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Il 24 maggio di 105 anni fa l'Italia entrava nella Grande Guerra

Le drammatiche giornate che portarono alla terribile decisione di entrare in querra

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Il manifesto col quale lo Stato visualizzava al popolo italiano l'entrata in guerra.

L’inverno 1914-1915 fu terribilmente freddo, ma questo non impedì ai signori della guerra di scatenare battaglie gigantesche sul fronte orientale, dove morirono decine e decine di migliaia di soldati tra atroci sofferenze.
Nella prima metà del 1915 parleremo della battaglia dei Tre Imperi (Germania, Austria-Ungheria e Russia), della Battaglia dei Mille chilometri e della tragica e stolta dei Dardanelli.
Ma ciò che più ci riguarda da vicino sono le vicende politiche, diplomatiche e militari che portarono il Regno d’Italia ad entrare nella Prima Guerra Mondiale.
Era arrivato al 1915, l’anno di sangue per l’Italia.

Con il senno di poi, la maggior parte degli osservatori condanna oggi l’entrata in guerra dell’Italia, ritenendo che se fosse rimasta neutrale avrebbe risparmiato la vita a 600 mila soldati italiani e avrebbe ottenuto lo stesso notevoli benefici dalle nazioni belligeranti.
Noi non siamo di questo parere, anche se - con il senno di poi - anche noi affermiamo che la guerra doveva essere evitata. Ma si parla di cento anni fa e non di oggi.
La scelta di restare neutrali venne presa dal governo italiano già il 3 agosto 1914, poco dopo l’attentato di Sarajevo, sulla scorta del trattato della Triplice Alleanza che prevedeva l’entrata in guerra a fianco degli alleati solo in caso di attacco nemico.
La guerra era stata scatenata da un insieme di eventi concatenati che deponevano a favore della decisione italiana. Anzitutto l’Austria Ungheria non era stata attaccata dalla Serbia ma, viceversa, aveva deciso di invaderla. La Russia minacciò il proprio intervento a fianco della Serbia. A quel punto la Germania dichiarò guerra a Russia e Francia prima ancora che San Pietroburgo e Parigi decidessero alcunché. Una questione di tempi, ma che concesse all’Italia l’alibi per affermare la propria neutralità.
Ecco cosa accadde in Italia in quei giorni convulsi.
 

Luigi Carodna, Franz Conrad von Hötzendorf e Helmut Johan Ludwig Moltke.

Alle ore 09.00 del 2 agosto 1914, il conte Luigi Cadorna era nel suo ufficio di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, quando gli venne annunciata la visita dell’addetto militare all’Ambasciata austriaca a Roma.
Dopo i brevi convenevoli del caso, l’ufficiale diede al generale una lettera riservata, a firma del generale Conrad.
 
Eccellenza,
la situazione, diventata improvvisamente serissima, mi obbliga a chiedere a Vostra Eccellenza quegli accordi verbali che io avevo intavolato con il generale Pollio, ora defunto.
Essi consistono in questo: che l’Italia destini le proprie truppe a soccorso dell’Austria Ungheria.
Prego V.E. di comunicarmi benevolmente quali truppe designa a ciò e quando e dove saranno pronte.
Mi permetto anche di pregare V.E. di mandare immediatamente a Vienna un Delegato munito dei pieni poteri necessari.
Voglia gradire l’assicurazione della mia altissima considerazione e devozione.
Conrad, generale di fanteria.


 
Cadorna non riuscì a nascondere il proprio imbarazzo, poi diede una risposta di circostanza precisando che la questione era nelle mani del governo.
Poco dopo, fu la volta dell’addetto militare tedesco. Il quale si limitò ad annunciare la visita del generale von Chelius, inviato da Guglielmo II e da Moltke.
E infatti, il generale von Chelius si presentò a lui con precise disposizioni da Berlino.
Mentre Conrad si era limitato a porre sul tavolo richieste di natura militare, il tedesco andò più in là.
Alle richieste di intervento armato fece seguire delle promesse: Nizza, la Corsica e la Tunisia. [Non venne fatto cenno alla Savoia – NdR].
Ovviamente non mancò di magnificare la formidabile potenza militare teutonica, che Pollio (ma non Cadorna) conosceva bene perché aveva assistito l’anno prima alle manovre tedesche nella Slesia.
 
