Home | Pagine di storia | Alcide De Gasperi | Lectio Degasperiana/ 2 – Di Marco Mondini

Lectio Degasperiana/ 2 – Di Marco Mondini

«Silenzio delle patrie e fedeltà trentina – De Gasperi nella prima guerra mondiale»

image

>

«Una svolta della storia»
De Gasperi e la Grande Guerra
di Maurizio Cau

Poco oltre questa valle, dove il Lagorai incontra il gruppo delle Pale, nell’agosto del 1919 De Gasperi andò in cerca delle ferite che la guerra aveva inferto alle sue montagne. Le impressioni che ricavò camminando lungo trincee e baraccamenti le riportò, con malcelato turbamento, in una pagina del Nuovo Trentino: «L’alpinista, a cui tutti questi gran massi di dolomia o di porfido erano divenuti famigliari, quasi amici, […] sente ora con amarezza che l’incanto è rotto: l’occhio e il pensiero non riposano più, e da tutte le trincee insanguinate […] vengono su […] delle nebbie che oscurano e pesano e nelle quali tratto tratto pare baleni una luce vermiglia. […] Io penso alla tragedia di migliaia d’uomini su queste montagne e sento quasi odio contro codesta superbia sprezzante dei nostri destini, contro codesta matrigna fredda e muta che beve impassibilmente colle radici dei suoi boschi i succhi dei nostri morti».
Il solco che la guerra aveva tracciato tra le nazioni stravolgendo l’esistenza di milioni di uomini aveva straziato la stessa natura. L’incanto era rotto e il raccoglimento nell’aria rarefatta dei monti non garantiva più, come un tempo, la via di accesso ad altre altezze. Le ferite che percorrevano i ghiacci della Marmolada o le dorsali del Colbricon e di Juribrutto stavano lì a ricordare il carattere di spartiacque rappresentato dalla guerra mondiale appena conclusa. In De Gasperi non si trattava di una consapevolezza postuma. Nel politico trentino la sensazione di vivere sull’orlo di un’epoca in procinto di strapparsi era stata vivida ben prima dello scoppio del conflitto.
Questo mio intervento può allora partire da lì, dalle riflessioni maturate da De Gasperi negli anni in cui la febbre militarista andava spingendo il continente verso il baratro. Nella cultura e nel discorso pubblico europei il tema della guerra aveva avuto uno spazio di riguardo ben prima che scoppiasse la guerra universale. È vero, si viveva - per dirla con le notissime parole di Stefan Zweig - nell’«età d’oro della sicurezza», ma nell’intero continente tiravano ormai da tempo venti di guerra.

La forte spinta al riarmo promossa sul principio del secolo dalle potenze occidentali suggerì a De Gasperi l’approssimarsi di foschi scenari. In un emblematico articolo apparso sul Trentino nell’agosto del 1908 e intitolato La guerra universale del 191…, egli si spingeva a prevedere lo scoppio di un conflitto mondiale nel periodo compreso tra il 1911 e il 1914, e con esso un rivolgimento epocale dell’ordine politico internazionale: «Non poche ragioni - sottolineava - permetterebbero […] agli astrologhi dell’avvenire di profetizzare il prossimo decennio come uno dei più importanti e decisivi della storia del mondo». I programmi militari delle maggiori potenze inducevano a ritenere che di lì a un lustro, anno più anno meno, gli Stati si sarebbero detti pronti alla guerra. «Se questa avverrà - chiosava De Gasperi - nessun profeta può assicurare. Ma è certo che quell’epoca sembra già segnata sin d’ora come quella di una terribile scadenza, come una data fatale e catastrofica per la povera umanità, come quando nei secoli remoti si profetizzava la fine del mondo».
Non si vuole con questo enfatizzare le doti di preveggenza del politico trentino. Che le spericolate corse agli armamenti e le frizioni sempre più evidenti tra le maggiori potenze europee potessero sfociare in un conflitto dai risvolti universali era infatti assai chiaro a molti osservatori. Per una parte significativa del mondo intellettuale e delle élites politiche e militari si trattava addirittura di uno scenario verso cui tendere con favore.

