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Identikit dei foreign fighters europei – DI Luca Bregantini

Un’analisi puntuale a poche ore dal sanguinoso attentato di Westminster a Londra

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La strategia di comunicazione e l’efficace narrativa dell’ISIS hanno certamente contributo a creare ed alimentare in Europa e nel Mondo Occidentale la figura, quasi mitica, del foreign fighter, il combattente che abbandona l’Occidente per unirsi alla causa dello Stato Islamico, pronto a sacrificarsi in nome del Jihad.
Come ogni mitologia, anche il mito dell’eroe / demonio jihadista contribuisce a definire l’immaginario collettivo, creando speranze in coloro che in lui si riconoscono e paure in coloro che lo temono. Tuttavia, se ci si sforza di superare sia la retorica propagandistica di Abu Bakr al-Baghdadi che le ansie e le paure che essa risveglia in un Occidente attraversato da criticità sociali, economiche e identitarie, appare lecito interrogarsi sul profilo antropologico del combattente straniero e sulle sue caratteristiche.
Ragionando in quest’ottica, innanzitutto, ci si può chiedere quanti siano i foreign fighters provenienti dall’Unione Europea. Paragonando i dati ricavati da diverse fonti istituzionali dei Paesi europei a fine 2015, questi miliziani sarebbero stati approssimativamente 4.000 soggetti, raddoppiati rispetti al 2014. Di questi più di mille provengono dalla Francia, almeno 700 dalla Gran Bretagna, 760 dalla Germania, 470 dal Belgio e 220 dall’Olanda.
 
Ciò che preoccupa maggiormente l’Europa, ovviamente, oltre ad essere il numero di coloro che combattono nel Califfato, è quello di coloro che potrebbero rientrare in Europa con un bagaglio di capacità operative e di contatti notevolmente arricchito.
Ebbene, secondo l’Europol, i potenziali terroristi già rientrati nel 2016 sarebbero tra i 1.500 ed i 1.800: in particolare in Gran Bretagna sarebbero rientrati 350 individui, in Germania 250, in Belgio tra i cinquanta ed i 100 e in Francia oltre 100.
 
Se questi sono solo alcuni numeri, un approfondimento sociologico restituisce un’immagine un po’ più articolata dei foreign fighters europei. In prima istanza potremmo affermare che si tratta per lo più giovani di età compresa tra i venti e trent’anni, di sesso maschile e di origine nordafricana, balcanica o turca. Tuttavia, l’età dei foreign fighters presenta anche notevoli oscillazioni.
Ad esempio, in Austria, Gran Bretagna e Belgio si possono registrare casi di militanti diciottenni o addirittura adolescenti. In Finlandia e Svezia, invece, tra gli adulti si possono trovare militanti che superano abbondantemente i quarant’anni ed in Belgio che sfiorano addirittura i settant’anni.
 
Se la maggioranza dei combattenti stranieri sono maschi, la percentuale delle donne provenienti dai Paesi UE che si uniscono alle fila dello Stato Islamico attualmente sembra oscillare attorno a valori compresi tra il 10 ed il 20% del totale. Inoltre, è anche vero che talora si superano ampiamente questi limiti, come attestato da un rapporto Europol del 2016.
Secondo l’Agenzia europea sarebbero le donne del Regno Unito, del Belgio e ancora più marcatamente quelle dei Paesi Bassi le più inclini a trasferirsi in Siria e Iraq. Le donne olandesi, in particolare, rappresenterebbero circa il 40% di tutti coloro che dall’Olanda abbiano deciso di combattere il jihad.
 
Prendendo in considerazione sempre i Paesi Bassi, l’Europol sottolinea come solo l'11% dei rimpatriati siano donne. Il che lascerebbe supporre che le donne, una volta raggiunto il Califfato, non siano più libere di lasciare il territorio sotto il suo controllo.
A conferma del fatto che le donne costituiscono sempre più un tassello fondamentale nell’ingegneria sociale dello Stato Islamico si può aggiungere che si tratta soprattutto di donne giovani.
Il Califfato ha bisogno di donne giovani perché queste possono fare figli e contribuire, pertanto, alla sua crescita demografica.
Sul totale dei foreign fighters che provengono da Paesi europei come il Belgio, la Danimarca, il Portogallo e la Spagna le donne rappresentano circa il 10%, mentre quelle che vengono da Paesi come la Finlandia, la Francia e la Germania raggiungono addirittura il 20%.
 
A integrazione di quanto già osservato si può aggiungere che il rapporto Europol evidenzia come, oltre a giovani uomini e giovani donne, talora verso la Siria viaggiano anche minori, spesso assieme ai loro genitori.
Nel progetto dello Stato Islamico l’attenzione per le famiglie è cruciale proprio perché sono queste che costituiscono il pilastro fondamentale di ogni comunità.
Le donne che si recano in Siria ed Iraq, oltre a recarsi là per combattere o per raggiungere il loro compagno, talora ci vanno proprio per sposare un combattente ed avere dei figli da lui.
Il caso della Germania è emblematico in tal senso: circa la metà dei combattenti provenienti da quel Paese sono sposati, e circa il 30% di loro hanno figli.
Se leggiamo questi numeri alla luce di quanto affermato dall’Europol, l’ipotesi che in futuro vi possano essere ulteriori ricongiungimenti familiari nel Califfato non deve essere sottovalutata.
 