«C’est l’affaire de quelques semaines» – sottolineò Chelius soddisfatto, nella lingua diplomatica in uso allora, anche se propria del paese nemico.
«Non vi pare un po’ poco qualche settimana? – Obbiettò Cadorna. – I Francesi hanno ottime fortezze al confine.»
Von Chelius non parlò dell'intenzione di invadere il Belgio, ampiamente pianificata da tempo, ma rispose con una battuta che impressionò il generale italiano.
«Si sferra un corpo d’armata – disse con noncuranza, – quindi un altro, i cui uomini passano sui cadaveri del primo.»
Passare sui cadaveri… – pensò Cadorna. – Un dogma della crudele strategia prussiana.
[Sappiamo che si sarebbe comportato così anche lui - NdR]
Il dialogo proseguì con altre battute ciniche, poi il messo del Kaiser venne alla richiesta formale.
«Quando sarebbero state pronte le truppe italiane da trasportare in Germania?» 
 

Cartolina postale che raffigura gli inutili corteggiamenti all'Italia.

Cadorna prese nota che i tedeschi non pensavano a un fronte italo francese, poi rispose che avrebbe dovuto consultarsi con il governo.
Mentre pensava a come fosse meglio procedere, Cadorna ricevette un foglio dal generale Domenico Grandi, ministro della Guerra, che diceva: «In relazione alla situazione politica internazionale, il Governo ha deciso di mantenere per ora atteggiamento di neutralità.»
Il noto gordiano era sciolto, l’Italia non seguiva gli Imperi Centrali nella grande avventura, quindi non era più il caso di parlare di un nostro intervento in Galizia, né di un trasferimento di truppe in Germania.
Il giorno dopo, il 3 agosto, l’addetto militare austriaco bussò nuovamente alla sua porta e il generale italiano gli annunciò la decisione del Governo, consegnandogli una lettera personale per Conrad in cui spiegava brevemente che la neutralità gli impediva di dare riscontro alle sue richieste.
Anche le illusioni di Conrad erano state di breve durata.
 
Prima ancora che la lettera giungesse nelle mani di Conrad, però, Vienna e Berlino avevano già ricevuto per altra via la nota della decisione del Capo del Governo Salandra.
Cadorna fu sommerso da telegrammi e missive da parte dei suoi addetti militari nelle varie ambasciate, la più lunga e circostanziata delle quali fu quella del colonnello Albricci, in forza a Vienna.
Albicci descrisse l’atmosfera ostile di Vienna nei confronti dell’Italia, che era sempre stata considerata infida.
«E' opinione diffusa che, se gli imperi centrali perderanno la guerra – scrisse, – la Francia avrebbe invaso e dominato l’Italia. Le promesse territoriali fatte all’Italia dalla Germania erano dunque note anche a Parigi.
«Se invece vinceranno gli imperi centrali, – continuò – gli austro ungarici avrebbero punito militarmente l’Italia.» Che poi era il sogno segreto di Conrad.
Fu un’osservazione per niente peregrina quella del colonnello Albricci, che forse pose la prima pietra alla necessità da parte dell’Italia di schierarsi da una parte o dall’altra.
 

Cartolina postale interventista.
 
