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Brexit: due proposte di partnership a confronto – DI P. Crippa

«Non è assolutamente pensabile un’Europa à la carte, in cui sia possibile selezionare i progetti di proprio interesse, senza condividere gli oneri comunitari»

Lo scorso 28 febbraio, la Commissione Europea ha presentato un documento di oltre 120 pagine contenente una proposta di partnership con la Gran Bretagna dopo l’uscita di quest’ultima dall’Unione Europea, prevista per il marzo 2019.
Il testo risponde all’esigenza di spingere il Governo britannico, guidato da Theresa May, a chiarire la propria posizione in merito ai rapporti che il Paese intende assumere con le istituzioni comunitarie a partire dalla data di divorzio.
L’ambiguità e le continue oscillazioni di Londra non solo hanno irritato il corpo dei negoziatori europei, guidato da Michel Barnier, ma dimostrano anche una pericolosa confusione e una sostanziale mancanza di strategia da parte dell’esecutivo inglese.
 
Il documento della Commissione si declina in 168 articoli suddivisi per argomenti. Alcuni di questi conterrebbero i punti già concordati con Londra durante la fase preliminare dei negoziati, conclusasi nel dicembre 2017.
A tal riguardo, oltre la Manica sono già nati profondi malumori e indignazioni da parte di molti deputati, i quali ritengono si tratti di una interpretazione unilaterale e di una ricostruzione arbitraria di quanto pattuito in sede europea al termine dello scorso anno.
Se da una parte il Partito Laburista all’opposizione e una minoranza di ex-remainers all’interno del Partito Conservatore invitano Theresa May a mostrarsi accondiscendente su molti dei punti proposti dall’Europa, preoccupati per le pesanti conseguenze a cui potrebbe dare adito un’eventuale hard-Brexit, dall’altra le frange più oltranziste dei Tories, che fanno a capo a Boris Johnson, si scagliano contro quella che è vista come una condotta assertiva e unilaterale da parte di Bruxelles.
 
Il principale nodo politico da sciogliere, attorno al quale si articolano numerose sezioni della proposta programmatica, rimane ancora oggi la questione del confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord.
La proposta di Bruxelles in merito, (contenuta in Capitolo III, Articolo 3) prevedrebbe la creazione di un’area di regolamentazione comune, che lascerebbe di fatto l’Irlanda del Nord all’interno dell’unione doganale e del mercato unico.
In questo modo si ovvierebbe all’annoso problema di un eventuale confine fisico tra l’Ulster e il resto dell’Isola, consentendo la libera circolazione di merci afferenti a diversi settori dell’economia, tra cui agricoltura, pesca, energia e manifatturiero.
Come specificato nel Capitolo III, Articolo 4, tutto il territorio dell’Irlanda del Nord, escluse le acque territoriali del Regno Unito, verrebbe considerato a pieno titolo come parte integrante della Custom Union europea.
 
Ciò significa che Belfast sarebbe costretta ad accettare fino in fondo tutto l’acquis normativo europeo, che comprende regole stringenti in materia di controlli, imposte sul valore aggiunto, standard qualitativi e agevolazioni alle imprese private.
Ne consegue, inoltre, che l’Irlanda del Nord continuerà ad essere sottoposta alla giurisdizione della Corte di Giustizia Europa (ECJ) oltre la data fissata per la Brexit. La stessa corte, inoltre, come stabilito dall’articolo 126 della sezione «supervisione», continuerà ad avere piena giurisdizione sul tutto il Regno Unito fino al termine del periodo di transizione, fissato per il 2021, e fungerà da autorità ultima di riferimento per quanto riguarda l’implementazione dell’accordo sull’uscita dallo spazio comunitario.
Tale norma è particolarmente invisa a molti hard-brexiteer che, nonostante sia evidente come un adeguamento agli standard normativi europei sia necessario affinché il divorzio avvenga fluidamente e non dia adito ad uno scontro tra sistemi giuridici, non sono disposti ad accettare sul piano ideologico questa sottomissione alle regole di Bruxelles.
 
