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Una exit strategy per la Crisi Ucraina/ 1 – Di Marco Di Liddo

Prima parte: le incognite ucraine dopo l’accordo di cessare il fuoco

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Forse l’argomento non è per tutti i nostri lettori, ma abbiamo visto che affrontare con professionalità e cognizione di causa gli argomenti esterni all’Italia ma che la riguardano da vicino, suscita comunque un interesse che giustifica gli approfondimenti che di tanto in tanto facciamo.
La Crisi Ucraina non è un aspetto che riguarda propriamente gli USA, ma certamente riguarda da vicino l’Europa e segnatamente l’Italia che con la Russia ha rapporti d’affari non da poco.
E dato che, al di là delle minori vendite della nostra già affaticata produzione industriale, c’è di mezzo gran parte della politica energetica del nostro paese, pensiamo che più d’uno sarà interessato a leggere la dotta relazione dell’esperto Marco Di Liddo.

 Introduzione
Al di là della sua reale efficacia e tenuta, l’accordo di cessate-il-fuoco, firmato il 5 settembre tra i rappresentanti della Repubblica Federale di Novorrossya (RFN) e le istituzioni ucraine, ha rappresentato il più significativo documento politico siglato tra Kiev e i ribelli del Donbass da quando, lo scorso aprile, è iniziata l’insurrezione anti-governativa nelle regioni orientali del Paese.
Infatti, il documento, siglato grazie al lavoro del Gruppo di Contatto Trilaterale, tra i suoi 12 punti include prescrizioni prettamente politiche che potrebbero costituire la base per la risoluzione della crisi.
Le condizioni in cui è stato firmato il cessate-il-fuoco, dopo una massiccia offensiva dei miliziani del Donbass e con i regolari di Kiev in grande difficoltà, hanno offerto ai ribelli una posizione di forza nelle future trattative politiche. Infatti, le acquisizioni territoriali dei separatisti e le pesanti perdite subite dall’Esercito ucraino hanno spinto il Presidente Poroshenko ad interrompere le operazioni militari e cercare il dialogo con gli insorti.
Appare preoccupante la progressiva radicalizzazione dell’agenda della RFN che, dopo mesi di guerra civile, è passata dall’avanzare richieste autonomiste a volere l’indipendenza e la successiva annessione alla Russia, seguendo pedissequamente lo schema della Crimea.
Di contro, il governo ucraino, anche se sostenuto da una strana commistione di spinta euro-atlantista e spirito nazionalista ulteriormente aizzato dall’aggressività del Cremlino, comincia a confrontarsi con le esternalità negative della guerra in Donbass, quali il massiccio esborso economico, il crescente potere e la maggiore amalgama delle formazioni di estrema destra integrate nei reparti della Guardia Nazionale e, soprattutto, una latente diminuzione di fiducia nei confronti dei partner occidentali.
In definitiva, la partita tra separatisti e governo centrale si basa sul nodo gordiano del confronto tra diritto di autodeterminazione e integrità territoriale.
A questo occorre aggiungere la dimensione prettamente culturale e valoriale che separa le due anime del Paese. Il sentirsi parte della famiglia europea o di quella russa riguarda la concezione stessa dell’esistenza, il sistema etico-morale delle comunità, la dimensione storica, delle tradizioni e dei simboli.
 