«No - sosteneva per contro De Gasperi in un articolo in cui illustrava il potenziale distruttivo delle nuove armi - la guerra moderna è troppo brutta per farla anche quando non è necessaria».
L’Europa, «al colmo della civiltà contemporanea», muoveva i propri passi sull’orlo dell’abisso, stretta in una sorta di contagio collettivo alimentato dal nazionalismo imperialista e dall’idea che la guerra potesse essere un fattore di rigenerazione civile: «Tutti parlano di cannoni, di obici, di mitragliatrici - annotava De Gasperi - di anime e di calibri, di corazze e di cotone fulminante con la massima disinvoltura e con la più grande competenza del mondo. Se vi trovate in un circolo d’amici e vi rivelate poco sicuri nella balistica, correte il pericolo di passare per un ignorante tanto fatto […]. Ecco che cos’è la società moderna, o idealisti impenitenti!».
Se quella che si sarebbe aperta di lì a poco era, come si scrisse, «una guerra che nessuno aveva voluto, né i popoli, né i governi, […] una guerra guizzata fuori dalle mani maldestre dei diplomatici contro le loro stesse intenzioni», non si può certo dire che non fosse stata preparata da anni di appassionata retorica militarista, la quale avrebbe spinto molti intellettuali, pur sorpresi di fronte all’effettivo scoppio del conflitto, a giustificarla considerandola - come fece Musil - «una catastrofe necessaria alla esplosione finale della condizione in cui versava l’Europa».

Allo scoccare dell’«ora tragica», la consapevolezza della drammaticità del momento fu espressa da De Gasperi con preoccupata asciuttezza: «Siamo ad una svolta della storia - scriveva il 3 agosto del 1914 dalle colonne del Trentino. - Ognuno cerchi di affrontare l’ora che corre con fermezza d’animo». La «scintilla balenata d’improvviso» che sgretolava in un «incendio divoratore l’edificio eretto a fatica dalla diplomazia europea e dalle dottrine pacifiste» sanciva la supremazia delle ragioni della guerra, aprendo uno scenario imprevedibile il cui «mistero» era ricondotto da De Gasperi entro un’ottica anzitutto religiosa: si apriva «l’ora di Dio», quel «Dio che è tutto quando nulla più rimane» e che nelle convinzioni del politico trentino non sarebbe potuto che risultare, alla fine delle ostilità, l’unico vero vincitore.

La storiografia, supportata in questo dalla copiosa letteratura bellicista prodotta in quei mesi, ha restituito l’immagine convenzionale di una diffusa euforia che avrebbe attraversato la società asburgica allo scoppio del conflitto. Le parole con cui De Gasperi accompagna dalle pagine del giornale la partenza del primo reggimento di Kaiserjäger trentini non indugiano in vero su toni particolarmente festosi, limitandosi a descrivere il saluto cordiale e commosso che la popolazione tributava, tra distribuzione di vino, birra, sigarette e fiori, ai propri figli in procinto di partire per i campi di Galizia.
Al netto del turbamento spirituale che De Gasperi declinava entro un orizzonte religioso, il suo contegno all’indomani dell’avvio delle ostilità fu caratterizzato da prudenza e attesa. La guerra complicava non poco la condizione, già assai delicata, del Trentino (o del Tirolo del Sud, come veniva chiamato dalle autorità imperialregie, poco inclini a riconoscere la specificità nazionale delle vallate trentine). Le voci di un possibile coinvolgimento dell’Italia nel conflitto rendevano ancor più complesse le condizioni della realtà trentina, percorsa già da anni da accesissime tensioni nazionali.

