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Se ne è andato Corrado Daldoss, l'industriale trentino che ha lasciato un segno nel Mondo

Costruì un impero nella nicchia che i grandi produttori di ascensori non seppero mai conquistare. E inventò anche la futuribile Trentino Golf

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Tra meno di un mese avrebbe compiuto 91 anni, essendo nato il 16 dicembre 1920 a Pieve di Ledro, «a circa due chilometri dalla famosa Bezzecca», come Corrado Daldoss amava dire da convinto autonomista per ricordare che Garibaldi si era fermato lì.
Un personaggio che ha lasciato un’impronta nel mondo e certamente nel suo Trentino.
 
Aveva fatto la guerra in Grecia, dove si era meritato una medaglia. Ma una volta tornato a Trento evitò accuratamente di ripetere l’esperienza, andandosi a riparare nel Tesino, sfollato con altra gente.
Finita la guerra, lavorò come tecnico alla Caproni (nella foto sotto il titolo, Daldoss con la Maria Fede Caproni, figlia del pioniere dell’aeronautica Gianni) seguendo il progetto dell’aereo Campini.
Ma la sua certezza era un’altra e ben precisa: diventare imprenditore.
E difatti ad un certo punto aprì un’officina in Via Muredei a Trento, dove si mise a fabbricare un po’ di tutto, ma in particolare ferri da stiro. 
  
Poi gli venne l’idea di costruire ascensori e si buttò nella grande avventura del mondo degli elevatori, senza preoccuparsi lontanamente dei colossi che già occupavano il mercato. Il suo spazio operativo infatti andava a ricoprire le richieste minimali del primo dopoguerra.
Per la verità, in Italia c’erano (e ci sono) un migliaio di ascensoristi. Ma Corrado sapeva che a costoro prima o poi li avrebbe forniti lui. Infatti tutti erano degli installatori o manutentori, che da qualche parte dovevano acquistare il materiale di base.
La cosa funzionò, tanto che a un certo punto riuscì a fare il balzo avanti e costruire un’industria vera e propria. Da via Muredei si portò a Pergine, un po’ perché il terreno costava meno che a Trento, un po’ perché gli piaceva la Valsugana. 
 
Corrado era un conservatore e non amava le innovazioni, ritenendole dei tentativi per costruire peggio, più in fretta o senza criterio. Ma quando fu il momento seppe sempre approvare scelte che altri non avrebbero mai osato.
Un aneddoto fra tutti.
Un bel giorno degli anni Settanta un suo dipendente, appassionato di elettronica, chiese a Corrado Daldoss l’autorizzazione di progettare un sistema elettronico per comandare il “Microlift”, il nuovo piccolo montacarichi che sarebbe stato presentato a Bruxelles. Dato che in quell’occasione gli organizzatori avrebbero guardato con maggiore attenzioni le soluzioni elettroniche, Corrado diede il suo benestare.
Il dipendente fece il progetto, lo realizzò e lo applicò. Al termine della esposizione la Daldoss venne premiata per la migliore soluzione elettronica applicata a un apparecchio meccanico.
 

Corrado Daldoss e la moglie in un percorso di golf africano.

Il successo portò a due innovazioni.
La prima è che da allora l’azienda si chiama Daldoss Elevetronic, con un marchio che riporta gli elettroni in movimento saliscendi.
La seconda è che il successo del Microlift fu tale da entrare nel linguaggio comune per indicare un piccolo montacarichi, portavivande o altro. Divenne un microlift, con l’iniziale minuscola. E quando un nome proprio diventa un nome comune, significa aver scritto una pagina di costume. 

Da allora l’elettronica entrò in tutte le produzioni della Daldoss, portando l’azienda all’avanguardia.
Il che rafforzò l’azienda nel settore degli ascensoristi, perché tutto potevano costruirsi gli installatori fuorché il pannello di controllo elettronico.
«Non sarà noto l’ascensore Daldoss, – mi aveva confidato una volta – ma così ho migliaia di ascensori in tutto il Mondo. Quel che conta sono i risultati.»
E i risultati parlano chiaro. Ogni filiale della Daldoss Elevetronic in giro per il Mondo ha sede in un immobile di proprietà. È stato calcolato che l’industria equivale per valore all’insieme di strutture immobiliari.
 