Tuttavia, a pesare sul futuro del dialogo tra il governo guidato da Yatsenyuk e le milizie separatiste sotto la leadership di Zakharenko ci sono un alto numero di incognite sia interne all’Ucraina, come la precarietà della situazione economica e la crescita dei contrasti tra esecutivo e opposizioni, sia internazionali, quali l’apparentemente inscalfibile assertività russa, le divisioni della politica estera europea e della NATO, gli obbiettivi reali degli Stati Uniti, forse più interessati al contrasto all’egemonia russa che al reale processo di democratizzazione ucraino.
Appare innegabile che, con il passare dei mesi, la crisi ucraina si sia sempre più internazionalizzata, non tanto per l’eco mediatica del confronto militare tra le due fazioni, per la tragedia dell’abbattimento del volo malese MH17 o per il massiccio afflusso di mercenari e combattenti stranieri (provenienti da Russia, repubbliche ex-sovietiche, Francia, Germania, Svezia, Italia, Serbia e Grecia), ma quanto per il crescente coinvolgimento degli sponsor internazionali di uno o dell’altro gruppo in lotta.
Infatti, se tra novembre 2013 e marzo 2014 il confronto politico tra il blocco sostenitore di Euromaidan (Stati Uniti, Germania, Polonia) e il blocco ad esso avverso (Russia, Bielorussia) è stato relativamente pacifico, la rivolta crimeana e l’annessione della penisola da parte del Cremlino hanno comportato l’escalation della retorica tra le parti e l’inasprimento delle rappresaglie economiche e militari tra Mosca, Kiev, Bruxelles e Washington.
Nonostante la crescente isteria da parte di alcune sezioni dell’opinione pubblica e della classe politica europea, statunitense, ucraina e russa, ad oggi appare sconveniente e inappropriato parlare di “Guerra Fredda 2.0” o paventare un ritorno di una sorta di cortina di ferro sul Vecchio Continente.
Le condizioni economiche, culturali e comunicative nonché le sfide di sicurezza e il clima politico del mondo odierno sono profondamente diverse da quelle del periodo 1945-1991.
Dunque, il raffreddamento dei rapporti e la degenerazione di questo nuovo confronto tra Ovest ed Est rientrano piuttosto nel novero di una dinamica fluida e ricorrente, che si è manifestata ben prima della Guerra Fredda in forme ideologiche, economiche e militari diverse.
 
Nel contesto di tale ciclica conflittualità tra Occidente e Russia, la crisi ucraina rappresenta il momento più delicato dalla fine della Guerra Fredda, dopo circa due decenni di relazioni positive.
Dunque, una condizione di prolungata ed intensa conflittualità tra Europa, Russia e Stati Uniti avrebbe dei vicendevoli costi politici, economici e umani che annullerebbero i tangibili benefici ottenuti dal dialogo costruito negli ultimi 25 anni.
Le dichiarazioni del Presidente Obama nel 2008 sulla necessità di un «reset» nelle relazioni tra Washington e Mosca, trovano oggi rinnovati senso ed importanza a livello globale e non solo delle relazioni bilaterali.
In particolare, la risoluzione della crisi ucraina potrebbe rappresentare un punto di svolta per l’Unione Europea, ancora schiacciata dall’individualismo dei suoi membri ma che si trova di fronte all’opportunità di realizzare, finalmente, una propria strategia equidistante e distinta sia dai condizionamenti statunitensi sia dalle sedizioni e dai ricatti del putinismo.
Alla luce di tutte queste variabili, il presente lavoro intende esplorare quelle che potrebbero essere le future linee evolutive della crisi ucraina, proponendo una strategia di risoluzione il più inclusiva possibile e che salvaguardi la stabilità europea e internazionale. 
 

Mappa della Crimea.
 
 Le incognite ucraine
Il cessate-il-fuoco del 5 settembre e i suoi protocolli politici potrebbero rappresentare la base di partenza per le future negoziazioni tra governo e ribelli.
Tuttavia, nell’analizzare tale prospettiva, non bisogna dimenticare che la firma dell’accordo è avvenuta in un momento estremamente delicato dell’Operazione Anti-Terrorismo (OAT), quando le forze regolari, dopo aver profuso il massimo sforzo nel tentativo di conquistare Donetsk e Lugansk, hanno subito la controffensiva ribelle che non solo ha costretto l’Esercito e la Guardia Nazionale ad una precipitosa ritirata, ma ha anche consentito la ri-apertura di un fronte meridionale in Donbass. 
 
Dunque, da parte ucraina, la firma del cessate-il-fuoco va interpretata secondo due fattori:
1) uno prettamente militare, legato alla necessità di ri-organizzare le proprie Forze Armate (FA) stremate da 5 mesi di offensiva e ottenere la liberazione di circa 800 militari catturati dai separatisti,
2) uno prettamente politico-economico, connesso alla necessità di stabilizzare la tenuta del sistema post-Euromaidan, affrontare il malcontento sia delle opposizioni sia di alcune fasce della società e fare i conti con la precarietà finanziaria del Paese.
 