In questa cornice De Gasperi, che pur entro un’ottica sostanzialmente filotriplicista sottolineava il ruolo tutt’altro che attivo che il Trentino poteva svolgere in quel frangente, si attivò per tutelarne gli interessi, tentando anzitutto di comprendere le possibili conseguenze che i precari equilibri internazionali proiettavano su un Trentino sempre più zona di confine.
A orientare le posizioni degasperiane erano sul piano ideale l’antibellicismo difeso con vigore dalla Chiesa romana, su quello più squisitamente politico la convinzione che con un netto schieramento per una delle due parti il Trentino avrebbe rischiato di compromettere ulteriormente una situazione già di per sé assai gravosa.
I due viaggi che De Gasperi intraprese a Roma nell’autunno del 1914 sono da inserire in questo contesto, che il deputato fronteggiò con una buona dose di «realismo politico», dote che com’è noto non gli fece mai difetto. In settembre incontrò l’ambasciatore di Vienna a Roma Karl von Macchio, con cui discusse della situazione trentina; entrambi gli interlocutori erano in cerca di rassicurazioni: Macchio della buona disposizione d’animo dei trentini nei riguardi della Corona e delle informazioni che il deputato avrebbe potuto condividere coi suoi contatti vaticani, De Gasperi del carattere circoscritto delle eventuali misure militari che avrebbero interessato la regione nei mesi a seguire.
Il 18 novembre 1914 incontrò Benedetto XV, al quale trasmise la preoccupazione e la pena della sua gente di fronte al possibile sviluppo degli scenari del conflitto. Favoriti dalla relativa libertà che veniva a De Gasperi dall’attività svolta per la Commissione per l’approvvigionamento alimentare del Tirolo del Sud, questi colloqui personali (avvenuti con ogni probabilità d’intesa col vescovo Endrici) testimoniano il tentativo di De Gasperi di adoperarsi per preparare il campo alle conseguenze che il corso imprevedibile degli eventi avrebbero avuto sulla popolazione trentina.

Due altri colloqui sembrano confermare questo delicato ruolo ricognitivo svolto da De Gasperi, pur senza particolari investiture, in quei mesi. Nel febbraio del 1915 incontrò Friedrich Funder, l’influente direttore della Reichstpost con cui era in amicizia da anni, per raccogliere informazioni intorno alla veridicità delle ipotesi di cessione del Trentino all’Italia in cambio della neutralità di quest’ultima.
In quell’occasione, così come era avvenuto nei colloqui con Macchio, De Gasperi dava conferma del carattere pienamente lealista della gente trentina («il 95% della popolazione italiana del Tirolo del Sud - sosteneva il deputato cattolico - propende a causa dei suoi naturali interessi verso l’Austria alla quale ha appartenuto attraverso i secoli»); al di là della precisione (difficilmente misurabile) della percentuale riportata da De Gasperi, si tratta di un dato che vale la pena tenere a mente, perché alla fine del conflitto le sue dichiarazioni sulla fedeltà dei trentini alla Casa imperiale sarebbero mutate sensibilmente di segno, a dimostrazione di quanto gli sconvolgimenti della guerra e le misure repressive che sul fronte interno ne accompagnarono lo svolgimento incisero sulle sorti dello spirito nazionale del Trentino.

Il mese seguente De Gasperi fu nuovamente a Roma, dove incontrò il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, al quale fornì un quadro del carattere nazionale dei territori trentini in vista di un loro possibile passaggio al Regno d’Italia. Accanto ad «alcuni frementi per l’italianità», De Gasperi segnalava prudentemente l’esistenza di «molti più calmi, ma non male disposti», preoccupati però per il destino dei loro interessi materiali.
Gli argomenti utilizzati dal deputato erano in parte gli stessi usati nei colloqui precedenti (le condizioni del clero locale, la difficile situazione del commercio del vino, i problemi dei soldati trentini nell’esercito austriaco), ma qui l’accento cadeva sull’incertezza dei risultati di un eventuale plebiscito e sulla necessità di prevedere, nel caso di un’annessione, i giusti «temperamenti» per compensare i gravi disagi che sarebbero occorsi ai trentini.

Del passaggio del Trentino all’Italia per sventare il suo ingresso nel conflitto non se ne fece infine nulla e il 24 maggio l’Italia entrò in guerra al fianco dell’Intesa. Ovviamente ciò complicava di molto la situazione del Trentino, che passava sotto il controllo delle autorità militari asburgiche, le quali non brillavano certo per sentimenti filoitaliani.
Il «tradimento» del vecchio alleato non faceva che confermare, dando loro nuova linfa, i pregiudizi dei comandi militari asburgici nei riguardi dei «Welsche» (il termine con cui venivano apostrofati i trentini). Il Tirolo del Sud dovette così scontare un inasprimento delle misure di controllo e di repressione da parte dell’autorità militare austriaca, che alla minoranza nazionale di lingua italiana riservò un trattamento di chiara impronta discriminatoria.

