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1 novembre 2017 - Solennità Ognissanti

Omelia dell’arcivescovo Lauro al cimitero monumentale di Trento

Pubblichiamo qui di seguito il testo dell'omelia pronunciata da Vescovo Lauro al Cimitero Monumentale di Trento oggi che è la festività di Ognissanti.

Il luogo in cui celebriamo questa Eucarestia non custodisce la morte, ma il tesoro vivo di tante donne e tanti uomini che, per noi, sono stati vita, gioia e consolazione. 
Sulla stessa lunghezza d’onda si muove il testo dell’Apocalisse, per il quale i santi non sono affatto pochi.
Anzi, sono, addirittura, una «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9).
Mentre noi ci soffermiamo sul male, il limite e la debolezza, agli occhi di Dio ciò che merita di essere posto in evidenza è il bene, il bello e il vero che abitano silenziosamente la nostra umanità.
L’Apocalisse ci invita a pensare il volto di questi uomini e donne come un «noi» comunitario.
È questo il senso profondo delle parole: «Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello» (Ap 7,9). A unificarli è l’Agnello che si è donato e rivelato sul trono della croce. Paradossale affermazione, che rivela il modo nuovo di pensare il bene e la forza, il giusto e l’ingiusto. Giusto è il dono di sé, vincente è la gratuità, indelebile l’amore quando porge l’altra guancia.
 
Ecco allora che la felicità e la beatitudine non consistono nel piccolo cabotaggio di una vita che mira solo allo “star bene”.
Ma felici sono l’uomo e la donna che mirano a «far star bene», provano gioia nel rimanere presso l’altro, nel cercarne la felicità.
Felicità, allora, non è un bene che sta fuori di noi, ma è vivere fuori di noi, con e per l’altro. Diversamente, non c’è beatitudine.
 
Quella che stiamo vivendo, tuttavia, per molti noi, è l’ora delle lacrime, del ricordo struggente del volto di chi abbiamo amato. Ma proprio quelle lacrime svelano la presenza, in noi, dei segni del Regno.
Mentre documentano, infatti, la nostalgia del volto dei nostri cari, dicono, al contempo, il nostro desiderio di stare con loro. La loro compagnia vale più di tutti i beni di questo mondo.
Il loro pensiero evoca gesti di vicinanza e prossimità che custodiamo gelosamente nel cuore.
Per questo, ci ribelliamo all’idea che il nulla li abbia inghiottiti e l’amore individua ogni strada per impedirne l’oblio. Anche i nostri gesti di bene, non raramente, li riconduciamo al loro esempio.
 
Il Regno inaugurato da Gesù, a cui affida il compito di regalarci beatitudine e vita, va proprio nella direzione rivelata dalle nostre lacrime, come conferma il testo evangelico di oggi.
Chi sono i poveri in Spirito se non uomini e donne che gioiscono nell’imparare dagli altri, nello stare con gli altri?
I misericordiosi, gli operatori di pace, non sono forse coloro che si fanno carico, concretamente, delle storie degli altri?
I puri di cuore non interpretano, forse, la realtà a partire dall’amare e dal voler bene?
 
La festa di oggi è, dunque, una «contestazione» poderosa al sistema tecnologico-finanziario, diventato una sorta di «nuova religione».
Esso vorrebbe chiudere gli uomini dentro lo schermo di uno smartphone e in una frenetica ossessione operativa, dove gli unici obiettivi sono i freddi numeri dell’economia.
Un simile scenario non contempla dinamiche relazionali fatte di spazi gratuiti e di autentica convivialità.
 
I nostri cari oggi ci provocano: non lasciarti rubare la parte più bella della vita!
La vita non scorre in un’immagine digitale o in un conto in banca, ma nella concretezza di una carezza, di un sorriso, di un abbraccio che mantengono intatta la loro forza, non temono l’usura del tempo.
Questa è l’eredità più bella.

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