Alle 3 di quella stessa notte, Albricci inviò un altro telegramma cifrato, nel quale spiegava di aver parlato con l’addetto militare tedesco a Vienna, il quale aveva protestato pesantemente con lui per il mancato impegno dell’Italia.
Un terzo telegramma giunse a Cadorna poco dopo, proveniente dall’addetto militare all’ambasciata italiana a Berlino, colonnello Calderari. Il contenuto era molto più pacato, dato che riferiva il messaggio dell’ambasciatore italiano Bollati, ma il succo era lo stesso.
«Generale Moltke mi ha oggi chiamato per dirmi di aver avuto comunicazione della neutralità dell’Italia e che era dolente di non poterci più considerare alleati.»
Insomma, i tedeschi ebbero una maggiore benevolenza nei nostri confronti. Ma solo finché caddero le speranze di una conclusione rapida della guerra. Dopo la battaglia della Marna, infatti, usarono anche loro con noi il linguaggio duro degli Asburgo.
Alla fine, Cadorna informò il governo che - vinti o vincitori - gli Imperi centrali alla fine della guerra si sarebbero scagliati contro l’Italia. Un’osservazione corretta, perché nessuno poteva immaginare allora che la sconfitta di Austria e Germania avrebbe portato allo sfacelo dei due imperi.


Salandra, Sonnino e Zuppelli.

Il 5 agosto 1014, si riunivano a Forte Braschi a Roma il Presidente del Consiglio Salandra, il ministro degli esteri Marchese di San Giuliano, il ministro della Guerra Grandi, il Capo di stato maggiore dell’esercito Cadorna e il Capo di stato maggiore della marina Thaon di Revel. Era la prima seduta dopo la dichiarazione di neutralità dell’Italia e dovevano fare il punto della situazione.
Cadorna si dichiarò per la mobilitazione generale immediata. Grandi invece era propenso alla sola chiamata alle armi delle classi 1889 e 1890. Informato come era dell’animosità di Vienna contro l’Italia, Cadorna riteneva pericolosissimo il tempo necessario per una mobilitazione generale, quantificata in 25 giorni, per cui non si poteva perdere altro tempo.
Salandra propose di richiamare 200.000 soldati e di raccoglierli in Val Padana. Cadorna rifiutò. In caso di aggressione erano troppo pochi, in caso di inattività troppi.
Poi si persero in questioni di carattere finanziario e organizzativo, con il ministro della Guerra, Grandi, che in tutte le ipotesi remava contro. Il quale ministro della guerra, comunque, non andava bene di fronte all’emergenza e Salandra decise di sostituirlo. E difatti il successivo 9 ottobre lo sostituì con Vittorio Zuppelli.
Zuppelli era nato 56 anni prima nell’Istria irredenta, per cui la scelta venne accolta con soddisfazione  dai circoli militari. E dato che Zuppelli era stato alle dipendenze di Cadorna, si poteva pensare di aver fatto un passo avanti, qualunque fosse il destino dell’Italia.
Al di là di alcuni cambiamenti strettamente militari concordati tra i due, il loro impegno principale fu volto a convincere il parlamento della necessità di concedere i mezzi finanziari per rammodernare l’esercito.
 
Frattanto l’opinione pubblica si andava orientando per l’entrata in guerra.
L’aggressività della Monarchia Danubiana nei confronti della Serbia aveva allarmato anche i più pacifisti, mentre la violazione della neutralità del Belgio aveva fatto capire quanto poco valesse la decisione di chiamarsi fuori.
Sicché gli Italiani si trovarono a rispolverare gli antichi sentimenti antiaustriaci e non tardarono a sorgere le manifestazioni a favore dell’Intesa. Il 15 settembre (3 giorni dopo la vittoria francese della Marna) si svolsero dimostrazioni popolari a favore di Trento e Trieste italiane. Stava tornando lo spirito risorgimentale.
Il 9 ottobre il ministro degli esteri San Giuliano subiva un infarto e il 12 ottobre moriva. A sostituirlo venne chiamato il barone Sidney Sonnino. Parve dunque un pronunciamento a favore della neutralità, perché il nuovo ministro era favorevole alla Triplice Alleanza. L’entrata in guerra della Turchia a fianco degli Imperi centrali però rimescolò le carte in gioco. La situazione era fluida e nulla era più incerto di ciò che si sarebbe dovuto fare.
E, di fronte alle necessità di cassa, il ministro del tesoro, Rubini, si dimise il 30 ottobre. Al suo posto venne messo un uomo della nomenclatura militare: l’onorevole Paolo Carcano. Vecchio garibaldino ferito a Mentana, Carcano portava al governo Salandra un nuovo tassello a favore della guerra.