De Gasperi fu un attento osservatore di questo processo di recrudescenza del sentimento anti-italiano, che portò a identificare lo spirito nazionale della popolazione trentina come un’espressione del suo carattere univocamente irredentista.
Ovviamente così non era, ma proprio la profonda ostilità manifestata negli anni del conflitto dalle autorità politiche e militari nei riguardi dei soldati e dei civili trentini fu all’origine di una significativa torsione del sostanziale lealismo che - pur con tutti i distinguo del caso - li aveva fin lì tenuti uniti alla causa imperiale.
Durante la guerra l’impegno di De Gasperi si indirizzò alla tutela dei diritti dei trentini e alla difesa dell’identità italiana del Tirolo del Sud, che andava conoscendo il dramma della guerra in tutte le sue forme: non solo quelle legate alla crudeltà dei combattimenti, ma quella, non meno gravosa, dell’esodo provocato dall’evacuazione forzata dei civili dalle zone di guerra, senza dimenticare naturalmente le esperienze di internamento e di confino riservate a coloro che venivano sospettati di simpatie irredentiste.

Privo dell’immunità parlamentare a seguito della sospensione dei lavori del Parlamento, De Gasperi evitò quella sorte riparando a Vienna, dove fu coinvolto nelle attività del Comitato di soccorso per i profughi meridionali. I mesi a venire sarebbero stati dedicati interamente all’assistenza dei profughi e degli internati trentini. Come testimoniano le scrupolose relazioni redatte per il Bollettino del Segretariato per Richiamati e Profughi, l’impegno per alleviare il disagio in cui versava la propria gente fu incessante e si pone in linea di continuità con l’attività che negli anni precedenti aveva svolto, su un piano politico, a difesa degli interessi degli italiani d’Austria.
L’attività ispettiva a supporto dei profughi metteva in piena evidenza agli occhi di De Gasperi l’amaro paradosso che trasformava i trentini, sudditi austriaci con figli e mariti al fronte, in sorvegliati speciali. Si trattò di un momento di svolta nell’azione politica del deputato trentino.
Come ha sostenuto Paolo Pombeni, «la situazione che De Gasperi registrava dal suo osservatorio […] era sempre più difficile. Se non si tiene conto di questa svolta, non si capisce né l’autentico crollo del legittimismo asburgico presso la popolazione […] né la posizione che alla fine De Gasperi prenderà di convinta rottura con quel sistema che, alla luce della prova bellica, si era rivelato non modificabile e ormai dominato dal nazionalismo austrotedesco».
Le vessazioni imposte ai civili e ai soldati trentini da parte delle autorità imperialregie svolsero, in altre parole, un ruolo centrale nell’evoluzione dello spirito nazionale trentino, che se prima del conflitto «non era stato necessariamente irredentismo, adesso avrebbe finito inevitabilmente per diventarlo».

A subire una significativa evoluzione è, dunque, il principio stesso della cosiddetta «coscienza nazionale positiva» attorno a cui De Gasperi aveva tentato di plasmare sull’esordio del secolo lo spirito nazionale dei cattolici trentini. In quell’espressione il deputato trentino condensava l’atteggiamento politicamente responsabile dei cattolici, «intenzionati a fare una battaglia decisa in difesa degli italiani, ma non al modo dei liberali che fanno della politica nazionale negativa».
In un articolo apparso sul Trentino nel marzo 1908 così la definiva: «S’intende con ciò la creazione di un sentimento di affetto e di attaccamento alla propria nazionalità, uno stato d’animo duraturo che non produca solo degli scatti di ribellione quando la nazionalità è evidentemente minacciata, né si limiti all’attività di forma negativa di respingere gli attacchi. La cooperazione al risorgimento economico del paese e una collaborazione integrale alla ricostituzione e all’aumento di tutti i nostri beni nazionali è il lavoro nazionalmente migliore che si possa fare. La nazionalità viene così intesa nel suo senso ampio e vero, e ne viene bandito il concetto piccino che la limita alle lotte linguistiche».
In questo senso, e solo in questo, era praticabile per De Gasperi l’opzione irredentista, dove l’obiettivo non risiedeva nella rottura del nesso asburgico, ma nell’ottenimento di forme di autonomia e di misure per lo sviluppo economico del Trentino.
Si trattava, in tutto e per tutto, di una «redenzione» da perseguire – le parole sono di De Gasperi – «in cospetto della costituzione austriaca», e che agli italiani d’Austria garantisse dunque non solo i doveri, ma anche «tutti i diritti della sudditanza austriaca». Ecco, questa forma di «coscienza nazionale positiva» o - se mi permettete l’ossimoro - di irredentismo legittimista, veniva profondamente compromessa dall’esperienza della guerra, che con le sue devastanti conseguenze sulla vita dei trentini imponeva alla strategia politica degasperiana un significativo rimodellamento.

