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«Coriandoli rossi» – Di Paola Gabrielli

Riprende una tradizione del nostro giornale: il Racconto della settimana

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Erano passati tre anni dall’ultima volta che avevo visto Anna e non immaginavo che fosse diventata così bella.
Aveva tredici anni, mentre io quindici.
Passavamo le vacanze estive dai nonni in campagna. Lei abitava a Milano; io a Borgoscuro in Toscana.
Era lì, ritta sull’uscio di casa, la mano aggrappata al batacchio della campanella in bronzo. Notai come le sue gambe si erano fatte lunghe e sottili. Si vedevano in controluce, avvolte nella gonna bianca a balze, di cotone leggero.
 
Mi ricordai che la chiamavo la gazzella. Nelle gare di velocità infatti, mi batteva sempre: aveva la capacità di mangiarsi la polvere e bruciare il terreno a falcate. Quando Anna aveva un obiettivo in mente, ci sputava sangue pur di realizzarlo.
Alzò il piede destro, stretto alla caviglia da legacci in pelle chiara e si grattò la gamba sinistra.
«Ricki» – mi chiamò.
Le sue labbra rosso-vermiglio si schiusero come un bocciolo di rosa nel pronunciare il mio nome.
Avanzai lungo il corridoio di mattonelle blu e mi avvicinai. Il sole illuminava il pavimento, tanto che dovetti schermarmi il viso con la mano per non esserne accecato.
«Sei proprio tu Anna?» – le chiesi con voce scomposta.
 
Mi sentivo imbarazzato. Anna non era più la bambina che conoscevo. La testa piegata le faceva ricadere di lato i lunghi capelli biondi.
«Sei diventato così alto!» – Anna mi squadrò dall’alto al basso con stupore, poi girò su stessa e mi abbracciò. Sentii i suoi capezzoli turgidi premere sul mio petto magro. Qualcosa mi si mosse.
Anna si scostò dal mio corpo, puntando le mani ai fianchi: «Io ero Cenerentola e tu il mio principe azzurro, ti ricordi?»
Mi ricordavo.
 
Io, Anna e mia sorella maggiore, Margherita, ci divertivamo col cabaret serale a cui erano invitati nonni, zii ed amici. Col ricavato della serata ci facevamo un giro di gelati al bar e questo ci bastava, allora, per essere felici.
Ci davamo forza prima dello spettacolo, mangiando caramelle e zuccherini. Quando Margherita annunciava il mio nome, sentivo cedere le gambe e mi si formava un groppo in gola.
Non volevo cantare. Mio papà mi diceva che ero stonato. Anna invece faceva di tutto con la stessa disinvoltura.
Una tenda rossa ci divideva dal mondo degli adulti.
Sentivo così lontano quel tempo.
 
Entrammo in casa e la portai nella cameretta, la stanza dei giochi.
Non era molto grande, ma era accogliente. Di fronte, addossati alla parete, c’erano il tavolo con il computer e la libreria che arrivava fino al soffitto; nel mezzo la finestra, ricoperta da un pesante tendaggio.
Anna si buttò di peso sul letto in ferro battuto, facendo sobbalzare il materasso. Guardò il soffitto per alcuni secondi, poi si inginocchiò e allungò il braccio verso la mensola, afferrando Motzi, il gatto di peluche; si girò di scatto e me lo lanciò. Motzi finì sopra l’armadio senza che io facessi nulla per schivarlo. Scoppiammo a ridere.
Notai che Anna aveva denti bianchissimi e regolari, a parte l’ incisivo superiore destro leggermente inclinato che le conferiva un’aria sbarazzina.
 
«Come va a scuola?» – Mi chiese.
«Na» – risposi, infilando le mani in tasca e abbassando lo sguardo.
Frequentavo il primo anno del liceo; lo avevo scelto così a caso, tanto per riempire il tempo, perché ancora, non sapevo cosa farne della mia vita.
Anna invece avrebbe fatto la giornalista. Lo aveva sempre detto.
«Ci dovrò passare anch’io», disse ricomponendosi seduta sul letto e lisciando la gonna di pizzo bianco.
«Si, ma per te sarà diverso.»
 