Non è un mistero che, dopo l’iniziale entusiasmo popolare, la triade Poroshenko-Yatsenyuk-Turchinov abbia dovuto affrontare i primi malumori della piazza, sempre meno favorevole alla guerra, inquieta per l’aumento dei prezzi di alcuni beni di prima necessità, contrariata dai prelievi fiscali per sostenere lo sforzo bellico e spiazzata dall’atteggiamento duro nei confronti delle opposizioni.
Particolarmente rilevante per comprendere l’atteggiamento talvolta unilaterale del governo è stato il conflitto tra il governo e il Partito Comunista Ucraino (PCU), accusato di aver sostenuto l’ex-Presidente Yanucovich durante le manifestazioni di Euromaidan nonché di aver sposato un’agenda filo-russa sostenitrice della secessione della Crimea nonché delle rivendicazioni dei separatisti del Donbass. Inoltre, benché l’attuale governo di «larghe intese» usufruisca del sostegno, tra gli altri, del Batkivshchyna (Unione Pan-Ucraina-Patria, UPP), il partito di centro-destra di Yulia Timoshenko, del Fronte Popolare, formazione conservatrice dell’attuale Premier Yatsenyuk e del Presidente della Rada (il Parlamento ucraino) Turchinov, nonché di molti parlamentari fuoriusciti dal Partito delle Regioni (PR), la compagine che governava il Paese fino alla deposizione del suo leader ed ex Presidente Yanucovich, non bisogna dimenticare che tale «alleanza tattica» è dovuta al particolare clima politico che si respira oggi nel Paese e all’insostenibilità, per ragioni di opportunità politica, di qualsiasi posizione giudicata eccessivamente filo-russa.
A testimonianza dell’attuale riluttanza del governo ad ascoltare le opposizioni, ci sono decine di casi di censura a giornalisti non allineati e l’atteggiamento assertivo nei confronti di quei parlamentari che criticano l’OAT.
Inoltre, il governo sembra sempre più incline ad una vera e propria «purga» di possibili oppositori politici, come testimoniato dal disegno di legge di lustrazione, che prevede l’esclusione dagli incarichi pubblici di politici coinvolti nel vecchio governo di Yanukovich.
Proprio per sfruttare quel che rimane dell’inerzia emotiva di Euromaidan e del sentimento anti-russo, il Presidente Poroshenko ha deciso di indire elezioni parlamentari entro il prossimo ottobre per offrire al Paese un governo espressione della legittima volontà popolare ma che rischia, viste le difficoltà organizzative del voto nelle regioni orientali e l’impossibilità di farlo in Crimea, di risultare non pienamente rappresentativo.
La stessa mancanza di piena rappresentatività riscontrabile nell’elezione di Poroshenko, quando la Crimea non ha partecipato al voto e le regioni orientali hanno largamente boicottato le consultazioni. 
 

La metropolitana di Kiev.
 
Al momento, appare complicato avventurarsi in previsioni, anche se non è avventato pensare ad una vittoria del “Blocco Petro Poroshenko” (BPP), piattaforma politica del Presidente in carica, di UPP e di UDAR (pugno), partito del sindaco di Kiev Vitaly Klitshko, tutte formazioni filo-euroatlantiste.
Tuttavia, non sono da escludere contrasti interni alle forze filo-occidentali, nonché un grande exploit dell’astensionismo.
Allo stesso modo, non è difficile immaginare una débâcle del Partito delle Regioni (o di chi eventualmente ne raccoglierà l’eredità politica) e di tutti quei movimenti che continuano a ritenere centrale la partnership economica, politica e culturale con la Russia.
Tuttavia, oltre a queste variabili tipiche del sistema politico ucraino, a distanza di 10 mesi da Euromaidan, una delle incognite più grandi continua ad essere la diffusione e la crescita del nazionalismo e dell’estremismo di destra.
In questo senso, i risultati delle scorse elezioni presidenziali, pur avendo ridimensionato le ambizioni di Settore Destro (SD) e della più navigata Svoboda (Libertà), non devono trarre in inganno sulla reale entità del fenomeno.
Infatti, le consultazioni presidenziali, per il clima in cui si sono svolte e per la figura che dovevano eleggere, poco si prestavano alla vittoria di esponenti periferici del panorama politico nazionale. Il nazionalismo ucraino è un fenomeno strisciante, ben precedente a Euromaidan e che, in occasione delle rivolte di febbraio, ha cercato di consolidare il proprio ascendente nelle istituzioni e nella società.
La crescita del nazionalismo, dunque, non è da collegare esclusivamente a quei partiti o formazioni che, in passato, se ne sono fatti esclusivi portatori e difensori, bensì a nuovi e vecchi soggetti politici che intendono sfruttarlo per il proprio tornaconto elettorale.
 