La riapertura del Parlamento avvenuta nel maggio del 1917 fornì a De Gasperi l’occasione per rivendicare con forza le condizioni di grave difficoltà in cui versava la sua gente. L’energia con cui il deputato condannava pubblicamente le misure eccezionali che avevano interessato i trentini non lascia spazio a dubbi circa la coloritura che andava progressivamente prendendo un sentimento nazionale, il suo, in cui la conciliazione tra difesa dell’identità italiana e rispetto dell’autorità imperiale era messa sempre più a dura prova.
Ad essere attaccati apertamente erano la persecuzione dei “politicamente sospetti” (categoria oltremodo ampia), le discriminazioni compiute nei riguardi degli internati, la mancata sorveglianza degli abusi di potere esercitati nei campi profughi, la condotta «dura e indegna» riservata ai confinati, lo «spirito maligno» annidato nelle misure di assistenza ai profughi, i quali erano stati – queste le parole di De Gasperi - «evacuati, instradati, perlustrati, approvvigionati, accasermati, come se non avessero alcuna volontà propria, come se non avessero alcun diritto».
Il «sistema orribile dell’evacuazione» era peraltro aggravato dalle misure restrittive che colpirono la stessa classe dirigente trentina, lasciando i profughi privi delle figure di riferimento che ne potevano tutelare gli interessi; «Internando, confinando, esiliando le persone direttive del paese - ammoniva amaramente De Gasperi, - [l’autorità] creò intorno ai profughi l’isolamento». Impossibile non leggere in questo imponente insieme di misure una vera e propria azione di persecuzione etnica o, come avrebbe detto De Gasperi, un tentativo di «eliminazione dell’elemento italiano».

Il discorso pronunciato il 28 settembre 1917 nel corso del dibattito sulla legge finanziaria provvisoria è attraversato da toni particolarmente aspri. Ancorché noti, vale la pena richiamare un paio di passaggi, perché rivelano i contorni sempre più severi delle posizioni di De Gasperi, il quale vedeva sfilacciarsi sempre più il legame che univa la causa trentina al contesto istituzionale imperialregio.
«Se il dibattito si dovesse occupare soltanto del bilancio statale – dichiarava De Gasperi. – rinuncerei alla parola, poiché non ci si può aspettare da qualcuno, la cui casa è stata incendiata o saccheggiata, che si occupi anche del bilancio pubblico e io mi rifiuterei di mantenere la finzione, come se un popolo che nella prassi viene trattato come un popolo nemico, come un popolo conquistato, nel contempo possa come parte alla pari attraverso i propri rappresentanti avere voce in capitolo e partecipare alle decisioni sull’amministrazione di tutto lo Stato. Ma questa tribuna è l’ultimo luogo libero che ci è rimasto dopo la soppressione di ogni libertà civile a casa, e d’altro canto sarebbe un peccato privare il governo della comparazione tra i bei principi del suo programma e la prassi delle sue autorità locali, militari e amministrative».
La chiusa dell’intervento era altrettanto netta, e faceva presagire che il prevalere del nazionalismo austrotedesco nell’indirizzo politico asburgico avrebbe condotto inevitabilmente al crollo del legittimismo su cui si era fin lì retto l’impero multinazionale; richiamandosi a Schiller, De Gasperi dichiarava: «Noi possiamo tranquillamente dire col grande poeta tedesco: “Lasciate crescere il conto dei tiranni, finché un giorno si pagherà in una sola volta il debito generale e particolare”. […] Questo giorno deve arrivare e arriverà. Un risultato sicuro di questa guerra è già stabilito e ha preceduto la decisione sui campi di battaglia, è la vittoria del principio della democrazia nazionale».

Con la guerra la tutela delle differenti minoranze nazionali intorno a cui si era cementato il carattere multietnico dell’Austria-Ungheria andò irrimediabilmente in crisi, preannunciandone la progressiva dissoluzione. Negli interventi parlamentari di quei mesi De Gasperi continuò a stigmatizzare il completo abbandono delle sorti del Trentino alla nazione dominante (quella tedesca), che dopo i successi di Caporetto aveva ulteriormente esacerbato il proprio contegno anti-italiano. La linea parlamentare seguita dai deputati cattolici trentini era così segnata, e si esprimeva nella «piena rivendicazione dell’autonomia delle nazionalità».