L’occhio mi cadde sulla fotografia di noi due vestiti da Zorro e Cenerentola, abbracciati a passo di valzer. Stava lì sul comodino, accanto alla lampada di vetro.
La presi in mano.
«Che ne dici se la strappo?»
Anna mi guardò sgranando gli occhi verdi. «Non farlo» – gridò.
Le sue parole mi scivolarono come acqua sulla pelle. Presi la forbice dalla scrivania e l’affondai proprio lì nel mezzo, tra i nostri corpi, riducendoli a brandelli; poi feci cadere a terra i pezzi e presi a calpestali con forza, tanto da ridurli ad un tappeto di coriandoli rossi.
Anna vi si gettò sopra, strappandoli alla mia foga: «Smettila», singhiozzava.
Non avevo il coraggio di guardarla. Uscii dalla stanza e scesi le scale che portavano al piano inferiore.
Incontrai il nonno, sporco di campagna. Teneva lo sguardo basso, perso nei suoi pensieri e non si accorse così delle mie lacrime.
Meglio così, pensai, ad un uomo non è concesso di piangere.
 
Rividi Anna dopo tre giorni.
Era un pomeriggio caldo, di quelli in cui senti piombare addosso la noia del dopopranzo e cerchi di riempire il tempo con un tiro al pallone o una grattata alla pancia.
Mi rosicchiavo le dita seduto sul muretto della piazza del paese, rimuginando su cosa fosse più giusto fare.
Sentivo di voler rivedere Anna. Saltai giù dal muretto e corsi da lei.
La sua casa dava su di un vicolo stretto, di quelli in cui le case si guardano le une nelle altre.
Vidi Anna dalla finestra aperta sulla strada. Era in cucina e mi dava in parte le spalle. In mano teneva un mestolo di legno ricoperto di crema, che leccava con delizia, piccando fuori la lingua.
Facendo forza sulle braccia, mi sedetti sul davanzale della finestra, portando le gambe a riccio nel tentativo di non far cadere la pianta di geranio che stava di fronte.
 
«È rimasto qualcosa anche per me?» chiesi.
Notai che alcuni petali erano sparpagliati sul pavimento della cucina.
Anna sobbalzò sentendo la mia voce. «Non lo meriti».
Poi portò lo sguardo a terra sui petali rossi e mi chiese «Potresti raccoglierli?»
Le parole mi si fermarono in gola come quando da bambino dovevo cantare in pubblico e non riuscivo a dire nulla.
Sul tavolo c’era la nostra fotografia. Anna aveva ricucito i pezzi con lo scotch.
«È stata tua nonna a darmela, – mi disse, affrettandosi a prenderla e nascondendola dietro la schiena. – Le avevo detto che non ci tenevo a questo stupido ricordo d’infanzia, ma lei, sai, è fatta così.»
«Già, – l’interruppi. – È proprio uno stupido ricordo d’infanzia.»
 
Saltai in cucina. Mi accovacciai a terra e feci una montagnola con i petali di geranio, poi li presi in mano e li strinsi nei pugni fino a sentire male.
Mi alzai e mi diressi verso Anna. Le presi il viso tra le mani, annusai il suo profumo di caramello e le sporcai le guance di rosso.
Anna stette lì, senza dire una parola, con i petali stropicciati sul volto. Aveva gli occhi sbarrati e respirava a fatica.
Si vedeva che tratteneva a stento le lacrime. Avrei voluto abbracciarla in quel momento, ma mi sentivo così vile.
Mi strofinai le mani l’una sull’altra, così da pulirle dai rimanenti petali e scappai dalla finestra così come ero entrato.
Sapevo che Anna mi adorava, ma io, non ero alla sua altezza. Ero solo un ladro di sogni.
 
Paola Gabrielli 
 

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