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L’Italia, più che di un Governo, ha bisogno di «Governance»

Anna Zanardi, consulente ad alto livello di grandi imprese italiane ed estere, propone una lettura diversa della situazione attuale di stallo istituzionale

Se da un lato il governo è la costituzione formale e gerarchica del potere dello Stato, d’altro lato la Governance, termine mutuato dall’inglese, ne definisce secondo l’accezione attuale l’esercizio pratico, oculato e soprattutto efficace, teso al bene collettivo nel lungo termine.
Purtroppo accade spesso che ci si fermi alla forma. È un male italico antico che vede l’intero paese infervorarsi per l’una o per l’altra parte politica, con gli stessi campioni popolari che manovrano e formano alleanze battagliando come leoni sulla costituzione formale di un governo, salvo poi dimenticarsi, una volta costituita la «forma», degli aspetti più pratici e terreni del governare.
Lo stesso vale per tutte le forme di potere, istituzionale o civile, nelle aziende o nelle organizzazioni di ogni ordine e grado.
 
 Poco conta il valore dei contendenti, se è il sistema-paese ad essere disorganizzato 
Se noi guardiamo a tutti i momenti di conflitto, di tensione e di difficoltà nella gestione delle discussioni e dei confronti tra le persone, ci rendiamo conto che sono la conseguenza di una mancanza di processi di governance efficaci.
In questi casi non è chiaro chi decida cosa, chi debba gestire la discussione e quali siano le competenze di ciascuno all’interno del proprio ruolo specifico.
Questa poca chiarezza non solo porta al conflitto, ma anche, quelle poche volte che si riescono ad avere dei risultati, ad ulteriori risse per accaparrarsi i meriti di questi ultimi.
Ciò si verifica anche in presenza di personaggi di elevata statura, di contenuti di grande valore, e di ingenti risorse - ne abbiamo a iosa e non le stiamo utilizzando appieno - poiché non si riesce a portare a termine un’azione in maniera efficace.
In assenza di governance, vi è uno spazio di ambiguità tale per cui i più furbi, sul brevissimo termine, si fanno i fatti loro nella logica dell’individualismo. Così non si riesce mai a ingranare la marcia sul lungo termine e sul collettivo.
 
 Un male italico, ma non solo 
Questo è un problema abbastanza diffuso, seppure in Italia in modo più esacerbato, che dipende anche dal fatto che negli ultimi anni c’è stata una fortissima accelerazione della condivisione delle informazioni che ha fatto sì che ognuno sovrastimasse un po’ la propria capacità di impatto e la propria importanza.
È come se si fossero persi i confini del proprio ruolo, e la nozione del tempo necessario per maturare. Oramai un tredicenne e un settantenne hanno la stessa mole di informazioni, e ciò falsa di molto il peso specifico dell’esperienza e della capacità di usarla per prendere decisioni di valore.
In Italia, per la situazione storica, per il fatto di essere un Paese che è stato sempre saccheggiato, diviso, terra di conquista, le persone che volevano sopravvivere dovevano imparare a difendere il proprio orticello, la propria famiglia, la propria ristretta cerchia sociale.
Questo clan-centrismo, oltre a far sì che il «parco manager» da cui pescare per popolare CdA e piani alti aziendali sia sempre ridotto agli stessi profili in una sorta di incesto manageriale, determina ancora oggi alcuni fenomeni, come il proliferare di università in tutte le città italiane con un abbassamento della qualità del valore accademico e un costo eccessivo dell’istruzione, perché ognuno deve avere l’università sotto casa.
La stessa cosa vale per altre realtà: l’eccessiva capillarità, e quindi la ridondanza, di tutta una serie di centri di servizi e di competenze ne determinano una qualità inferiore rispetto a quella che si potrebbe avere se avessimo solo alcuni punti di eccellenza ben distribuiti nel paese.
Qualità che purtroppo è destinata a rimanere in secondo piano se non si ha la volontà di operare delle scelte realmente basate su meritocrazia e competenza.
 
 Da dove passa la cura 
La riscossa passa da un salto generazionale a piè pari e da un investimento fortissimo su cultura e formazione.
In Italia il rischio è che tutto ciò non si faccia con l’ottica dell’eccellenza ma con quella dell’accontentare tutti. Così purtroppo la cura non funzionerà, né nelle scuole, né nelle università né in altri ambiti.
È il fenomeno del «risotto degli sposi», sempre ed invariabilmente in bianco, con al massimo una spruzzata di champagne, per non scontentare nessuno.
Se si vuole davvero cambiare, bisogna avere il coraggio di rompere questa logica.
Ci sono però dei segnali positivi. Sempre più persone stanno esprimendo questo concetto in vari modi, ma c’è ancora un problema di massa critica: l’impatto di poche azioni solitarie ancora non si vede sul sistema-paese.
Si dovrà attendere fiduciosi, e continuare a predicare la governance, o buon governo che si voglia.
 
 Anna Zanardi 
Anna Zanardi da trent’anni svolge la sua attività di board advisor e coach strategico di AD e Consigli d’Amministrazione di multinazionali ed enti pubblici in Italia e in Europa.
Almeno 18 tra i suoi clienti figurano nella top 100 della classifica mondiale di Forbes.
Li assiste nei molteplici aspetti della governance, dalla gestione del cambiamento, ai processi di trasformazione aziendale, al decision taking and making, alla gestione dei talenti e alla valorizzazione delle risorse interne.
Il profilo accademico di Zanardi si è sviluppato ai più alti livelli, principalmente in Europa e negli Stati Uniti, dalla Bocconi a Stanford, all’Insead di Fontainebleau, sulle due direttrici della psicologia e del management.
Ha insegnato presso università e business school italiane, dalla Bocconi, alla Cattolica, alla LUISS ed è membro di diverse associazioni e ordini professionali.
Ha al suo attivo numerosi lavori editoriali, ed è stata pioniere e prima autrice italiana a pubblicare un libro sul coaching, «Il coaching automotivazionale» (FrancoAngeli, 1999).

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