Nell’ottobre del 1918 il dibattito parlamentare si concentrò sul tema del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Con tono vibrante De Gasperi intervenne ripercorrendo nuovamente i contorni del «martirio» subito dai trentini.
Anche in questo caso consentitemi un paio di brevi citazioni, che ben testimoniano i contorni che la battaglia di difesa nazionale aveva preso in quei frangenti: «Ogni qual volta durante questa guerra mi sono alzato in piedi in questa camera come rappresentante del Trentino, ho sentito nel mio animo la voce ammonitrice della coscienza che mi gridava: come puoi, prendendo la parola dalla tribuna parlamentare, fare credere a te stesso di essere un libero rappresentante di un libero popolo, mentre in realtà il tuo popolo vive in schiavitù politica e tu stesso a mala pena godi degli elementari diritti di cittadino?».

Sulle conseguenze che «l’orientamento tedesco radicale» aveva avuto sul sentimento di appartenenza dei trentini all’Austria-Ungheria, De Gasperi si espresse con misurato vigore; le sorti della guerra non erano segnate e il deputato trentino non poteva non conservare qualche tratto di prudenza, ma le sue posizioni erano ormai più che esplicite: «E se noi dovessimo distaccarci da questa unione statale, allora il governo e i partiti tedeschi dovrebbero chiedere alla loro coscienza se non hanno fatto tutto il possibile per renderci più facile questo passo».
Nei giorni seguenti un giornale viennese interpretò l’intervento di De Gasperi come «un leggero congedo dall’Austria».
E di quello, nei fatti, si trattò. A renderlo ancor più esplicito fu l’intervento dell’11 ottobre, l’ultimo pronunciato al Reichsrat, in cui il politico trentino dichiarò che di fronte all’opera di costrizione esercitata negli anni dalle autorità civili e militari dell’Austria-Ungheria «la popolazione trentina si attende dalla conclusione della pace il riconoscimento del principio nazionale e la sua effettiva applicazione per gli italiani viventi attualmente in Austria.
«È inoltre convinta - aggiungeva - che il governo austro-ungarico, in quanto ha aderito ai 14 punti di Wilson, abbia già da parte sua riconosciuto questo punto di vista. Nel caso però si decidesse per un plebiscito, stiano pure tranquilli […] che la stragrande maggioranza della popolazione italiana, se la dichiarazione della propria volontà potesse avvenire in modo veramente libero da misure coercitive, approverebbe senz’altro questo punto di vista e lo confermerebbe con piena convinzione».

Se pensiamo allo scenario incerto in cui De Gasperi si era mosso nei mesi della neutralità italiana e che lo aveva portato ad assicurare all’amico Funder e all’ambasciatore austriaco a Roma che la gran parte dei trentini «propendeva verso l’Austria», ci troviamo in un paesaggio ribaltato.
Naturalmente le sorti di un eventuale plebiscito per determinare il passaggio del Trentino all’Italia non erano affatto certe, ma quel che qui conta è registrare il mutamento radicale delle posizioni ufficiali che sul finire della guerra il cattolicesimo politico trentino andava esprimendo in ordine alla tenuta del nesso asburgico. Non era cambiato nulla nell’atteggiamento di rivendicazione della specificità nazionale delle terre a sud di Salorno promossa dai deputati cattolici, ma la radicalizzazione della contrapposizione tra il gruppo dominante e la minoranza italiana aveva profondamente ridefinito l’orizzonte di quella strategia politica, che sarebbe in breve giunta allo strappo con l’Austria-Ungheria.

I fatti che seguirono sul finire di ottobre del 1918 sono noti. Il 24, su proposta di De Gasperi, i deputati italiani si costituirono in «fascio nazionale». Le parole pronunciate da Conci il giorno seguente a nome del gruppo sancivano anche formalmente la fine dell’esperienza trentina nella doppia monarchia: «Tutte le regioni italiane finora soggette alla monarchia austro-ungarica, niuna eccettuata, - dichiarava Conci - sono da considerarsi staccate dal nesso territoriale della stessa, per cui i deputati italiani non hanno punto il compito di addivenire a trattative col governo austriaco e coi rappresentanti delle altre nazionalità al presente soggette all’Austria per un nuovo assetto dello Stato».