Il Regno Unito, qualora sottoscrivesse tale proposta, durante tutto il periodo di transizione si troverebbe, nel caso in cui la propria condotta legale e politica non risultasse conforme a quanto pattuito, sorvegliato e sottoposto a sanzioni da parte della Commissione Europea.
Nella sezione «supervisione ed esecuzione» del documento, si evince infatti che Londra è tenuta a seguire pedissequamente tutti i termini e le scadenze fissati per la transizione.
Secondo le clausole contenute nell’articolo 165, l’Unione Europea può imporre direttamente sanzioni senza il parere della Corte di Giustizia, qualora la Gran Bretagna si rifiutasse, ad esempio, di rispettare il pagamento di eventuali penali.
Nella proposta stilata dalla Commissione, inoltre, nonostante già a dicembre fosse stata raggiunta un’intesa per la creazione di un comitato allargato UE-UK incaricato di sorvegliare l’applicazione degli accordi sull’uscita, si ribadisce che la ECJ rimane in ogni caso il decisore ultimo su tutto ciò che riguarda la Brexit.
 
Un ulteriore punto critico, che acuisce sempre più le distanze tra le parti, concerne la questione dei diritti dei cittadini europei nel Regno Unito.
Londra aveva infatti precedentemente stabilito che i cittadini comunitari che si fossero trasferiti in Gran Bretagna dopo il 29 marzo 2019, ma comunque entro il periodo di transizione, non avrebbero goduto di un regime di diritti speciale, ma sarebbero stati considerati alla stregua di tutti gli altri cittadini extra-comunitari.
Questo punto ha incontrato la ferma opposizione della Commissione che, nel testo, specifica non solo l’indisponibilità a sottostare a tale disposizione, ma rilancia negando ai cittadini britannici attualmente residenti in Europa la possibilità, a partire da marzo 2019, di muoversi e stabilirsi liberamente all’interno degli Stati dell’Unione al pari dei corrispettivi europei.
 
La proposta di partnership di Bruxelles è stata accolta con profondo dissenso da parte dell’esecutivo May.
Michel Barnier avrebbe infatti precisato che, nel caso in cui si implementasse effettivamente un regime di regolamentazione comune in Irlanda del Nord, occorrerebbe porre in essere delle frontiere (ovviamente non fisiche, dal momento che non c’è continuità territoriale tra le due isole) che separino l’intera isola d’Irlanda dal resto del Regno Unito.
Tale prospettiva non è stata neanche presa in considerazione da parte di Downing Street. La Premier inglese ha infatti dichiarato che è impensabile per la Gran Bretagna sottostare ad un accordo di tal tipo, dal momento che metterebbe profondamente in discussione l’unità amministrativa e giuridica del Paese.
Theresa May deve, a questo punto, mostrarsi estremamente risoluta nella sua opposizione a tale proposta normativa, a meno che non voglia dare adito a pericolose diatribe con il Partito Democratico Unionista dell’Irlanda del Nord (DUP), la formazione nazionalista protestante che, con i suoi 11 deputati, garantisce attualmente la maggioranza al governo.
Da una parte un eventuale confine fisico tra l’Ulster e il resto dell’Isola rappresenterebbe una palese violazione del Good Friday Agreement del 1998, rischiando di far riemergere pericolosi focolai placati da vent’anni di tregua.
Dall’altra, un’Irlanda del Nord inglobata di fatto all’interno del mercato unico, allontanerebbe drammaticamente Belfast dal governo centrale, riaccendendo la fiamma nazionalista della maggioranza protestante residente nella regione.
 
