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L’intervento di Laura Boldrini al Festival dell’Economia

«La dignità della persona, i rifugiati, le migrazioni, la clandestinità, la sovranità, l'Europa federalista e solidale, i populismi antidemocratici...»

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 Riportiamo qui di seguito l’intervento peree esteso di Laura Boldrini 

Ringrazio, per l’invito che mi è stato rivolto, la Provincia Autonoma, il Comune e l’Università di Trento, il mio amico Giuseppe Laterza, il professor Tito Boeri. Le autorità presenti e tutti voi che siete qui.
Ringrazio Tiziana Ferrario, che conosco da tempo e che dialogherà con me stasera.
Prima di essere eletta Presidente della Camera, per ben ventiquattro anni, ho lavorato nelle Agenzie delle Nazioni Unite. Gli ultimi quindici, come portavoce dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, l’UNHCR.
 
È soprattutto con l’UNHCR che ho svolto missioni in molte aree di crisi nel mondo: nei Balcani, durante il conflitto e la disgregazione della ex Jugoslavia, in Afghanistan, in Pakistan, in Iraq e in Iran.
In Paesi africani lacerati dalle violenze come il Sudan, l’ Angola e il Ruanda. Nel Caucaso e nelle repubbliche centroasiatiche, con i loro focolai di tensione dimenticati.
 
In alcune di queste missioni, come in Kosovo, ho potuto assistere alla fuga e poi al ritorno a casa dei rifugiati, alla difficile riconciliazione tra ex nemici ed alla ricostruzione materiale.
In molti casi, però, ho dovuto constatare che la comunità internazionale era arrivata troppo tardi, quando le violenze erano già dilagate, quando migliaia di persone erano già fuggite dalle proprie case.
Eppure la Carta delle Nazioni Unite - promulgata quasi settant’anni fa - afferma che debba essere intrapresa ogni «azione necessaria» per «mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale».
 
E allora, la sovranità degli Stati può essere messa in discussione per difendere la dignità delle persone?
E, se può, con quali modalità? Questo credo sia il primo impegnativo quesito della nostra discussione.
Vorrei avvicinarmi alla risposta partendo dal tema delle migrazioni, di cui mi sono occupata per tanti anni.
 
Le migrazioni sfidano la sovranità degli Stati in due modi: innanzitutto perché dimostrano quanto siano labili le frontiere che gli Stati ergono e che poi presidiano per rafforzare la loro sovranità.
E poi perché, quando chi fugge da violenze e persecuzioni non viene accolto in un Paese a cui chiede protezione, la sovranità di quello Stato deve essere chiamata in causa in nome del diritto internazionale.
 Diritto internazionale che sancisce il diritto inderogabile all’asilo e il principio del non respingimento.
 
Lo dice anche la nostra Costituzione, all’articolo 10. E invece, il cammino della realizzazione di questa prescrizione costituzionale, ad oltre sessant’anni dalla sua promulgazione, non è ancora compiuto.
Per di più, negli ultimi anni, sono stati frapposti ostacoli di natura ideologica, incluso un uso improprio delle parole : è stato bollato come «clandestino» - termine stigmatizzante ed inappropriato - chiunque raggiungesse con mezzi di fortuna il nostro Paese.
Non esisteva, per una buona parte della stampa e del mondo politico, la figura del richiedente asilo e del rifugiato. Di chi cioè, è costretto a fuggire dal proprio Paese a causa di violenze, persecuzioni e violazione dei diritti umani.
 
Da quando si è visto che cavalcare la paura poteva avere una resa elettorale facile e più immediata, fenomeni sociali complessi, come quello delle migrazioni forzate, sono stati usati in modo strumentale e piegati a semplificazioni propagandistiche.
Ne è derivata una legislazione criticata da più parti come irrazionale e poco lungimirante.
 

