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«La rivoluzione ungherese sessanta anni dopo»

Se ne parlerà in un incontro organizzato da CSSEO alla Biblioteca Civica di Trento alle 17.30 di mercoledì 23 novembre

Il 1956 è stato un anno cruciale del Ventesimo secolo, un anno che ha lacerato il blocco e il movimento comunista internazionale.
A febbraio, nel corso di una seduta a porte chiuse del Ventesimo congresso del PCUS, Nikita Khrushchev legge quello che diventerà noto come il «rapporto segreto» e che segreto resterà solo per poco. Alcuni mesi dopo, dalla Polonia arriverà sulle pagine del New York Times.
Gli effetti del «rapporto segreto» si riverberano sulla Polonia. Soprattutto dopo la rivolta di Poznan il paese è in ebollizione.
Pochi mesi dopo la dirigenza comunista decide di riportare al potere Wladyslaw Gomulka, caduto in disgrazia alcuni anni prima. Mosca minaccia. La dirigenza del partito sovietico, con Khrushchev in testa, e quella del Patto di Varsavia si precipita a Varsavia. La spunteranno i polacchi.
 
La vittoria polacca euforizza l’Ungheria, da mesi in subbuglio.
Imre Nagy ritorna al potere, ma le manifestazioni di piazza si trasformano in un movimento rivoluzionario quando il 23 ottobre 1956 agenti della polizia segreta sparano sui manifestanti che dimostrano pacificamente.
Imre Nagy, travolto dagli eventi, si trova a rincorrere una rivoluzione che non voleva, non aveva promosso né guidò.
Meno di due settimane dopo la rivoluzione sarà schiacciata militarmente da Mosca, che impone il suo proconsole, Janos Kadar.
In realtà Nagy era un comunista, ligio al partito. Dal 1930, in URSS dove era riparato, fino al 1944, quando rientrò in Ungheria, fu anche un collaboratore della NKVD (come si chiamava allora la polizia segreta dell’Unione Sovietica). Insomma, un uomo su cui il Cremlino riponeva la sua fiducia e per questo nel suo paese ricoprì importanti incarichi.
 
Nato nel 1896 nel sudovest contadino dell’Ungheria asburgica, Nagy si convertì al comunismo pressappoco nel periodo in cui i bolscevichi presero il potere nella Russia zarista, mentre era prigioniero di guerra.
In seguito visse da clandestino nell’Ungheria di Horthy, subendo due brevi arresti.
Nel governo provvisorio del 1944-45 fu ministro dell’Agricoltura, legando il suo nome alla riforma fondiaria che nel marzo 1945 dissolse il latifondo, passando poi al Ministero degli Interni, dove si occupò della pulizia etnica dei germanofoni dal paese.
Le sue posizioni tuttavia divergevano da quelle del primo segretario del partito Matyas Rakosi. Finito nel mirino degli stalinisti, venne costretto all’autocritica nel 1949, ma non fu oggetto di repressioni. La vittima sacrificale ungherese invece fu Laszlo Rajk, suo successore al Ministero degli Interni.
Nagy, costretto per qualche tempo all’insegnamento, tornò alla ribalta nel giugno 1953, quando i successori di Stalin, in particolare Lavrentii Beriya, come ricorda Pavel Sudoplatov, lo candidarono a capo del governo, destituendo Rakosi.
Iniziò allora, in Ungheria come negli altri paesi del blocco, il «Nuovo corso».

Si ridussero gli investimenti nell’industria pesante e le spese militari, a favore dell’industria leggera e dell’agricoltura, mitigando i rigori degli anni appena trascorsi.
L’arresto di Beriya a Mosca facilitò l’opera di contrasto e sabotaggio attuata da Rakosi, che in Nagy vedeva un pericoloso rivale. E Rakosi vinse, costringendo nell’aprile 1955 Nagy alle dimissioni. La vendetta si compì nel successivo dicembre, quando venne anche espulso dal partito.
Ma il partito ungherese, come la società, oramai era diviso. Nel partito si coagulò un’opposizione interna, guidata dagli intellettuali (ad esempio il Circolo Petofi), della quale, il pur ligio Nagy era comunque il punto di riferimento politico.
A Mosca, credendo in questo modo di risolvere la situazione, nel luglio 1956 si decise la destituzione di Rakosi, sostituito tuttavia da un suo pari, l’inetto Erno Gero.

L’esplosione rivoluzionaria del 23 ottobre 1956 riportò Nagy alla testa del governo. Nei tredici drammatici giorni che seguirono, fino al 4 novembre, cercò di comprendere e inutilmente tenere sotto controllo l’inedita situazione che si presentava sotto i suoi occhi: un paese in cui i lavoratori sarebbero stati al potere che insorgeva contro il potere del partito che doveva rappresentarli... Solo allora, posto di fronte all’inevitabile scelta tra il partito e il popolo, Nagy scelse quest’ultimo, segnando così il proprio destino.
Nagy e i suoi collaboratori si rifugiarono nell’ambasciata jugoslava, da dove vennero rapiti dai sovietici il 22 novembre 1956.
Dapprima deportati in Romania, vissero per alcuni mesi nel castello di Snagov. Nell’aprile vennero riportato in Ungheria dove vennero «processati» segretamente nel giugno 1958. Nagy fu condannato a morte.
Nel’incontro-dibattito «La rivoluzione ungherese sessanta anni dopo», organizzato dalla Biblioteca Archivio del CSSEO viene anche discusso e presentato il volume «Imre Nagy, un ungherese comunista» di Romano Pietrosanti (Le Monnier), una delle poche biografie di Nagy, e la prima ad essere stata pubblicata in italiano.

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