In occasione della riapertura della Camera, il 3 dicembre, Salandra si rivolse ai deputati per invocare l’appoggio di tutto il Paese in quel momento di pericolo oggettivo. Il Presidente, che conosceva i parlamentari, non si dichiarò a favore della guerra, ma cercò di far capire che il momento imponeva una scelta di carattere straordinbario.
Nel dibattito che seguì, infatti, l’onorevole Giolitti dichiarava che l’astensione era stata una scelta giusta e doverosa. Ma anche nel clima di ostilità alla guerra, il governo chiese l’autorizzazione a finanziare il riarmo delle forze armate.
Il 5 dicembre le direttive del Governo venivano approvare con 413 voti favorevoli e 43 contrari.
Il 19 dicembre il Re firmava il decreto che deliberava il lancio di prestito di un miliardo di Lire e già l’11 gennaio la cifra era stata coperta.
Giolitti, che si era dichiarato contrario anche al riarmo, aveva annunciato una serie di iniziative popolari per opporsi a soluzioni militari.
Mussolini invece si staccò dal partito socialista per passare dalla parte degli interventisti. Aveva lasciato la direzione de l’Avanti! e aveva fondato il nuovo quotidiano Il Popolo (il primo numero uscì il 15 novembre 1914), proprio per sostenere la propria posizione al di fuori del partito. Insomma, si erano rovesciate le posizioni del 1911, quando Giolitti voleva la Guerra di Libia e Mussolini la osteggiava con tutta la sua forza. Questa è la politica.
Anche la massoneria si dichiarò a favore della guerra (evidentemente aveva un certo peso) e perfino i cattolici trovarono argomenti che consentivano loro di dissentire alla volontà del papa, anche se Vienna era «cattolicissima».
Se l’Avanti! (diretto da tre socialisti dopo l’uscita di Mussolini) eccitava le folle a invocare la pace, Il Popolo d’Italia (Mussolini), il Corriere della Sera, il Giornale d’Italia, la Gazzetta del Popolo e altri quotidiani importanti si erano espressi subito a favore dell’intervento, ottenendo più adesioni dei pacifisti.
La Germania cercò anche di corrompere qualche giornalista, ma la cosa venne a galla e - come si può immaginare - scoppiò uno scandalo non da poco. Forse questo argomento sarebbe da approfondire, ma lo faremo in altra occasione.
 

Nella cartolina dei 1915, il corteggiamento dell'Italia da parte dei due schieramenti in lotta.

Berlino e Vienna non si rassegnarono facilmente alla perdita dell’alleato Italia e mandarono vari emissari col compito di tentare le ultime carte.
Tre deputati austriaci (gli onorevoli Ellenbogen, Lehman e Oliva) si recarono a Milano per cercare di ottenere consensi, ma fu loro impedito addirittura di andare a Roma.
Poi venne un deputato tedesco, l’onorevole Sudekum, socialista di Norimberga, per sostenere i socialisti italiani, ma non ebbe successo neanche lui.
Ebbe quantomeno maggiori possibilità il principe von Bülow, inviato apposta dal Kaiser a Roma dove aveva molti amici e dove era considerato di un certo spessore. Giunto a Roma il 17 dicembre, intavolò con il nostro governo trattative proponendo - oltre a quanto già offerto a spese della Francia (Nizza, Tunisia e altro) - territori austriaci con la garanzia dell’Impero tedesco.
I territori in portafoglio erano il Trentino e una parte lungo l’Isonzo, intorno a Gorizia.
La proposta era concreta e percorribile, ma aveva un difetto: il tutto si sarebbe concretizzato solo a babbo morto. Cioè dopo la conclusione della guerra. E sempre che gli Imperi centrali l’avessero vinta.
E questo fu un errore gravissimo, perché se davvero volevano il sostegno italiano dovevano pagarlo per via anticipata.
Stranamente, invece, il Governo italiano si sarebbe fidato delle offerte fatte da Francia e Inghilterra.


Foto Trentino Grande Guerra.

