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Verso il 70° anniversario del bombardamento della Portela/ 6

Dal libro di Nadia Mariz «Trento 1940-1945. I testimoni raccontano» – Terza puntata, quel tragico 2 settembre

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L’estate 1943 sta per volgere al termine. Fino a questo momento Trento è stata risparmiata dai pesanti bombardamenti che hanno colpito Roma e le maggiori città italiane e, benché gli anglo-americani abbiano provveduto al lancio di volantini riportanti il titolo «Perché vi bombardiamo», la città si illude di non essere un obiettivo militare rilevante in quanto non possiede importanti industrie belliche da colpire.
Per questo è praticamente sprovvista di artiglieria antiaerea.
Infatti, le postazioni dell’Unpa, Unione nazionale protezione antiaerea, sono poche e mal equipaggiate.
 
I rifugi sono 4, piccoli e non in grado di soddisfare l’eventuale necessità.
In caso di incursione aerea la popolazione è istruita a riparare nelle cantine e negli scantinati.
Nell’intera valle dell’Adige si è abituati al passaggio di aerei, al loro rumore, alle striature bianche che, per rarefazione dell’aria, lasciano nel cielo.
Gli allarmi, fino a questo momento, si sono rivelati falsi. Inoltre, tra le tante, una diceria, suffragata dalla voce ufficiale, vuole che un fantomatico vuoto d’aria dalla Paganella impedisca agli aerei di abbassarsi di quota per sganciare il carico di morte. Loro non lo sapevano, ma a proteggere la Paganella era l’Ora del Garda.
 
Purtroppo, proprio dal mese di settembre 1943, i Comandi anglo-americani hanno dato inizio a un’azione sistematica di bombardamento delle principali arterie stradali e ferroviarie che collegano la Germania all’Italia.
Lo scopo ufficiale è quello di rallentare le capacità produttive, impedire i rifornimenti alle truppe tedesche presenti sul territorio italiano e, nel contempo, ritardarne la ritirata. In realtà gli alleati stavano mettendo pressione a Badoglio, che non si decideva a firmare l’armistizio. Per questo tra gli obiettivi erano compresi anche i centri abitati. L'armistizio verrà firmato pochi giorni dopo, l'8 settembre. Ma i bombardamenti non finiranno: da quel momento inizia la vera Battaglia del Brennero.
 
Il 2 settembre 1943 è giovedì, una giornata calda, quasi afosa. Mezzogiorno è passato da poco.
Nelle case le donne sono indaffarate a preparare il pranzo, lo stesso che attendono anche soldati, ferrovieri, operai e impiegati seduti ai tavoli delle osterie in piazza della Portèla.
Nelle strade, quasi deserte, come sul ponte asburgico di San Lorenzo, transitano carri trainati da buoi e quanti si apprestano a raggiungere casa per mettersi a tavola prima di riprendere il lavoro nel pomeriggio.
Suona la sirena d’allarme.
Uno dopo l’altro i 6 fischi si susseguono, si avverte il rombo dei motori ma quasi nessuno si scompone.
In lontananza qualcuno scorge gli aerei e nota dei piccoli bagliori, dei puntini che riflettono i raggi del sole.
Sono un centinaio di bombe, 218 tonnellate, sganciate da 91 B17, le Fortezze Volanti della Mediterranean Allied Air Force.
 
C’è appena il tempo di gridare «…le bombe!», per i più neanche quello di mettersi al riparo, che un enorme boato fagocita la città.
La terra trema per alcuni minuti, 7, forse 8. Quanto basta perché un rione e il suo carico di umanità, unico e irrepetibile, siano annientati, per sempre.
La Portèla è ridotta a un ammasso di macerie.
Sono quelle di via Prepositura, vicolo San Giovanni, via Roma, via Tommaso Gar e piazza Leonardo da Vinci.
Distrutti anche il ponte di San Lorenzo e la funivia di Sardagna.
Colpiti ancora lo scalo ferroviario Filzi, via Brennero, l’Abazia di San Lorenzo e piazza Dante con la sede della Gil e l’edificio della Banca d’Italia.
Il gas del gasometro, situato in prossimità dell’Adigetto e comunque a minimo regime, è opportunamente incendiato per scongiurare un ancor più grave disastro.
 