 
Questa impostazione ha portato l’Italia, sul finire dello scorso decennio, a compiere respingimenti in alto mare di centinaia di rifugiati e migranti.
Sono stati rimandati dove rischiavano di subire torture o trattamenti inumani, o dove potevano essere rinviati nei Paesi d’origine, dai quali erano fuggiti a causa di persecuzioni.
Una prassi che ha portato la Corte europea per i Diritti dell’Uomo a condannare l’Italia per non aver rispettato il principio del non-respingimento, contenuto nella Convenzione di Ginevra del 1951 e in vari trattati da noi sottoscritti.
La Corte ci ha quindi ricordato che la sovranità degli Stati può essere messa in discussione per tutelare la dignità ed i diritti della persona.
 
Rimanendo nel Mediterraneo, e affrontando il tema della sovranità da un altro punto di vista, mi viene in mente la Grecia, uno degli ultimi Paesi dove spesso sono stata in missione, prima di lasciare l’incarico all’UNHCR.
Un Paese sottoposto alle verifiche stringenti della cosiddetta «Troika» (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale), con decine di migliaia di persone precipitate nella povertà, nel disagio sociale, perfino nella mancanza di medicinali negli ospedali e nelle farmacie e con una tensione sociale incandescente.
È il caso estremo di cessione di sovranità sulle sole materie economiche e sulle politiche di bilancio, ambiti su cui si è tanto concentrata la politica dell’Unione Europea.
Quella che è mancata è proprio l’Europa politica, uno spazio giuridico condiviso, un Governo europeo pienamente legittimato dal voto dei cittadini. Tutto questo, almeno fino ad oggi, gli Stati membri non lo hanno voluto.
 
Non si è dato corso, cioè, al progetto di una Europa unita e federalista sognata tanti anni fa a Ventotene.
Per l’opinione pubblica l’Europa serve solo ad imporre misure di austerity, il rispetto delle politiche di bilancio o a costringere i Paesi debitori ad attuare nuovi tagli a sistemi sociali già fragili e provati dalla crisi. Insomma, soltanto sacrifici.
L’Europa dei diritti e delle libertà, cede troppo spesso il passo a quella della finanza e delle tecnocrazie.
 
Vorrei che la stessa determinazione che viene usata verso gli Stati che non rispettano i parametri di Maastricht, fosse indirizzata anche ai Paesi membri che violano i diritti fondamentali.
Abbiamo gli strumenti per farlo : l’articolo 7 del Trattato di Lisbona indica le procedure necessarie ad accertare il rischio di violazione dei valori dell’Unione da parte di uno Stato membro.
 
L’Europa che viene percorsa oggi da movimenti populisti, neofascisti e xenofobi non è quella di Altiero Spinelli.
Non si può tollerare che, all’ interno dell’ Unione Europea, agiscano impunemente movimenti antidemocratici. Che si restringa la libertà di stampa. Che si renda illegale l’essere senza fissa dimora.
Vorrei che un’Europa più forte, più unita, più solidale.
È una scelta di fondo quella che bisogna compiere: occorre rafforzare le istituzioni sovranazionali e renderle sempre più rappresentative.
 
Lo dobbiamo fare anche per rispondere alla sfida che ci pone la globalizzazione.
I processi economici e sociali hanno superato i confini delle nazioni, la politica no.
È rimasta chiusa dentro le antiche frontiere e quando ha dato vita ad istituzioni sovranazionali, come l’Unione Europea o le Nazioni Unite, non ha conferito loro i poteri necessari.
 
Poche settimane fa, a Dacca, 1.100 lavoratori morivano sotto le macerie della fabbrica in cui lavoravano per l’equivalente di pochi euro al mese e in condizioni veramente disumane.
Quei lavoratori producevano capi d’abbigliamento per aziende occidentali, anche europee.
Queste aziende avevano dislocato la produzione in paesi dove, come si dice in gergo, «il costo del lavoro è più basso». Cioè dove non c’è la minima protezione sociale e di sicurezza per i lavoratori. E’ una tendenza ormai diffusissima e se provi a criticarla sei bollato come ostile alla globalizzazione.
Non è così. Io sono favorevole alla globalizzazione, ma in senso completo : se si globalizza l’economia e la produzione, si devono globalizzare anche i diritti di chi lavora. Altrimenti si continua a tollerare una diseguaglianza moralmente inaccettabile.
Quale sovranità interpella la tragedia di Dacca ? Quella del Bangladesh e della sua legislazione sul lavoro ? Certo, ma sarebbe una ipocrisia non chiamare in causa anche le responsabilità dei paesi da cui partono quelle aziende.
 