 Cadorna aveva disposto la mobilitazione in aprile e allo scoppio della guerra (23 maggio) aveva «ammassato» in Veneto solo 200.000 ragazzi. I problemi logistici riscontrati erano piuttosto seri, eppure si era lontani dai sei milioni di soldati che negli anni di guerra sarebbero stati mobilitati.
Ma un po’ alla volta si organizzò anche l’esercito e Cadorna si dimostrò in questo un professionista preparato. Il che non era scontato, perché le capacità reali di un soldato si verificano solo in guerra.
Fatto sta che prima di raggiungere il numero ritenuto ottimale di soldati equipaggiati e pronti per procedere all’attacco ci volle un mese. La Prima Battaglia dell’Isonzo venne disposta infatti per il 23 giugno.
Il piano strategico di Cadorna era abbastanza semplice: attaccare sul fronte dell’Isonzo per ricongiungersi con l’esercito serbo e insieme marciare su Vienna.
Nel frattempo, in quel mese che ha preceduto la prima grande battaglia, le varie armate si sistemarono sui vari fronti. Vediamole nel dettaglio.
 

Foto Tra le rocce e il cielo.
 
Il confine italo-austriaco era quello fissato alla fine della Terza Guerra d’Indipendenza nel 1866. Partiva dallo Stelvio e, descrivendo una grande Esse, finiva all’Adriatico, nella zona di Cervignano, fra la Laguna di Varano e quella di Grado.
I fronti erano sei. Il settore Trentino, Il Pasubio e gli Altipiani, il Cadorino, il settore carnico, l’alto isontino e il settore isontino.
Il fronte trentino andava dallo Stelvio alla sinistra dell’Adige in Val Lagarina. Lo Stelvio, il passo carrabile più elevato d’Europa (2.759 metri), collegava l’alta valle dell’Adige con la alta valle dell’Adda.
Il confine correva poi sulle vette dell’Ortles (3.950 metri) e del Cevedale (3.850 metri). Lassù la guerra poteva solo sostare.

La «Esse» nel simbolo Grande Guerra in Trentino.

Il Tonale era più praticabile dello Stelvio ed era stato protetto dagli Austriaci con ottime fortificazioni. L’Adamello costituiva poi un altro terreno invalicabile, ma – come vedremo – qualcuno pensò lo stesso di combattere anche a quelle quote.
La frontiera scendeva poi nelle valli Giudicarie e in quella del Chiese. Visto che rappresentava l’unico comodo corridoio dallo Stelvio al Garda, gli Asburgo avevano fatto erigere anche qui delle complesse fortificazioni. Dopo il lago d’Idro, il confine girava a gomito formando il saliente del Chiese, attraversava la parte settentrionale del Lago di Garda fino a raggiungere il monte Altissimo.
Da lì la frontiera scendeva ancora verso sud, nella valle dell’Adige. Ma la Val Lagarina era facilmente difendibile da entrambe le parti in guerra.
 
Ben diverso il settore del Pasubio e degli Altipiani. Tra l’Adige e il Brenta si eleva una successione di masse montane, dilatate da altipiani facilmente percorribili senza grandi difficoltà.
Una prima massa orografica era formata dalla catena di monti che dividono l’Adige dall’Astico. Una seconda massa era quella formata dal Massiccio del Pasubio (2.236 metri) e quella del Tonezza. Infine una terza si trovava tra l’Astico e la Valsugana, dove sorge l’altipiano dei Sette Comuni, delimitato a nord da una notevole merlatura, dove si trova - tanto per fare un nome - l’Ortigara.
 
Il terzo settore andava dalla Valsugana a Cordeovle e precisamente da Primolano a Livinallongo.
Questo tratto era solcato da nord a sud da vari corsi d’acqua, che rendevano facili le manovre di masse militari, ma che non davano sbocchi particolarmente appetibili, perché gli Austriaci possedevano le testate delle valli. In altre parole, loro potevano discenderle e arrivare in pianura, mentre gli italiani si trovavano lo sbarramento naturale di fine vallata.

Il generale Pietro Brusoni - Foto Wikipedia.