Il cielo di quella soleggiata giornata di fine estate è oscurato da una fitta coltre di polvere e fumo.
Il frastuono delle esplosioni lascia il posto a un silenzio irreale che pervade le vie e le piazze del rione e dell’intera città.
A poco a poco si odono, sempre più forti, le invocazioni disperate di chi chiama aiuto e, col diradarsi della polvere, i superstiti terrorizzati, attoniti e increduli, iniziano ad aggirarsi tra le macerie, ad arrancare sui detriti, seguendo le grida, alla ricerca di qualche punto di riferimento che permetta loro di capire quali sassi, travi e calcinacci corrispondano alla propria casa, sotto quale cumulo poter cercare i propri cari. Gridano un nome, più nomi.
Altre urla si avvertono in lontananza, dalla sponda dell’Adige di Piedicastello.
Sono quelle di quanti si erano recati al rifugio e ora non sanno come tornare. Da lì non ci si rende conto di quanto drammatica sia la situazione.
Le facciate delle case, in quella direzione, sono rimaste in piedi.
 
Il caos e lo strazio sono indescrivibili. Si cominciano a distinguere le sagome di alcuni corpi, riversi, seminudi, irriconoscibili, colpiti dalle schegge e dai detriti, o scaraventati addosso al primo ostacolo che nello spostamento d’aria hanno incontrato.
Arrivano i soccorsi e subito si inizia a prestare assistenza ai feriti e a scavare.
Scavano le squadre dell’Unpa, dei Vigili del fuoco, degli Alpini, del personale sanitario, volontari e operai, i più a mani nude. Scavano anche i frati.
I feriti sono trasportati all’interno della chiesa di Santa Maria Maggiore, rimasta quasi illesa.
Le autolettighe, a sirene spiegate, fanno da spola fra il rione e l’ospedale Santa Chiara in via Santa Croce o la clinica privata del dottor Merler.
Per i chirurghi sono cominciate lunghe ore di snervante lavoro. A loro il compito e il merito di salvare una vita, anche se a scapito di una parte del corpo.
Vengono rimarginati brandelli di carne e amputati arti.
Si lanciano appelli ai donatori di sangue.
 
I morti vengono trasportati al cimitero. Qui i frati francescani ricompongono i corpi e conducono i familiari e gli amici delle vittime in un triste pellegrinaggio lungo i viali ai lati dei quali sono ordinati i cadaveri.
Le poche bare disponibili contengono corpi straziati o parti di essi e il riconoscimento può passare anche attraverso piccoli oggetti personali come catenine o anelli, o pezzi d’abito e quant’altro permetta di assegnare un nome a quei miseri resti.
Intanto alla Portèla si continua a scavare, alla ricerca di quanti mancano all’appello.
Anche il tetto dell’Istituto delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù è stato colpito da una grossa pietra scaraventata fin lì, si dice, dal cavalcavia di San Lorenzo.
Le Madri, rimaste incolumi, prestano anch’esse il proprio aiuto ai sinistrati.
 
L’allarme suona nuovamente verso le 17.00. Fortunatamente si tratta solo di una ricognizione.
Le ricerche dei sopravissuti, tra un allarme e l’altro, continuano incessanti quella notte e nei giorni successivi.
Si odono le grida e le richieste di aiuto dei sepolti vivi, voci che si spegneranno lentamente col trascorrere delle ore… e dei giorni.
È necessario intervenire con tempestività ma individuarli è difficile quanto estrarli.
I soccorritori lavorano in condizioni di estremo pericolo.
L’imminente rischio di cedimenti e nuovi crolli mette a repentaglio la loro incolumità, ma non si fermano, continuano a scavare.
Anche i religiosi della città si prodigano materialmente nel rimuovere macerie, offrendo ospitalità e cibo, ma anche spiritualmente, portando ai sinistrati il conforto delle parole del Padre, le uniche che, attraverso la fede, possono alleviare il dolore in momenti di così profonda disperazione.
  
Nadia Mariz 
(Continua)
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