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Radicalismo Islamico e jihadismo autoctono in Nord Europa

Focus sugli stati europei di Norvegia, Danimarca e Svezia – DI Maria Sessa

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L’International Center for Counter-Terrorism ha stimato che, alla fine di ottobre 2015, da diversi Paesi europei sono partiti tra i 3.922 e i 4.294 miliziani arruolatisi nelle fila dello Stato Islamico (IS o Daesh) in Siria e Iraq.
Tra questi, la maggiore densità per popolazione è stata rilevata in Norvegia (con circa 300 combattenti), in Svezia (con 250-300), in Danimarca (con 127) e in Belgio (con 440-516).
In base a questi numeri, è facile capire perché fronteggiare il radicalismo islamico autoctono è oramai una delle priorità dell’agenda politica nord europea.
Prima di entrare nel merito delle differenti realtà di Norvegia, Danimarca e Svezia, è importante focalizzare l’attenzione su alcuni presupposti e dinamiche comuni a questi Paesi.
Innanzitutto, il processo di radicalizzazione avviene a due livelli, strettamente interconnessi: il primo individuale, dipendente dal vissuto personale, dal grado e dalla velocità di progressione jihadista del singolo soggetto; in secondo luogo, ad un livello più generale, altamente dipendente dal contesto politico, economico e sociale di riferimento.
È stato dimostrato che la spinta ad aderire a questi movimenti nasce da un senso di alienazione, di esclusione o di sensazione di non piena accettazione dell’individuo da parte delle autorità locali e della società nel suo insieme.
Molti avvertono l’esistenza di un «doppio standard» tra autoctoni, appartenenti a gruppi etnici e culturali tradizionali, e cittadini di fede musulmana o immigrati.
In effetti, il tasso di disoccupazione tra gli immigrati in Norvegia è 3,6 volte più elevato rispetto ai nati in Norvegia; e anche in Danimarca si registrano notevoli difficoltà di impiego e integrazione per i non-danesi.
Queste discriminazioni (percepite e/o reali) e i conseguenti sentimenti di alienazione, spesso alimentati dalle stigmatizzazione del dibattito pubblico, producono un senso di non appartenenza e di deprivazione economico-sociale.
Di conseguenza, l’individuo entra in una fase di «apertura cognitiva», egli comincia cioè ad interrogarsi sulla propria identità, sui propri valori e sull’intero sistema politico in cui vive, diventando così particolarmente recettivo a nuovi credo e nuove idee.
 
In questa fase entra in gioco l’ideologia militante salafita.
Essa è, infatti, capace di articolare e canalizzare il senso d’ingiustizia e le frustrazioni, offrendo una visione alternativa del mondo e creando una comunità con cui identificarsi.
I movimenti islamisti estremisti e ultra-conservatori agiscono, dunque, sia sul piano politico, trasformando la frustrazione per il senso di l’ingiustizia in lotta per la giustizia, sia sul piano sociale, creando un’identità collettiva, spesso espressa nella dialettica «noi musulmani, voi non musulmani», in modo da favorire il senso di estraneità alla nazione in cui si vive. Inoltre il salafismo eversivo riesce a offrire stabilità, offrendo precise norme comportamentali, creando un senso di certezza e offrendo ai propri seguaci l’opportunità di dare significato alla loro realtà combattendo per la causa suprema, il jihad.
I gruppi salafiti norvegesi e danesi più attivi, rispettivamente Profetens Ummah e Kaldet til Islam, hanno molto in comune.
Questi gruppi sono molto variegati. Essi si compongono sia d’immigrati che di individui nati in Norvegia e Danimarca, di persone cresciute come musulmani o convertite all’Islam in seguito.
Entrambe sono dei gruppi Daawah (in arabo ”chiamata all’Islam”) il cui scopo è fare proselitismi in favore di un Islam radicale.
Essi credono che i musulmani debbano diffondere apertamente il messaggio dell’Islam nelle democrazie occidentali, considerate sistemi corrotti.
Inoltre ritengono che la loro interpretazione della Sharia sia l’unico sistema legittimo che può essere adottato sulla Terra, pertanto incoraggiano apertamente i seguaci a aderire allo jihad, visto come un dovere dovuto a Dio.
Kaldet til Islam e Profetens Ummah organizzano spesso dimostrazioni di piazza, pronunciano discorsi provocatori, spingono per creare dei quartieri islamizzati e amministrati mediante la Sharia, le cosiddette «zone Sharia».
Entrambe hanno minacciato di morte personalità di alto profilo istituzionale, attirando su di sé non solo l’attenzione dei media ma anche quella dei servizi d’intelligence.
Nonostante sembri controproducente, in realtà questa strategia è notevolmente efficace perché rende i movimenti facilmente accessibili e molto attraenti.
Attraverso le apparizioni regolari sulla stampa, le manifestazioni e altri eventi pubblici acquisiscono spessore che consente loro di diffondere informazioni e propaganda tramite i social network.
I social media, tra cui siti web, chat room e forum di discussioni, costituisco in effetti la principale fonte di reclutamento e indottrinamento.
 
