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L'importanza della casa di riposo di via Vannetti a Rovereto

La storia pionieristica della casa di riposo sostituì l’ospizio considerato «l’anticamera dell’inferno»

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«La casa di riposo di via Vannetti a Rovereto fu un grande avvenimento. Certo vi furono anche contrasti e difficoltà ma quella struttura segnò una svolta nella politica di assistenza verso gli anziani» A rievocare la storia della «casa rossa», l’altra sera in Comunità della Vallagarina, erano presenti i protagonisti dell’epoca.
A partire da Guido Falqui Massida che ha prodotto un libro: «La casa rossa. Una storia roveretana (e altre storie)», edito da Egon, con lui erano presenti: l’assessore alla cultura della Comunità Marta Baldessarini, del Comune Fabrizio Gerola ed Erminio Lorenzini all’epoca assessore comunale nella giunta retta dal sindaco Benedetti. Stiamo parlando degli anni 1969/70.
 
Lorenzini ha tratteggiato una fotografia di quanto esisteva all’epoca in tema di assistenza verso gli anziani. «L’ospizio (ubicato in Santa Maria) era – ha detto – l’anticamera dell’inferno. La certificazione del fallimento esistenziale di una persona».
Si tende a dare per scontati i servizi di oggi, dimenticandosene la storia, «ma in quegli anni – ha raccontato Lorenzini – non esisteva il minimo vitale, le persone in  difficoltà ricevevano degli aiuti «discrezionali» sia pubblici che privati. Abbiamo messo ordine e creato dei criteri per il minimo vitale e cominciato a ragionare per mantenere il più possibile l’anziano all’interno della sua casa coi servizi domiciliari.»
 
Una visione pionieristica che fu poi la medesima adottata all’interno della casa rossa dove Falqui Massidda fu il primo presidente e nel libro ripercorre la storia di quella che «era una struttura fatta di cemento e a noi spettava il compito di farla diventare viva, di carne e ossa».
«L’apertura della casa fu – ha spiegato l’autore - un atto rivoluzionario perché portammo nella casa rossa quella ottantina di anziani che nel vecchio ospedale vivevano tutto il giorno in pigiama come fossero in una prigione».
 
La Casa di riposo ben presto venne presa ad esempio in tutta Italia.
«Volevo raccontarne la storia - ha detto Falqui - in stile giornalistico, perché potesse essere letta in forma piacevole.»
 
Col desiderio di far sì che «i giovani si rendano conto che quello che c’è non è sorto dalle acque, ma frutto di una fatica collettiva, con un consiglio di amministrazione straordinario compresi anche quelli che non condividevano la linea politica: ci siamo lasciati con amicizia e non smetterò mai di ringraziarli».
Certo non mancarono i dissapori ma Falqui ha spiegato che il libro non vuole rinfocolare vecchie polemiche, anzi esattamente l’incontrario e «ripensando a questa avventura umana – ha concluso - sono felice di averla fatta, di aver imparato a conoscere gli uomini, nel bene come nel male».

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