Home | Pagine di storia | Memoria | Giorno della memoria, 27 gennaio 2019

Giorno della memoria, 27 gennaio 2019

Riportiamo l’intervento del sindaco di Trento Alessandro Andreatta pronunciato questo pomeriggio nella sala delle cerimonie del Municipio

Il Giorno della memoria è diventato in questi anni uno degli eventi che scandisce il nostro calendario civile.
Parliamo di «memoria», e dunque di passato, per una ragione ben precisa: perché siamo convinti che i fatti da ricordare, da tramandare, non possano che appartenere alla storia.
Riteniamo che quell'orrore indicibile non possa tornare mai più.
È stato un errore, un inciampo troppo grande nel cammino dell'umanità: come sarebbe mai possibile ripeterlo?
Questa è una domanda che, fino a ieri, avremmo definito retorica. Oggi però sono molte le persone preoccupate: preoccupate dalle parole d'odio che sui social diventano virali, allarmate quando personaggi pubblici, anche autorevoli, attribuiscono valori diversi alle persone, cento ai «nostri», zero a chi arriva da fuori, da lontano, numeri di una contabilità che non vale neppure la pena di essere tenuta in ordine.
 
Non a caso la senatrice a vita Liliana Segre, matricola 7 5 1 9 0 del campo di concentramento di Auschwitz, ha ammonito recentemente: «Le parole d’odio sono l’anticamera della fine della democrazia. L’imbarbarimento del linguaggio è arrivato a livelli intollerabili».
E ancora: «Ho paura di perdere la democrazia, perché io so cos’è la non democrazia. La democrazia si perde pian piano, nell’indifferenza generale, perché fa comodo non schierarsi, e c’è chi grida più forte e tutti dicono: ci pensa lui».
Ecco quest'anno, forse per la prima volta, ho la sgradevole sensazione che il Giorno della memoria faccia incursione nella nostra quotidianità con un monito non solo importante e necessario, ma anche più che mai attuale.
Ho l'impressione che non stiamo commemorando un capitolo chiuso della nostra storia: stiamo piuttosto ricordando i sintomi iniziali, il decorso spaventoso, l'esito finale di una malattia che sì, è stata sconfitta, ma potrebbe ancora tornare.
 
Come forse saprete, alcuni giovani di Trento racconteranno, nel corso di questa cerimonia, della loro visita a Dachau, primo campo di concentramento nazista a poche centinaia di chilometri da qui, a due passi da Monaco di Baviera.
Ebbene, andando a rileggermi la storia di quel luogo, un fatto mi ha colpito: il suo aspetto rispettabile, l'attenzione all'estetica e alla simmetria.
Per dire: i deportati che arrivavano al campo percorrevano la Lagerstrasse, un lungo viale molto curato. Entravano da un cancello su cui si stagliava la scritta motivazionale «Il lavoro rende liberi».
Ne uscivano a migliaia dal camino del crematorio: e il primo forno costruito all'interno del campo era camuffato all'interno di una villetta in stile bavarese.
Quel che salta agli occhi è la completa dissociazione tra la parola e la realtà, tra l'apparenza e la sostanza.
Il bel viale alberato è una strada della morte, il lavoro che rende liberi è niente altro che tortura, sfruttamento disumano, sadismo.
E la villetta bavarese, che evoca la normale vita di una famiglia benestante tedesca, è una spaventosa macchina di sterminio.
 
Del resto, come ci ha spiegato Victor Klemperer, filologo tedesco, ebreo convertito, scampato alla morte fortunosamente, uno dei pilastri attorno a cui fu costruito il regime nazista fu proprio quello del linguaggio: un linguaggio deformato, corrotto, manipolato, che non serviva più ad esprimere ragioni o sentimenti, non era utile al dialogo, alla preghiera, al dubbio.
Le parole dovevano manifestare solo la fede religiosa nel capo e l'esecrazione nei confronti dei nemici.
Dunque ogni singolo vocabolo della lingua di Goethe e Freud veniva deviato dal suo significato originario, costretto ad assumere un valore diverso, a mascherare la violenza sotto le sembianze dell'ordine e della rispettabilità oppure a coprire d'infamia intere categorie di incolpevoli cittadini.
Come non pensare alle parole che anche oggi, in questo inizio di secolo, improvvisamente diventano sospette? Solidarietà, per esempio. O fratellanza.
 