Dunque, l’esasperazione della retorica nazionalista e la strategia governativa di utilizzare le milizie estremiste per massimizzare sia lo sforzo militare sia la mobilitazione sociale in funzione anti-russa rischia di avere imprevedibili e pesanti controindicazioni. Infatti, un eccessivo rafforzamento dei movimenti di ispirazione neo-fascista e neo-nazista potrebbero ulteriormente destabilizzare e polarizzare la scena politica nazionale, già di per sé fragile e frammentata. In questo senso, una delle variabili più imprevedibili è legata al reducismo e alle conseguenze della lunga guerra in Donbass.
Infatti, non è un mistero che la Guardia Nazionale ed alcuni battaglioni paramilitari afferenti ad oligarchi locali siano stati assemblati reclutando molte milizie di estrema destra, come testimoniato dalla simbologia di ispirazione nazista adottata dai reparti in questione.
In particolare, i due battaglioni più politicizzati sono l’Azov e l’Aidar. Entrambi sfoggiano palesemente una simbologia ed una retorica neo-nazista, mentre il secondo è stato indicato dall’OSCE e da Amnesty International come responsabile di crimini di guerra.
Durante l’OAT, le nuove unità hanno sostenuto un peso vigoroso dell’offensiva, pagando un alto prezzo di sangue e non riuscendo ad integrarsi pienamente con le FA regolari.
Inoltre, a causa della propria forte impronta ideologica, i battaglioni della Guardia Nazionale sono difficilmente controllabili e talvolta rifiutano di eseguire gli ordini.
Questa insubordinazione spesso rende difficile l’implementazione delle tregue e degli accordi di cessate-il-fuoco.
Le divisioni e gli attriti tra Esercito e Guardia Nazionale sono stati evidenti durante la controffensiva da parte dei ribelli (16 agosto - 5 settembre 2014), quando, in molte occasioni, le FA hanno abbandonato i paramilitari di Kiev in balia del fuoco dei separatisti.
L’esperienza del fronte, l’ulteriore militarizzazione delle milizie e le possibili rivendicazioni politiche che le formazioni di estrema destra potrebbero avanzare nei confronti della classe politica ucraina rischiano di destabilizzare ulteriormente un processo di democratizzazione tutt’ora precario e contraddittorio.
Il nazionalismo ucraino, nella sua forma più violenta e radicale, rappresenta un notevole elemento di destabilizzazione, in grado di influire in maniera massiccia sull’agenda politica nazionale e internazionale in quanto ugualmente contrario ed equidistante sia dal filo-europeismo sia dal filo-russismo. 
 

La mappa del South Stream, il gasdotto che porterà il metano in Puglia.

