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«Sinopie Smarrite» – Di Massimo Parolini

La poesia di Diego Baldassarre tra la ricerca del senso e il senso del fallimento

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Titolo: Sinopie smarrite
Autore: Diego Baldassarre
 
Editore: LietoColle 2016
Collana: Erato
 
Pagine: 126, brossura
Prezzo di copertina: € 13
 
La sinopia è un disegno preparatorio, che poi va perso quando si realizza l’affresco: qualcosa che scompare, quindi, che è preparatorio essenziale, un fase che precede la realizzazione di un’essenza, un bruco, una larva-essenziale- di vita.
«Sinopie smarrite» (LietoColle 2016) sono quelle di cui Diego Baldassarre ci parla nella sua recente silloge pubblicata dall’editore Michelangelo Camelliti.
Ogni sezione della raccolta rimanda a quel disegno preparatorio, alle esperienze di vita, ai pensieri, alle parole, alle emozioni, le quali quotidianamente hanno preparato l’affresco che, nell’Autografo finale, sembra essere incompiuto.
Nella prima sezione (Physis) si delinea la dialettica uomo creativo-natura, fatta di incontri, metamorfosi, stratificazioni esperienziali della coscienza. Dopo un breve intervallo di leggeri Haiku (seconda sezione), la dialettica del quotidiano si fa Diafonia, interferenza tra segnali e vite, emozioni e incontri, agguati e ierofanie precarie, disturbo ed esasperazione.
La sezione Retropassaggi, partendo da un presente che si fa altro tempo, scivola la coscienza lungo l’asse liquido dell’analessi e della prolessi, della memoria e dell’attesa.
In Passioni minute l’autore si raccoglie nella cura della pianta dell’affetto.
Nella sezione Esogenesi i versi prendono ispirazione da poesie di autori famosi, con i quali si viene a creare una complicità illusoria nel nome della tessitura di parole.
 
In Quattro movimenti ritorna –assieme all’inquietudine- l’amore, ad esempio verso la figura figliale.
Chiude la silloge la sezione Autografo, nella cui isolata poesia l’autore si dichiara fallitore di sogni (anche la fede nella parola che salva annaspa).
Nel frontespizio alle sezioni, la poesia si presenta come bivacco di «parole nell’oasi sepolta/ con il rancore esanime/ di chi ha perduto l’incanto/ del silenzio. Del senso della via».
Frasi che persistono nel palinsesto di un foglio, sinopie come promessa di un affresco, vagiti privi di consolazione «per un pasto che sazi l’animo».
Quel porto sepolto in cui il poeta Ungaretti si tuffava per riemergere con la gioia del dono (Vi arriva il poeta/ e poi torna alla luce con i suoi canti/ e li disperde) diventa dunque un’oasi cui attingere ma che lascia un rancore, un risentimento, il senso di uno strappo dalla magia del silenzio.
In Ungaretti, invece, rimaneva, dopo il dono dei versi, il sapore di un inesauribile segreto, la consapevolezza che il mistero rimane tale, e che quindi il silenzio resta quasi intatto, malgrado la poesia: nessun rancore.
 
Ecco allora che Baldassarre rincorre proprio quelle pause, quelle crepe in cui «L’uomo abita il suo silenzio», gli interludi dei fotogrammi, le preparazioni dei soggetti per la foto:
Si esiste solo per l’attimo che mozza/
il respiro/
per lo specchio scuro dell’otturatore/
che riflette la retina (Lo scatto).
Sempre in attesa dell’esatta inquadratura, per l’impronta di colore per l’inganno/ di se stessi. 
 
Un inganno che ritroviamo nell’ultimo verso della raccolta (sezione Autografo), a cornice di una disillusione che la parola poetica potesse comunque (da quell’oasi sepolta), salvare una vita: a cosa sono servite le ore trascorse sui versi/ se ora che ho trovato/ uno stile che mi assomiglia/ non somiglio più neanche a me stesso (Alterazione).
Il predatore di parole abitante dei fogli (Parole di miele), seguace del silenzio di orme ungulate (Orme), della pazienza senza sconfitta degli olivi secolari, auscultatore nella goccia della vibrazione che rompe il silenzio, sempre in difficoltà nel suo attaccamento al verso (non cado ma duole la caviglia/ che sosteneva il passo dei versi), civetta dal tronco abbattuto dalla tempesta che perde il nido delle poesie sgualcite nascoste, alla fine della cornice della sinopia dichiara il suo fallimento, il suo essere a picco sul silenzio sopra un forra che forse non sussurra più alcuna parola, nemmeno parole d’acqua.
 
Ma se il poeta sembra spesso un «poeta di lago» (come ebbe a dire Marina Ivanovna Cvetaeva, di quei poeti che hanno due o tre temi insistenti, ossessivi, sempre gli stessi, a differenza dei poeti del fiume che seguono il corso della storia, il flusso della realtà in cui sono immersi) il presente storico vi fa rapide incursioni e lo sguardo si rivolge agli altri, ai padri moderni che spingono i figli sull’altalena mentre le madri parlano sulla panchina, ai pendolari dei treni incrociati nella loro incomunicabilità e indifferenza che si fa maschera di cortesia, e soprattutto ai volti miserabili della Stazione ostiense, dove larve di umanità maleodoranti di urina rimpiangono /la mente che li ha partoriti: Ognuno è solo, come per Quasimodo, sul cuor della terra: le bottiglie sono vuote, non danno più la dimenticanza: resta solo il dolore, l’odore dell’alcool sulle labbra. Ma rigagnoli d’aria giungono dalle scale, e c’è una via d’uscita: nel proprio lago c’è posto anche per un nome scritto su una carta di riso: l’ambizione di colorare il vento può convincere ad osare: un aquilone solleva il volto in alto.
 
 Diego Baldassarre 
Nato a Roma nel 1969, vive sulle colline pistoiesi.
Ha pubblicato con Il Mio Libro le sillogi Sfumature del silenzio (2010), L’acqua sogna trasparenze (2013) e la fiaba Le avventure di Beatrice la delfina rosa (2015).
Del 2014 è La matematica dei sogni (Marco del Bucchia editore).

Massimo Parolini

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