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25 aprile, l'intervento del sindaco di Trento Alessandro Andreatta

«Come ammoniva Italo Calvino, le vittime della Resistenza sono tutte uguali davanti alla morte, non davanti alla storia»

Autorità, gentili ospiti, signore e signori.

Ogni anno, all'approssimarsi del 25 aprile, qualcuno propone di abolire la Festa della Liberazione, in quanto anniversario di parte e divisivo.
Alla base di questo suggerimento, sta una convinzione: che le due fazioni in lotta, i fascisti e gli antifascisti, gli alleati di Hitler e i partigiani, siano in qualche modo equiparabili.
Che la Resistenza sia stata una sorta di scontro sportivo e che dunque qui, oggi, noi celebriamo non la vittoria dello stato di diritto sull'arbitrio, non il prevalere della convivenza pacifica sulla violenza e la paura, ma il trionfo di una squadra meritevole quasi quanto quella avversaria.
 
Il 25 aprile, come noi tutti sappiamo, fu ben altro. Perché l'Italia, negli anni del fascismo e in particolar modo dopo l'8 settembre del 1943, era una terra di nessuno sotto il profilo giuridico e morale.
L'unica legge vigente era quella del più forte, lo stato d'animo dominante era la paura: paura della violenza, della delazione, della persecuzione, dell'estorsione, della morte.
E il paesaggio che faceva da sfondo a questo disordine generale era quello degli impiccati agli alberi delle strade e delle piazze, delle case bruciate dai cacciatori di partigiani o di ebrei, dei plotoni di esecuzione, delle fosse comuni, delle città militarizzate, del coprifuoco.
 
Ebbene, è a tutto questo che il 25 aprile 1945 ha messo fine.
È dunque impossibile considerare quel giorno una data neutra, ininfluente, da cancellare dalla memoria per quieto vivere, per non turbare una conciliazione che è sì doverosa e necessaria, ma nel rispetto dei vincitori e dei vinti e, soprattutto, nel rispetto della verità.
Perché, come ha ammonito Italo Calvino, le vittime della Resistenza sono «tutte uguali davanti alla morte, non davanti alla storia».
 
C'è un altro aspetto che mi preme sottolineare.
Il 25 aprile non fu solo la Liberazione dalla dittatura nazifascista.
Il 25 aprile significò per l'Italia anche la costruzione di una nuova e diversa società, i cui principi erano già stati teorizzati e messi in pratica dai dissidenti politici al confino, dagli espatriati e soprattutto dai partigiani.
Come ha scritto lo storico del Risorgimento (già partigiano) Guido Quazza, chi è salito in montagna dopo l'8 settembre l'ha fatto per costruire un nuovo ordine, per creare una nuova legalità.
La banda partigiana per Quazza è stata “un microcosmo di democrazia”, di partecipazione, di responsabilità personale, quelle che mancavano in pianura, nelle città avvilite dalla violenza della dittatura.
In questo senso la Resistenza fu un'esperienza costituente.
Non a caso molti ex partigiani contribuirono a scrivere la nostra Carta costituzionale, trasferendovi quei principi democratici, quell'ordine giuridico sperimentato nell'opposizione al regime fascista.
 
Se tutto questo è vero, il 25 aprile ha ancora molto da dire alla nostra stanca democrazia, assediata oggi da altri pericoli: quello dell'indifferenza, del disimpegno, del populismo, che – come spiega Marco Revelli in un libro recente – si manifesta quando un popolo non si sente rappresentato, quando la politica sembra aver perso il suo ruolo e aver fatto il proprio tempo. Per questo oggi ci serve ancora lo spirito del 25 aprile, lo spirito di chi non solo protesta ma progetta e costruisce, di chi sa coniugare idealismo e concretezza.
Come i partigiani, che trasformarono la loro volontà di cambiamento e di riscatto – riscatto umano, sociale e politico – in una forza storica attiva, capace non solo di pensare ma anche di costruire un'alternativa.
 
Secondo Hannah Arendt, in tempi bui come quello degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, in tutte le occasioni in cui lo spazio pubblico, politico, si fa inabitabile e oscuro, il punto di riferimento a cui aggrapparsi non va cercato nelle grandi teorie ma «negli incerti e spesso deboli lumini che alcuni uomini accendono, nonostante le condizioni in cui è stato dato loro di vivere».
Gino Lubich, che noi ricordiamo qui oggi, fu uno di quei deboli lumini insieme ai suoi compagni partigiani che non ebbero la fortuna di sopravvivere: il diciottenne Eugenio Impera, lo studente liceale Enrico Meroni, Gioacchino Bertoldi di 22 anni, il brigadiere dei carabinieri Antonio Gambaretto, il trasportatore Augusto Betta, l'avvocato Angelo Bettini, Giuseppe Porpora e Gastone Franchetti, i più noti Manci e Pasi, tutti trucidati e in qualche caso orribilmente torturati dai nazifascisti.
 
Con ciascuno, con tutti i partigiani che non ho nominato, la nostra epoca ha un grande debito di riconoscenza. Perché sono stati loro a traghettarci nella democrazia, a mantenere viva la speranza, a tenere in conto più la libertà che la loro vita.
Da epigoni, da nani che siedono sulle spalle dei giganti, tocca a noi raccogliere quell'eredità.
Spetta a noi riprendere in mano quei vecchi valori che non si possono mai considerare acquisiti una volta per tutte: l’uguaglianza delle opportunità a prescindere dalla classe sociale, la giustizia non solo teorica, la libertà senza censure, la partecipazione.
È questo il bagaglio che la Resistenza ci ha portato fin qui.
Mettendo in contatto le esperienze e le generazioni, dobbiamo fare in modo che questo patrimonio non venga disperso, perché ne andrebbe del futuro di tutti noi.
 
Buona festa a tutti
Alessandro Andreatta
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