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Bob Dylan a Trento in stato di grazia – Di Luca Pontoni

Pubblichiamo un secondo articolo sullo spettacolo di Bob Dylan di ieri, del collega Marco Pontoni per il suo blog «My space»

Bob Dylan in stato di grazia, ieri a Trento, di nero vestito, come il resto della band, sei corvi del rock blues per un concerto tirato ed energico, lontano da qualsivoglia tentazione autocele-brativa.
E come potrebbe autocelebrarsi un autore che in fondo ha sempre coltivato - assieme all'ispirazione poetica (che gli è valsa il Pulitzer) - un animo «dark», molto lontano dall'ottimismo hippy a cui ancora la leggenda del «menestrello pacifista», vorrebbe ricondurlo? Dylan non è - non è mai stato - consolatorio: e anche quando si chiedeva quando le palle di cannone avrebbero smesso di volare fra un fronte e l'altro sapeva benissimo che la risposta è fatta di vento.

Lo show è iniziato con «Tweedle dum, Tweedle dee», dal penultimo, splendido «Love and theft» («amore e ruberia»), per proseguire con un evergreen, «Lay lady lay»; quiindi, macinando rock blues (Dylan era alla tastiera, come accade ormai da anni) ha inanellato brani recenti (su tutti una strepitosa «Summer night») e classici come «Ballad of a thin man» (forse la migliore della serata), «Higway 61», «Dont think twice, it's all right», una «It's all right, ma'» molto rock (un po' simile alla versione del live «At Budokan»).
Nel bis è arrivata persino «Blowin' in the wind», giustamente stravolta.

Ma un concerto è anche l'occasione per osservare il comportamento della gente, a volte davvero sorprendente. Fino a un secondo prima dell'inizio del concerto l'organizzazione era stata impeccabile: appena Dylan è comparso, una parte del pubblico si è scaraventata sotto il palco, come un branco di vergini in calore venute a vedere uno spettacolo di Lenny Kravitz. Ovviamente, che la gente si alzi per ballare ad un concerto rock è cosa normale, ma un'invasione del genere non se l'era aspettata nessuno, anche perché Dylan è un cantante «da ascolto». A quel punto, tanto valeva alzarsi tutti e guardare lo spettacolo in piedi: ma la gente che aveva pagato 55 euro per le poltrone sotto il palco non si rassegnava: è iniziata così una gazzarra a colpi di palle di carta (il giornale L'Adige, regalato a tutti gli spettatori) che ha distratto non poco chi era interessato alla musica e non al tirassegno. Ma tant'è: molti probabilmente erano venuti al concerto attirati dal mito, o dall'evento. Altri (come i capetti del centro sociale Bruno) plaudivano alla gioiosa anarchica sovversione, che «sembrava di essere a un concerto punk degli anni sessanta» (sic! qualcuno spieghi a Donatello Baldo che il punk è nato nel 1976, per favore).

Dylan, implacabile sfinge - la voce di carta vetrata, il sorriso beffardo, «l'occhio che vede tutto e si sposta su una nuvola nera», avrebbe detto Ginsberg - non ha fatto una piega. Del resto, perché avrebbe dovuto? L'artista naviga alto sopra alle cose del mondo, canta nel cuore del ciclone e prende al laccio le comete. Tuttavia, alla fine, si è sciolto un «grazie amici».

Marco Pontoni

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