Il settore del Cadore non rappresentava per l’Italia un territorio interessante dal punto di vista militare, ma era da tenere sotto controllo nella maniera più assoluta per impedire eventuali azioni austroungariche.
Stranamente però, gli austriaci avevano eretto fortificazioni importanti, come se avessero temuto un attacco italiano proprio in questi settori. Non solo, attorno alla città di Trento erano state erette altre fortificazioni per l’eventuale difesa della città. Non vennero mai usate.

Il settore carnico era per certi versi simile a quello trentino, con vallate più semplici da discendere che da risalire. Anche in questo caso gli Austriaci avevano provveduto a fortificare il territorio già protetto dalla conformazione orografica.
Conrad, insomma, possedeva una formidabile linea di arroccamento che gli consentiva di concentrare le proprie difese nel tratto più esposto, quello della pianura.
Il confine andava dal Peralba (2.694 metri) al Canin (2.587 metri), per poi scendere nella conca di Plezzo, un altopiano che ha la forma di un grande mare di roccia, attraversata da un Isonzo impetuoso.
L’Isonzo scorre verso ponente fino a Saga, per poi volgere a sud-est fino alla conca di Tolmino. Dalla conca di Plezzo a Santa Lucia di Tolimo si eleva un bastione pauroso: il Monte Nero.
In quel tratto l’Isonzo scorre incassato tra un costone a destra e un altopiano a sinistra. Poi volge verso il mare, formando allora il confine naturale tra Italia e Austria. Ma con una differenza sostanziale tra i due paesi: l’Italia si trovava sul lato destro, pianeggiante, l’Austria nel lato sinistro, l’altopiano carsico: orrido groviglio di valloni desolati, di pianori sterili e cime montuose che si elevano man mano ci si va verso oriente.
L’Isonzo procede verso Punta Sdobba, come finiva il confine tra il Regno d’Italia e l’impero Austro Ungarico.
Ma, pur valicato il fiume, non era chiaro per quale via far marciare le truppe per raggiungere la sospirata Trieste.
 

L'Isonzo oggi, foto Wikipedia.
 
Insomma. Dallo Stelvio a Punta Sdobba correvano 600 chilometri, 500 dei quali in alta e media montagna e gli altri 100 sull’Isonzo: una specie di fossato di un castello, al di là del quale stava il nemico.
A ridosso del confine, da parte italiana erano state disposte quattro Armate e un Corpo speciale.
La Prima armata, forte di 6 divisioni, si stendeva dallo Stelvio alla Croda Grande. Comandava l’armata il generale Brusoni, il cui comando si trovava a Verona. Era composta da due Corpi d’armata, il 3° e il 5°: il Terzo era sul confine orientale col Trentino e il Quinto era schierato sugli altopiani e del Pasubio (con estensione nel Cadorino).
La Quarta armata, a destra della Prima, occupava il settore che va dal Cadorino al Peralba. Era formata da due Corpi d’armata, il 9° e il 1°, a loro volta composti da 5 divisioni. Comandava l’armata il generale Luigi Nava. Il Corpo speciale era dislocato in questo settore e formava una sorta di grande unità mobile a disposiszione di eventuali cambiamenti del fronte.
La Seconda armata era composta da 9 divisioni di fanteria e una di cavalleria. Andava dal Roccolana (affluente di sinistra del Tagliamento) a Prepotto, un paesino sullo Judrio antistante a Plava. Era comandata dal generale Frugoni, il cui comando si trovava a Udine, dove c'era anche il comando supremo di Cadorna.
La Terza armata, agli ordini di Sua altezza reale Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta, comprendeva sei divisioni di fanteria e tre di cavalleria.
A ognuna delle due armate sull’Isonzo vennero assegnate 14 batterie pesanti campali.
Da notare che le divisioni di cavalleria servivano per inseguire il nemico una volta sfondato il fronte. Una visione ottimistica della guerra.


Immagini ricavate dal sito dell'Euregio dedicato alla Grande Guerra.

