastidi, piccoli e grandi disturbi.
Cominciamo sin d'allora a coltivare una specie di rassegnazione a questo evento, una paziente attesa che fa parte del nostro mondo come le stagioni, il passare del tempo... e poi, quando ci siamo abituate a convivere con questo appuntamento fisso dobbiamo già prepararci a un altro importante cambiamento e ad accettare una forma di femminilità diversa, più matura.
Ma fa parte dell'essere donna, siamo abituate ad aspettare.
 
Anche nel rapporto con il nostro compagno aspettiamo che lui si ricordi gli anniversari, i compleanni, le date più o meno importanti, con un pensiero, un dono, una telefonata.
Ci sono equilibri che funzionano da sempre in una sola maniera, e nonostante le varie trasformazioni subite dalla coppia, questi ruoli rimangono nel tempo immutati, quasi incontaminati da nuove tendenze al masochismo.
Aspettiamo sin dai banchi di scuola che quel qualcuno si accorga di noi e si giri e ci guardi finalmente, a volte pensiamo di poter esistere solo per quell'attimo, per quell'incontro.
Attendiamo che il nostro uomo torni vincitore o comunque torni da noi.
 
Penelope attese che Ulisse tornasse dalla guerra e dal suo lungo viaggio continuando a tessere il sudario di Laerte di giorno e disfacendolo di notte, pur di non dover cedere ad uno dei tanti pretendenti che continuavano a insidiarla.
Ed è anche quello un rapporto, una storia d'amore, un legame profondo che ha tenuto le loro anime unite in una sorta di non matrimonio, ma che alla fine è diventata una scelta di vita necessaria per poter realizzare loro stessi.
Chi può giudicare quanto si debba aspettare... anni, mesi, settimane?
Eppure fanno ancora notizia le coppie che si ritrovano dopo tanti anni, come Renzo Arbore e Mariangela Melato, insieme negli anni '70, si lasciano i primi anni dello'80, per incontrarsi nuovamente 3 anni fa e tornare a stare assieme affiatati ed innamorati, come prima o almeno così raccontano.
 
A volte non lo confessiamo neanche a noi stesse, ma in fondo al nostro cuore aspettiamo ancora che lui sbuchi da quella porta, che ci prenda tra le braccia e che ci porti via lontano su un cavallo bianco.
È il sogno realizzato in Pretty Woman da quella ragazzona di Julia Roberts...
In fondo attendere non costa nulla, crogiolarsi in un rimpianto, tessere un sogno impossibile, fa male solo a sé stessi.
 
L'attesa, a volte, può essere anche un modo per non vivere la propria vita, un alibi per nascondersi, un buco nero in cui rintanarsi, convincendosi che ce ne sia una migliore da un'altra parte, in un altro mondo, comunque altrove.
Anche attendere una telefonata che non arriva mai, consumarsi nell'attesa di quella voce, di quel trillo, di quella scossa, fa parte di questo vivere a metà.
 
Qualcuno di voi ricorderà forse una meravigliosa Anna Proclemer, famosa attrice trentina, che in una sua apparizione televisione di molti anni fa interpretava una donna che si struggeva nell'attesa spasmodica della telefonata dell'amato.
Il suo viso con lineamenti forti, intensi si scioglieva, contraendosi più volte, lo sguardo fisso verso quel telefono, la tentazione di digitare quel numero impresso nella mente e tatuato nel suo cuore, la certezza di sbagliare, di non doverlo fare, aspettare, aspettare...quanto dolore in quell'attesa, lei che si trasforma in una maschera di dolore, darebbe in quel momento la vita per sentirlo, per udire anche per un attimo quel «pronto», quel ciao...
 
Minella Chilà
minella.chila@ladigetto.it

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