Corrado Daldoss, la sua famiglia e i suoi amici al Nyali Beach in Kenia. 

Ma il miracolo resta il microlift. Basti pensare che le migliori marche del mondo trovano più conveniente acquistare il microelevatore all’azienda di Pergine. Ovviamente lo marcano con il loro trade, ma il prodotto nasce al Ciré.
Una volta aveva provato a esportare il microlift in un Paese del Sudest asiatico, dove esisteva già un’azienda che li costruiva. Ebbene, dopo un breve periodo, quell’azienda preferì chiudere e distribuire il microlift del Daldoss.
 
Col tempo, passò le redini ai figli, preferendo dedicarsi a cose più divertenti.
Una trentina di anni fa decise di dedicarsi al golf e cinque anni dopo riuscì ad aprire quattro buche da golf a Forte Kerle, sopra Folgaria. Il terreno era ancora devastato da oltre 10.000 granate esplose dai fortini italiani, il che avrebbe dissuaso chiunque dall’idea di fare un golf proprio lì.
Ma lui era del parere che per cominciare era più importante partire che attendere le condizioni ottimali.
Chi scrive questo articolo ha giocato per un anno in quel campo incredibile e deve dire che il ricordo è talmente emozionante da essere diventato una leggenda.
Poi però il Daldoss è riuscito a costruire il campo a Maso Spilzi di Folgaria e quel paleo-golf trentino di Forte Kerle andò in archivio.
Fu a Folgaria che Corrado Daldoss ebbe la grande visione del golf per la nostra provincia. Chiamò il campo «Trentino Golf Folgaria», supponendo che ne sarebbero nati altri di campi da golf, tanto da fare sistema. Ogni campo si sarebbe dovuto chiamare prima “Trentino Golf” e poi il nome proprio. Come Trentino Golf Dolomiti, Trentino Golf Tesino, e così via.
Naturalmente ognuno pensò più al proprio golf che all’intera comunità, anche perché la Provincia ha impiegato più di 25 anni per comprendere la visione del commendator Corrado Daldoss. 
 


Già, perché il Nostro divenne prima cavaliere e poi commendatore. Ma non si vantava di quello che era, preferendo essere più che avere.
Da Folgaria passò al golf di Ca’ degli Ulivi e poi al Golf di Lignano, dove decise di passare la maggior parte del tempo libero che gli restava.
E poiché Lignano era piuttosto lontano da Trento, decise di farsi il brevetto da pilota di elicottero.
La cosa non fu semplice, perché non gli fu mai concesso un brevetto che gli permettesse di viaggiare da solo. In effetti non era più giovane e non aveva il carisma del dott. Francesco Volpi che, sette anni più vecchio di lui, che mantiene tuttora un brevetto tale da consentirgli di pilotare un Jumbo.
Insomma, fu più l’età che la capacità a impedirgli di realizzare le ultime ambizioni.
 
Nel recente 1994 pubblicò un libro per raccontare la sua vita. Editato dal Museo dell’Aeronautica G. Caproni, si intitola Una vita, scritto da Corrado G. Daldoss, dove la G. sta per il secondo nome, Giuseppe.
La foto sotto il titolo lo ritrae con la contessa Maria Fede Caproni, che decise di editarlo in quanto aveva cominciato la propria carriera nella catena di montaggio dell’azienda del suo papà.
Me lo fece leggere prima di pubblicarlo e quanto ho scritto è grazie ai contenuti di quel libro, che si può tuttora acquistare presso il Museo. Merita leggerlo, perché – come avrebbe scritto volentieri lui nel sottotitolo – si tratta di una vita spesa bene.
 
Ora che l’azienda è in mano ai suoi discendenti, si è permesso di morire in tutta serenità.
Lascia due figli e otto nipoti. E una moglie che non lo ha mai abbandonato da quando l’aveva conosciuta.
E il golf di Folgaria. E una montagna di microlift in giro per il mondo.
  
Guido de Mozzi
g.demozzi@ladigetto.it
 

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