 
Conrad aveva schierato un dispositivo difensivo sul confine con l’Italia e l’aveva reso operativo già dal 22 maggio, la vigilia della dichiarazione.
Il suo disegno iniziale consisteva nel far avanzare l’esercito italiano in territorio austriaco fino a Lubiana, per poi piombare addosso al nemico con una ventina di divisioni austro tedesche. Ma il suo collega germanico Falkenhein si era opposto per due validissime ragioni. La prima era di ordine militare: una trappola così gigantesca usciva da qualsiasi plausibile pianificazione militare.
La seconda era pragmatica e fuori discussione: l’Italia non era in guerra con la Germania…
Conrad dovette quindi disporre il proprio esercito in contrapposizione a Cadorna, con l’ordine ai propri soldati di resistere fino all’ultimo uomo, fino all’ultima cartuccia.
L’Austria, che già aveva 122 battaglioni sul confine meridionale, inviò altre 20 divisioni, perlopiù distolte dal fronte russo, lasciando opportunamente in Galizia i soldati italiani.
La Germania concorse virtualmente inviando a supporto l’Alpen Korps, un gruppo speciale di truppe alpine della forza di una divisione. È vero che tra Italia e Germania non c’era uno stato di guerra, ma non poteva farsi cogliere alla sprovvista in caso di necessità.
 

 
Conrad costituì tre grandi unità, capeggiate rispettivamente dal generale Dankl, acquartierato a Bolzano, dal generale Rohr, stabilito a San Veit (Carinzia), e dal generale Boroevic, il cui comando era a Lubiana.
Dankl doveva presidiare il lungo tratto dal passo dello Stelvio alla Croda Grande, vetta tra il torrente Cismon e il Cordevole. Lo fronteggiavano pertanto la Prima Armata italiana e l’ala sinistra del IX Corpo d’armata.
Dankl disponeva della 90ª divisione di riserva a Bolzano, di 18 battaglioni della Landsturm (la territoriale) in linea nel Trentino, della 91ª divisione in linea sugli altipiani e sul Pasubio.
Dalla Croda Grande al Monte Nero (di fronte alla IV Armata italiana e in parte alla II), il Generale Rohr disponeva di 2 brigate da Montagna (la 55ª e la 57ª) in Cadore, di due disvisioni (la 92ª e la 57ª) dal Peralba al Monte Nero. Il VII Corpo d’armata era di riserva intorno a Greifenburg sulla Sava.
Dietro alle due brigate da montagna, Rohr aveva l’Alper Korps tedesco, accampato attorno a Bressanone.
Dal Monte Nero all’Adriatico, dove c’erano ne due armate italiane «d’urto», Boroevic Boina aveva schierato le seguenti forze:
La 93ª divisione dal Monte Nero al Canale, alle cui spalle stava il resto del XV Corpo d’armata, la 94ª divisione staccata dal XVI Corpo, tenuto di riserva, e la 48ª divisione, pronta a entrare in linea lungo il basso Isonzo.
 

 
Va sottolineato che l’enorme quantità di truppe di riserva è dovuto al fatto che l’Austria aveva optato per la difensiva. Chi attacca sa sempre dove vuole andare, chi si difende deve provare a indovinare e soprattutto avere una massa di manovra dietro le linee per adattare la strategia al mutare degli eventi.
Per riassumere, Conrad spiegava lungo il fronte montano l’equivalente di sei o sette divisioni, contro le 14 italiane. Lungo il fronte Giulio, una forza equivalente a sette divisioni, contro le 15 italiane in linea. Di riserva aveva una forza di sei divisioni.
Insomma, l’Italia aveva quasi il doppio di uomini. Il che non significa nulla, ce non si tiene conto il ruolo diverso dei due eserciti e la disponibilità di artiglieria. Se gli austriaci a quel punto lavoravano di trincea e di mina, gli italiani lavoravano per costruire cannoni, soprattutto di grosso calibro.
Ma l’industria si era adeguata velocemente: per mesi i convogli di cannoni continuarono a raggiungere il fronte, accompagnati da altrettanti disponibilità di munizioni.

G. de Mozzi

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