Come non riflettere sulla mancata corrispondenza tra significante e significato quando abbiamo a che fare con una retorica discriminatoria che definisce «nemici» persone inermi e senza patria?
Se il razzismo e la xenofobia diventano accettabili, se il termine buonista è considerato un insulto e se si ritiene che i diritti umani non debbano più essere garantiti per tutti, allora significa che è in atto uno scivolamento pericoloso. Sul piano del linguaggio e non solo.
Del resto l'esasperata violenza verbale ha già prodotto i suoi martiri: l'ultimo, nella Polonia che ha vissuto l'orrore del ghetto di Varsavia e del lager di Auschwitz, è stato il sindaco di Danzica, Pawel Adamowicz, europeista convinto, uomo del dialogo, della cooperazione e della pace sociale. Prima di lui, a giugno 2016, abbiamo pianto la deputata inglese Jo Cox: anche lei, come Adamowicz, era il simbolo di una politica diversa, aperta e tollerante, vicina alle persone più fragili.
Come ha commentato qualche giorno fa Lech Walesa, premio Nobel per la pace, i media, i politici, le persone che diffondono parole violente devono capire che soffiare sul fuoco dei conflitti non è senza conseguenze: perché prima o poi l'aggressività troverà la mano di un pazzo, di un invasato, di un mitomane. E allora la tragedia sarà inevitabile.
 
Il campo di concentramento di Dachau all'inizio era stato pensato per rieducare gli oppositori politici, i comunisti, i sindacalisti, i socialdemocratici, i cattolici.
Poi, progressivamente, si popolò di mendicanti, senzatetto (definiti dalla propaganda «fannulloni»), di preti dissenzienti (qualche migliaio), di zingari, di omosessuali, disabili e naturalmente di ebrei.
E dalla rieducazione si passò in breve alla catena di montaggio dello sterminio, all'efferatezza programmata e quotidiana.
Dachau con i suoi forni, con gli esperimenti medici su cavie umane, con la violenza elevata a legge, è riuscito a distruggere, in pochi anni, secoli e secoli di civiltà.
È il volto oscuro della nostra storia, il limite da cui tenersi ben lontani.
 
A questo dunque deve servire il Giorno della memoria: a riconoscere in anticipo la disumanità, ad aiutarci a individuare segnali e campanelli d'allarme. Scriveva nel suo diario Anna Frank, nascosta nel suo rifugio segreto: «Vedo il mondo che si trasforma gradualmente in una terra inospitale; sento avvicinarsi il tuono che distruggerà anche noi; posso percepire le sofferenze di milioni di persone...»
Memoria significa oggi non assuefarsi all'aria di tempesta né pensare che tanto prima o poi passerà. Memoria è il passato che si fa presente e non finisce mai di passare.
Non per appesantire il nostro fardello, ma per renderci vigili, guardinghi, reattivi di fronte alla minima violazione dei diritti fondamentali.
 
Auguro a tutti noi di riuscire a portare la memoria della Shoah al di fuori dei riti e delle commemorazioni ufficiali per farla vivere e consentirle di orientare i nostri passi verso una società più umana, definitivamente affrancata dalla paura, dalla violenza e dall'odio per il diverso.
Nella consapevolezza che dividere il mondo in amici e nemici significa inibire la capacità di includere, che è poi il fine ultimo della democrazia.
 
Buon Giorno della memoria a tutti voi.

Condividi con: Post on Facebook Facebook Twitter Twitter

Subscribe to comments feed Commenti (0 inviato)

totale: | visualizzati:

Invia il tuo commento comment

Inserisci il codice che vedi sull' immagine:

  • Invia ad un amico Invia ad un amico
  • print Versione stampabile
  • Plain text Versione solo testo

Pensieri, parole, arte

di Daniela Larentis

Parliamone

di Nadia Clementi

Musica e spettacoli

di Sandra Matuella

Psiche e dintorni

di Giuseppe Maiolo

Da una foto una storia

di Maurizio Panizza

Letteratura di genere

di Luciana Grillo

Scenari

di Daniele Bornancin

Dialetto e Tradizione

di Cornelio Galas

Orto e giardino

di Davide Brugna

Gourmet

di Giuseppe Casagrande

Cartoline

di Bruno Lucchi

L'Autonomia ieri e oggi

di Mauro Marcantoni

I miei cammini

di Elena Casagrande