Il testo proposto da Michel Barnier contiene, agli occhi di tutti, disposizioni estremamente sbilanciate verso gli interessi dell’Unione Europea. Una serie di proposte così «radicali», come quella di fatto di portare l’Irlanda del Nord sempre più lontano dall’orbita di Londra, non sono state concepite nell’illusione che l’esecutivo britannico le sottoscriva interamente.
La strategia di Bruxelles è stata quella di creare un terreno negoziale estremamente ostile per la Gran Bretagna, che costituirà poi la base su cui intavolare i negoziati.
Anche se Londra riuscirà a stemperare le richieste, i risultati finali si tradurranno di fatto in un sostanziale successo per l’UE. L’alternativa resta l’opzione no-deal, che spaventa entrambe le parti.
La delegazione guidata da Michel Barnier, presentandosi all’appuntamento con un programma preciso e ben articolato, ha voluto mostrare l’efficienza e la solidità della strategia europea in merito alla Brexit, a fronte dei tentennamenti del Regno Unito.
 
In risposta a ciò, lo scorso 2 marzo, Theresa May ha tenuto un discorso programmatico in cui ha esposto la propria visione sulla partnership che dovrà regolare i rapporti futuri con l’Unione Europea.
Si è tuttavia trattato di un discorso di respiro decisamente più ampio e generalista, se confrontato con il documento di Barnier.
La Gran Bretagna, secondo le dichiarazioni del suo Primo Ministro, non intende rimanere all’interno del mercato unico, né continuare far parte dell’unione doganale.
Tale decisione scaturisce dalla volontà di istituire un regime di dazi più competitivo e di intraprendere accordi commerciali con Paesi terzi, coinvolgendo soprattutto i nuovi mercati emergenti.
Questo implicherebbe inevitabilmente il ritorno di un confine fisico tra le due Irlande, con tutte le conseguenze che abbiamo evidenziato in precedenza. Theresa May in merito a questo punto si è posta in maniera estremamente vaga, da una parte ammettendo la necessità di una nuova frontiera di controllo, e dall’altra auspicando una soluzione di natura tecnologica che possa ovviare la costruzione di barriere fisiche.
 
Downing Street si è infine concessa a una gravosa ammissione, affermando che l’uscita dal mercato unico trasformerà per sempre la Gran Bretagna, e che il processo di ricostruzione delle proprie relazioni economiche internazionali sarà lungo e difficoltoso.
Nonostante ciò, Londra non vuole interrompere del tutto la collaborazione diplomatica con Bruxelles, intendendo continuare attivamente a far parte di alcune istituzioni comuni quali la Comunità Europea dell’Energia Atomica (Euratom), l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e tutti i progetti in merito alla condivisione di informazioni utili alla lotta contro il terrorismo.
Su quest’ultimo punto si è espresso infine l’attuale Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, dichiarando che non è assolutamente pensabile immaginare «un’Europa à la carte», in cui sia possibile selezionare solamente i progetti di proprio interesse, senza condividere gli oneri comunitari.
 
Ciò che si evince da questo scambio incrociato di proposte è il riposizionamento dell’intera discussione verso una prospettiva di hard-Brexit.
Bruxelles non si è mostrata assolutamente disposta a cedere terreno, escludendo eventuali generose concessioni al Regno Unito.
Un regime di accesso agevolato ai vantaggi del mercato unico, che non preveda la presa in carico di tutti i doveri economici e legislativi predisposti per i membri ordinari, potrebbe infatti costituire un’ipotesi allettante per alcuni di quei Paesi, principalmente est-europei, che stanno valutando l’ipotesi di una rimodulazione dei propri impegni comunitari.
In ultima istanza, se da un lato il documento presentato dalla Commissione Europea non rappresenta di certo un’apertura verso il raggiungimento di un’intesa, dall’altra ha avuto l’effetto collaterale di consolidare il fronte interno inglese.
Alla luce delle forti difficoltà negoziali e di deadline sempre più stringenti, la maggioranza dovrà mettere in secondo piano le divergenze di sensibilità, affinché l’esecutivo possa presentarsi all’appuntamento con la seconda fase delle trattative forte di una posizione univoca.
 
Paolo Crippa
(Ce.S.I.)

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