 Le dinamica  
Si tratta di una dinamica attualmente in incubazione, ma che potrebbe proliferare approfittando delle possibili difficoltà a cui andranno incontro gli attuali partiti di potere nel prossimo futuro.
In questo senso, da osservare con attenzione è il Partito Radicale (PRr) di Oleg Lyashko, possibile contenitore di tutte queste istanze anti-sistemiche, estremiste e russofobiche.
Infatti, qualora il Presidente Poroshenko e la prossima leadership ucraina dovessero tradire le aspirazioni europeiste di una parte della popolazione, rallentando le riforme democratiche, di trasparenza e di lotta alla corruzione o intrappolando il Paese in una politica di austerity necessaria al risanamento dei conti pubblici e al rispetto dei parametri macroeconomici per l’integrazione nell’UE, si potrebbe assistere ad una crescita di consensi da parte di movimenti populisti e nazionalisti.
In questo caso, il nazionalismo, prosperando nell’incertezza economica e nell’emarginazione sociale e nutrendosi della russofobia e della disillusione verso i valori occidentali potrebbe sostituire l’euro-atlantismo come mantra del malcontento popolare.
Infatti, non bisogna mai dimenticare che l’economia ucraina è costante rischio default, dovendo far fronte ad un debito sul breve-medio periodo di circa 30 miliardi di dollari, sopravvive grazie agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale (FMI) ed ha riserve di valuta pari a 13 miliardi di dollari, una cifra insufficiente per far fronte alle esigenze del Paese.
Inoltre, l’OAT è sinora costata a Kiev oltre 8 miliardi di dollari e rischia di costarne più del doppio in caso di prosecuzione nei prossimi mesi.
A questi dati bisogna aggiungere l’ipotetico disastro costituito dalla perdita delle ricche regioni industriali orientali ed ai costi della ricostruzione nelle aree distrutte del Donbass.
L’industria carbonifera, che fornisce circa il 31% della produzione energetica ucraina ha conosciuto un calo della produzione pari al 21% e minaccia direttamente anche l’industria metallurgica (60% delle esportazioni nazionali). Le esportazioni ucraine verso la Russia sono diminuite di 2,5 miliardi di dollari, mentre quelle verso l’UE sono cresciute dell’1,2%, pari a 1,3 miliardi di dollari.
Secondo le stime del governo, le perdite economiche derivanti dalle sanzioni potrebbero raggiungere la soglia dei 7 miliardi di dollari.
In definitiva, dall’inizio della crisi, la produzione industriale nazionale è calata del 12% e il PIL potrebbe subire una decrescita del 6% nel 2014, mentre il deficit raggiungere la soglia del 6,4% del PIL.
 
La variabile della crisi economica e della distruzione di infrastrutture industriali nelle regioni orientali permette di introdurre un altro giocatore influente nella scacchiera ucraina, ossia la classe degli oligarchi, le vere eminenze grigie della politica nazionale.
Da quando l’Ucraina, nel 1991, è diventata indipendente, gli oligarchi sono stati i principali artefici della ciclicità politica e dell’alternanza tra governi filo-europei e governi filo-russi.
I loro interessi, che spesso coincidono con quelli di determinati settori dell’economia nazionale attraverso il controllo di aziende statalizzate, fanno si che i magnati della finanza, dell’industria, delle comunicazioni e dell’energia siano i veri «king maker» del Paese.
In questo senso, a ogni turnata elettorale, è spesso la battaglia tra schieramenti di oligarchi a determinare i vertici e la conduzione politica ucraina. Per comprendere la reale forza delle oligarchie, è opportuno paragonare il ruolo dei miliardari in Ucraina e Russia, un punto fondamentale che distingue i due Paesi.
Nel primo caso, gli oligarchi, anche se potenti, sono in posizione di subordinazione rispetto al potere politico, alle burocrazie e all'apparato di sicurezza.
Se un oligarca ingaggia una battaglia con i siloviki, si estingue o è costretto a fuggire. Al contrario, in Ucraina gli oligarchi sono in posizione di influenzare i poteri statali.
Naturalmente, una simile posizione di vantaggio è legata alla «sospensione» est-ovest dell'Ucraina e al suo ondeggiare senza mai realmente scivolare in un campo o nell'altro.
Dunque, l’interesse primario di alcuni oligarchi, soprattutto quelli dell’industria pesante e della difesa, è quello di mantenere l’Ucraina nella sua tradizionale posizione geopolitica di «terra di mezzo» tra oriente e occidente.
La battaglia tra oligarchi ha caratterizzato anche il post-Euromaidan, con i potentati finanziari e del settore terziario decisi a virare ad ovest mentre i magnati dell’industria intenzionati a contrastarli.
Non è un caso che Akhmedov e Firtash, rispettivamente i padroni del gas e dell’acciaio ucraini, abbiano contrastato, più o meno segretamente, il progetto europeista e adesso finanzino parte delle milizie separatiste impegnate nella guerra in Donbass. 
 

Odessa, downtown.