Il successo di questi gruppi non dipende solo dalla loro capacità di articolare e manipolare il malcontento, ma anche dal fatto che nei Paesi Scandinavi sono scarse le possibilità di essere perseguiti con l’accusa di propaganda in favore dei gruppi terroristici, come IS o al-Qaeda.
Il codice penale norvegese, ad esempio, non prevede espressamente il reato d’incitamento o reclutamento per fini terroristici, mentre quello danese, nonostante preveda espressamente tale reato, definisce rigide condizioni necessarie per essere perseguiti.
In entrambi i Paesi, si può essere perseguiti solo se esiste una concreta e diretta minaccia alla sicurezza del popolo o dello Stato.
Inoltre, in nessuno dei due Paesi esiste una legge che vieti il fenomeno del mercenariato o dell’arruolamento in milizie straniere.
Le autorità non possono perseguire i guerriglieri all’estero, né punirli al rientro in patria, non avendo prove concrete su una possibile colpevolezza per atti di terrorismo o crimini di guerra, o prove di concrete intenzioni di commettere atti di terrorismo in patria.
Questa impossibilità d’azione delle forze dell’ordine è d’altronde particolarmente significativa se si considera che circa il 60% dei miliziani partiti per la Siria ha fatto rientro in patria, presumibilmente con l’intenzione di re-importare il jihad.
 
Nonostante le modalità di reclutamento, indottrinamento e azione siano molto simili, diversamente da Norvegia e Danimarca, in Svezia i gruppi islamisti radicali sono principalmente composti da immigrati, e sono legati soprattutto ai movimenti jihadisti somali.
Con 1,43 milioni di persone venute dall’estero, la Svezia ospita circa il triplo degli immigrati della Danimarca (550 mila) e della Norvegia (440 mila). È anche il Paese con la più alta percentuale di stranieri di tutta la Scandinavia, il 15% della popolazione, mentre gli altri due Paesi si aggirano sulla media dell’Unione Europea, il 10%.
Questo flusso di stranieri, tuttavia, non è stato accompagnato da un’integrazione effettiva. Infatti, sono cresciute a dismisura le periferie, abitate principalmente da rifugiati, con servizi insufficienti, alti tassi di criminalità e disoccupazione.
Inoltre l’avanzata dell’estrema destra e la forte stigmatizzazione nel dibattito pubblico hanno favorito l’avanzamento del radicalismo tra le comunità originarie del Corno d’Africa, in particolare grazie all’azione sotterranea del gruppo Al-Shabaab, omonimo della famosa organizzazione jihadista africana.
Questo gruppo, nato recentemente dalla fusione di varie correnti estremiste, è legato alla diaspora Somala, si distingue per i toni violenti con cui apertamente si esprime in favore della lotta armata, per la creazione delle «zone Sharia» e per la capacità di reclutare giovani leve da inviare a combattere all’estero.
Questo gruppo agisce soprattutto tra i giovani rifugiati, sfruttando la loro condizione di vulnerabilità.
Come la Danimarca e la Norvegia, anche il codice penale Svedese permette ampia libertà di espressione a questi gruppi, perché le forze dell’ordine possono agire solo davanti alla concreta possibilità di partecipazione o programmazione di attacchi terroristici sul territorio.
 
Conscia del pericolo che il radicalismo jihadista autoctono e il rientro dei foreign fighters costituisce per la propria sicurezza, la Svezia ha provato ad affiancare, ai tradizionali mezzi di monitoraggio e prevenzione di carattere puramente securitario, lo strumento dell’azione sociale. Infatti, nella municipalità di Stoccolma, il governo ha approvato un piano assistenzialista per i giovani di ritorno dalla Siria.
Tale programma prevede assistenza all’alloggio, nella ricerca di lavoro e in particolare assistenza sanitaria, offrendo ad esempio aiuto per disturbi post-traumatici da stress.
Appare dunque chiaro come nelle democrazie scandinave un welfare forte non accompagnato da reale integrazione favorisca la retorica dei movimenti jihadisti, i quali radicalizzano la parte di società che si sente «straniera in patria», portando così alla creazione di ceppi violenti autoctoni che non solo rinvigoriscono le fila di IS in Siria o Iraq ma costituiscono una persistente minaccia per i Paesi europei stessi.
 
Maria Sessa
(Ce.S.I.)

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