Il ricongiungimento delle terre irredente alla Nazione apriva, per De Gasperi e per i trentini, un nuovo capitolo. Sappiamo che non sarebbe stato un percorso privo di difficoltà e di delusioni, ma quel che mette in conto notare è che l’azione politica degasperiana si sviluppò nel dopoguerra in linea di continuità con quella degli anni asburgici, a partire dalla strenua difesa degli interessi della propria gente e dalla rivendicazione di forme di autogoverno per la propria terra, in nome - per usare le parole di un suo intervento del novembre 1918 apparso sul Nuovo Trentino - dell’«esplicazione d’un trentinismo pratico, il quale non vuole certo essere spirito di gretto localismo, quanto invece proposito di dare all’Italia nel giorno della pace definitiva non un paese sgretolato e atomizzato, ma un organismo ordinato, capace di vivere da sé».
Non ci è possibile ripercorrere in maniera articolata il peso che l’esperienza bellica esercitò nell'azione politica degasperiana degli anni a venire, ma qualche riflessione è comunque opportuno svolgerla.
L’immagine della guerra come spartiacque della storia tornò a più riprese nella sua riflessione. Vi si riferì come ad una sorta di aratro capace di «rigare d’un sol solco non solo le terre d’Europa, ma le stesse coscienze», e ancora come ad un «fatto universale in ampiezza, immenso in profondità, e così sostanziale nel suo contenuto politico e nelle sue conseguenze sociali che tutti gli altri scompaiono nell’ombra come purissimi accidenti». Ma quali furono, per De Gasperi, le conseguenze politiche del conflitto?

Secondo il politico trentino la guerra sanciva (o meglio avrebbe dovuto sancire) l’avvento delle democrazie nazionali, fondate sul riconoscimento dell’autodeterminazione dei popoli, sulle forme di autogoverno e sull’allargamento delle strutture dell’obbligazione politica verso una base autenticamente popolare.
Perché la guerra, sosteneva nel giugno del 1919 citando Vittorio Emanuele Orlando, «non fu soltanto un conflitto che apportò modificazioni territoriali, ma anche […] una rivoluzione interna, nel senso che i popoli, dopo di essa, pretendono una maggior ingerenza nel fissare i propri destini». Gli sconvolgenti sacrifici imposti dal conflitto, avrebbe sostenuto reclamando il diritto dei trentini di condeterminare il proprio ordinamento interno, sarebbero stati inutili «senza il trionfo delle nuove idee». Il mondo non era, non poteva più essere, quello che aveva condotto alla tragedia.

Si trattava di riflessioni che, ricondotte entro i confini della battaglia politica concreta, ruotavano in buona parte intorno alla difesa delle istanze autonomistiche, che per De Gasperi avrebbero dovuto definire la cornice del ricongiungimento del Trentino al Regno d’Italia. Ed erano posizioni che si saldavano in buona sostanza a quelle dei cattolici italiani, per i quali la Grande Guerra aveva rappresentato l’occasione di ingresso nella modernità politica.
De Gasperi e il popolari italiani venivano da esperienze sensibilmente differenti, ma avevano lo stesso punto di vista sul potenziale paligenetico che un’esperienza drammatica e non voluta come quella bellica avrebbe esercitato sul mondo contemporaneo.
La guerra, alla quale i cattolici italiani avevano aderito per onor di patria e della quale non volevano essere considerati gli iniziatori, rappresentava anche per il popolarismo sturziano l’apogeo dell’egemonia liberal-borghese. Insieme a turbamento, desolazione e tragedia avrebbe aperto la via a una «nuova era di popoli», fondata su una concezione dello Stato innervata di vitalità democratica.