Nel tentativo di arginare le perdite e finanziare la spesa militare, il governo ucraino ha ridotto drasticamente la spesa sociale ed aumentato le tasse.
Le necessità di bilancio potrebbero condurre al licenziamento di molti lavoratori statali e al blocco degli stipendi della pubblica amministrazione. Inoltre, la crisi dei consumi e la mancanza di accesso al credito per le imprese potrebbe tradursi in un drammatico aumento della disoccupazione.
Non bisogna dimenticare che l’attuale sistema economico ucraino, già in recessione, potrebbe soffrire l’adeguamento agli standard richiesti dall’UE per l’integrazione.
L’implementazione delle misure liberiste rischia di colpire particolarmente quei settori dell’economia e quelle imprese legate al commercio con la Federazione Russa, situate prevalentemente nelle regioni orientali del Paese.
Inoltre, qualora l’Ucraina entrasse a far parte dell’area di libero scambio europea, la Russia potrebbe subire un pesante contraccolpo economico. Infatti, ad oggi Kiev e Mosca beneficiano a loro volta di un accordo di libero scambio che facilita l’export ucraino in Russia.
Dunque, il Cremlino teme che, senza un’adeguata regolamentazione, la contemporanea appartenenza ucraina al libero mercato europeo ed al libero mercato russo possa rendere il Paese un’area di transito per i prodotti UE in Russia senza che questi siano sottoposti a dazi doganali.
In tal caso, il mercato russo sarebbe invaso da beni stranieri che comprometterebbero i produttori nazionali.
Secondo il Ministero dell’Economia russo, l’unica soluzione per ovviare al problema sarebbe sospendere l’accordo di libero scambio con l’Ucraina ed imporre una serie di misure restrittive, quali l’innalzamento dei dazi e l’introduzione di controlli veterinari e fitosanitari più severi che potrebbero limitare la circolazione dei prodotti alimentari.
Tuttavia, la maggior parte delle esportazioni di Kiev sono dirette in Russia e, in caso di sospensione del regime di libero mercato, l’economia ucraina subirebbe un danno di circa 200 miliardi di dollari per i prossimi 10 anni.
Tale danno economico rischierebbe di colpire molte imprese ucraine, costringendole alla chiusura o a massicci licenziamenti. Di conseguenza, le realtà sociali impiegate nell’indotto che fornisce la Russia vedono con preoccupazione all’avvicinamento tra Kiev e Bruxelles.
Ne consegue che la dicotomia tra sostenitori e detrattori di Euromaidan, filo-russi e russofobici, regioni occidentali e regioni orientali sia molto complessa e riguardi il destino e la sopravvivenza di migliaia di persone.
 
In base a queste considerazioni e alla luce della tradizionale ciclicità della vita politica e del consenso popolare ucraino, non sarebbe da escludere aprioristicamente un ritorno di fiamma dei partiti filo-russi.
Tuttavia, questa eventualità appare connessa alla crescita della disillusione popolare, al fallimento del progetto europeista e alla ipotetica crescita del populismo iper-nazionalista.
In assenza dei benefici sociali ed economici pubblicizzati ed auspicati dai partiti e dai movimenti europeisti, gli ucraini potrebbero tornare a guardare con attenzione ed interesse alla Russia come modello di sviluppo. In tal senso, l’esperienza crimeana potrebbe costituire una testa di ponte per i filo-russi delle prossime generazioni.
Infatti, nei pochi mesi trascorsi dall’annessione della Crimea alla Russia, la popolazione locale, soprattutto gli operai, le forze di sicurezza e i dipendenti pubblici hanno potuto beneficiare di salari più alti e di migliori condizioni di welfare rispetto al passato.
In ogni caso, il ritorno del filo-russismo è da considerare su uno spettro temporale ampio, quando cominceranno a risanarsi quelle ferite aperte dalla crisi di Crimea e dalla guerra in Donbass.
Inutile dire le nuove formazioni filo-russe usufruirebbero di tutto il sostegno logistico, finanziario e propagandistico del Cremlino.
In definitiva, pensare di spezzare il legame tra russi e ucraini appare utopistico.
 
Marco Di Liddo - Cesi
Fine prima parte - Continua

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