Vorrei concludere a questo punto, affrontando la questione più delicata e più difficile di tutte: quella della cosiddetta ingerenza umanitaria.
Come dicevo all’inizio, nel corso della mia esperienza ho visto che cosa possono produrre le sovranità nazionali ai danni dei loro concittadini. Mi riferisco alle dittature, alle pulizie etniche, agli stermini di massa, alle guerre civili.
Bosnia, Kosovo, Congo, Darfur. L’elenco è purtroppo lungo. 
 

 
Di fronte a quei massacri, agli stupri di massa, alla distruzione di vite ancora giovanissime, mi sono chiesta tante volte dove fosse la comunità internazionale.
E mi sono domandata come sia possibile assistere a tutto questo senza agire, senza fare qualcosa per ripristinare la pace e il rispetto dei più elementari diritti delle persone, senza proteggere donne e bambini innocenti.
Mi sono indignata come molti di fronte all’indifferenza del mondo.
E la risposta all’immobilismo è stata spesso coniugata proprio in nome del rispetto della sovranità nazionale e del principio di non ingerenza. Sacrosanti principi.
Ma di fronte ai massacri e alle stragi rischiano di trasformarsi in paravento del più cinico egoismo.
 
Quando si calpestano i diritti e la vita delle persone, il principio secolare della sovranità nazionale viene contestato in primis dall’opinione pubblica mondiale, la cui coscienza è scossa da ciò che accade.
È accaduto ieri, nel caso del Cile, di Piazza Tienanmen, della Primavera di Praga.
Vale tanto più oggi, in una epoca in cui i mezzi di comunicazione sono in grado di mostrarci in tempo reale e nel dettaglio qualunque evento in qualunque parte del pianeta.
Oggi dovrebbe essere più difficile stare con le mani in mano. E invece la lista dei conflitti continua a crescere.
 
Penso che, di fronte alla mortificazione della dignità umana, esista un diritto-dovere all’ingerenza negli affari interni. Ma a due condizioni. Primo, che si decida applicando scrupolosamente il diritto internazionale e non in maniera unilaterale o con coalizioni estemporanee. Secondo, che ingerenza non significhi necessariamente intervento armato. Troppe operazioni militari sono state presentate all’opinione pubblica come umanitarie, e non lo erano, perché diversi erano gli obiettivi, diverse le prospettive.

Voglio essere chiara: la mia non è una critica alle forze armate. Sono testimone diretta del fatto che in molte occasioni senza militari non saremmo riusciti a garantire la protezione dei civili, dei convogli e degli aiuti alle popolazioni.

Critico il fatto che non si faccia abbastanza per prevenire e risolvere in tempo utile le controversie per via politica e negoziale e che l’intervento militare diventi quindi l’unica cosa da fare, magari dopo mesi di inazione.
La guerra, oltre a causare perdite di vite umane e distruzione materiale, rende poi quanto mai difficile la ricostruzione di una sovranità nazionale democraticamente legittimata.
 
Ecco. Sono questi i pensieri e gli interrogativi che la mia esperienza mi sollecita e che propongo a voi stasera.
 
Vorrei però che di questi temi si occupassero di più la politica italiana ed il sistema dell’informazione.
Ci si appassiona troppo attorno all’ultima battuta politica, perdendo di vista i grandi interrogativi sul futuro del mondo: i cambiamenti climatici, le migrazioni, le risorse energetiche, le conquiste della scienza.
Non sono astrazioni. Al contrario.
Pensare globalmente è l’unico pensiero realistico possibile, perché ormai nessuno dei fenomeni sociali che influenzano la vita delle persone e delle nazioni, nasce e muore dentro i confini di un solo paese.
 
Un nuovo modo di pensare il mondo è una necessità urgente anche per il tema che discutiamo stasera, quello della dignità della persona.

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