Nell’esaminare il portato della rivoluzione politica e sociale della guerra il punto di vista di De Gasperi fu tarato, lo si è accennato, anzitutto su quello della realtà trentina. Le conseguenze del conflitto universale sul contesto locale erano del resto evidenti: «Per i trentini - scriveva nel dicembre del 1921 - è mutato il concetto stesso di patria, gli orizzonti si sono allargati, è finito un microcosmo […].
Prima dell’annessione, quando scrivevamo «paese» intendevamo «Trentino» e questo «paese» suddividevamo addirittura in «regioni». Ora, il nostro paese è l’Italia e «regione» è per i più la Venezia […]. Levate in tal maniera le barriere che chiudevano il nostro piccolo mondo antico, si sconnette e vacilla anche il duomo ideale, costruito dalle nostre concezioni storiche ed ambientali; le pareti si allargano e si spostano, la cupola gira e s’inclina». Le «idee sostanziali della nostra tradizione locale - aggiungeva - non muoiono», ma il mutare dei tempi ne avrebbe cambiato in parte le forme.

Del resto la guerra aveva comportato un mutamento radicale a livello mondiale. La politica era diventata «universale». «Quando penso alla politica internazionale degli ultimi cinquant’anni prima della guerra - avrebbe scritto De Gasperi nel 1933 - e la confronto con quella dei nostri giorni mi trovo ottimista di fronte all’avvenire del genere umano […].
Oggi la fatica è immensamente cresciuta, la zona di operazione dei diplomatici e degli statisti si è approfondita all’interno e dilatata all’esterno, in misura appena prevedibile. […] Allora un politico o un diplomatico era grandissimo, se riusciva ad orientarsi e a filar dritto nelle acque europee. Oggi bisogna attraversare gli oceani! La guerra e il dinamismo della nostra epoca hanno moltiplicato, complicato e universalizzato i problemi».
La grande guerra non aveva solo allargato i confini dello spazio politico, ma aveva reso evidente la necessità di un ordine internazionale fondato sulla pace. Nella biografia politica degasperiana l’esperienza della guerra fece anche questo, radicalizzò i suoi convincimenti circa l’importanza di dare forma a strutture politiche e giuridiche capaci di evitare che il mondo ripiombasse nelle tenebre del conflitto universale. Intorno al suo approccio realista si saldarono così le istanze di un pacifismo saldamente ancorato ai principi dell’universalismo cattolico.
 
Non stupisce, pertanto, che l’esperienza e gli insegnamenti tratti dall’inutile strage (primo fra tutti quello dei limiti legati a ogni forma di costrizione e persecuzione delle minoranze nazionali) siano ridondati nell’esame attento che De Gasperi fece della fragilità degli organismi internazionali sorti nel dopoguerra e nell’osservazione dell’incrinatura dell’ordine politico continentale che negli anni Trenta avrebbe progressivamente fatto ripiombare l’Europa in un clima di insicurezza paragonabile a quello sperimentato nei primi anni Dieci.
In questo senso, anche per De Gasperi la «catastrofe primigenia» scatenatasi nel 1914 dovette rappresentare solo l’inizio di quella sciagurata «guerra dei trent’anni» che, secondo la felice intuizione di Raymond Aron, ha segnato la prima metà del XX secolo.
La vita di De Gasperi ha abbracciato l’intero processo che ha portato l’Europa a «trasformarsi da continente carico di tensioni degli stati nazionali autonomi o imperiali […] fino agli inizi della sovranazionalizzazione europea nel segno della guerra fredda»; di questo percorso, che negli anni avrebbe assunto i contorni di un vero e proprio «apprendistato europeista», l’esperienza maturata dal politico trentino nel drammatico frangente della guerra rappresentò fuor di dubbio una tappa emblematica. 

Condividi con: Post on Facebook Facebook Twitter Twitter

Subscribe to comments feed Commenti (0 inviato)

totale: | visualizzati:

Invia il tuo commento comment

Inserisci il codice che vedi sull' immagine:

  • Invia ad un amico Invia ad un amico
  • print Versione stampabile
  • Plain text Versione solo testo

Pensieri, parole, arte

di Daniela Larentis

Parliamone

di Nadia Clementi

Musica e spettacoli

di Sandra Matuella

Psiche e dintorni

di Giuseppe Maiolo

Da una foto una storia

di Maurizio Panizza

Letteratura di genere

di Luciana Grillo

Scenari

di Daniele Bornancin

Dialetto e Tradizione

di Cornelio Galas

Orto e giardino

di Davide Brugna

Gourmet

di Giuseppe Casagrande

Cartoline

di Bruno Lucchi

L'Autonomia ieri e oggi

di Mauro Marcantoni

I miei cammini

di Elena Casagrande