Vale anche la pena di prestare attenzione ai convertiti all'Islam. Tra i combattenti stranieri ce ne sono diversi.
Tra i combattenti provenienti da Portogallo e Slovenia i convertiti sarebbero la addirittura la maggioranza, mentre cifre minori si possono registrare tra quelli provenienti da Francia (23%), Germania (12%) e Belgio (6%).
L’Europol fa un esempio: nel 2015, a Barcellona, una cellula terroristica aveva progettato un attentato, poi fortunatamente sventato. Nel gruppo, cinque su undici erano convertiti.
La maggior parte dei combattenti stranieri europei sembra poi provenire dalle grandi aree metropolitane ed in particolare da alcuni sobborghi periferici specifici.
 
I miliziani provenienti dalla Germania, ad esempio, vivevano in grandi città come Berlino ed Amburgo e in regioni come la Renania Settentrionale-Vestfalia e la Baviera.
Un dato rilevante è che molti foreign fighters provengono dagli stessi quartieri urbani: questo accade, ad esempio, ad Aarhus e Copenhagen in Danimarca, a Göteborg in Svezia, a Bruxelles ed Anversa in Belgio e a Delft, Zoetermeer, Arnhem e L'Aia in Olanda.
Ciò sembra suggerire che alla base dei flussi verso lo Sato Islamico vi siano delle reti locali preesistenti.
Si tratterebbe di cerchie di amici o famigliari, piccoli gruppi di conoscenti radicalizzati in contesti condivisi, che decidono di lasciare il proprio luogo di residenza per recarsi nelle zone di conflitto, ove ricongiungersi ad altri amici e conoscenti arrivati là prima di loro.
L’appartenenza comunitaria su base locale sembra, pertanto, giocare un ruolo centrale nella decisone di partire per raggiungere il Califfato.
 
Se i miliziani provenienti dall’Europa sotto il profilo dell’età, e tutto sommato anche del genere, sembrano costituire un corpus piuttosto omogeneo, differenze maggiori si possono registrare per quanto concerne la loro origine.
Fermo restando che le maggiori concentrazioni si registrano tra i combattenti di origine nordafricana, balcanica e turca, si segnalano tuttavia, anche soggetti la cui origine rimanda a contesti culturali differenti: tra i combattenti provenienti dall’Austria, ad esempio, accanto a quelli di origine turca e balcanica, vi sono soggetti di origine caucasica (cecena in particolare) e tra quelli provenienti dalla Gran Bretagna prevalgono, invece, combattenti di origine pakistana e del sud-est asiatico.
 
Tuttavia, anche all’interno del gruppo proveniente dal Regno Unito non mancano miliziani di origine nordafricana, principalmente marocchina, libica e tunisina.
Tra i combattenti provenienti dalla Francia, anche per la sua storia, prevalgono i nordafricani originari dell’Algeria, della Tunisia e del Marocco. Maghrebini sono anche la maggioranza dei foreign fighters provenienti dall’Italia e dalla Spagna.
Il gruppo proveniente dai Paesi Bassi, invece, si presenta come una sorta di melting pot al cui interno vi sono uomini e donne di origine marocchina, somala, turca e curda.
Una situazione abbastanza simile è quella vissuta dal gruppo svedese, che si presenta anch’esso come decisamente transnazionale. Tra coloro che provengono dai Paesi Bassi vi sono molti cittadini olandesi di origine nordafricana, mediorientale, balcanica e asiatica.
 
Un ultimo aspetto sul quale vale la pena di soffermarsi è la preparazione militare dei foreign fighters europei.
Una considerazione preliminare è che nella maggior parte dei casi gli europei non sembrano disporre di una buona esperienza militare pregressa.
Una volta giunti in Siria la maggior parte di essi sarebbero sottoposti ad una breve fase di addestramento militare di circa 45 giorni.
Secondo fonti israeliane gli europei sarebbero meno preparati a combattere rispetto ai loro colleghi provenienti dai Paesi arabi, dal Caucaso e dall’Asia centrale.
In particolare alcuni radicali occidentali sarebbero anche stati respinti proprio perché non sufficientemente idonei a partecipare ai combattimenti.
 
Tuttavia, gli europei, soprattutto quando non hanno una buona preparazione militare, tendono ad essere utili in altro modo al Califfato; ad esempio ricoprendo ruoli alternativi, specialmente quei ruoli collegati all’attività di propaganda web e social.
Ad integrazione di quanto affermato precedentemente, va anche fatto notare che tra i foreign fighters occidentali ci sarebbero dei veterani. In particolare, dalla Francia sarebbero partiti alla volta del Califfato reduci di Afghanistan, Pakistan, Cecenia, Iraq e Somalia, dalla Germania miliziani di Afghanistan, Cecenia e Bosnia e dall’Irlanda, infine, veterani della Libia.
In base all’analisi dei profili generali dei combattenti stranieri, è possibile effettuare due considerazioni di ordine generale.
 
La prima considerazione da fare è che le migrazioni verso lo Stato Islamico costituiscono un fenomeno che riguarda soprattutto il mondo giovanile.
A parte alcuni casi sporadici di adolescenti e pochi altri di persone mature, la stragrande maggioranza dei foreign fighters sono giovani sui vent’anni.
Ciò significa che dietro la scelta di partire per il Califfato esiste, comunque, un disagio giovanile di una parte del mondo musulmano che non si riconosce nel sistema delle opportunità di integrazione rese disponibili dal Vecchio Continente.
Alcuni giovani, ed in particolare quelli di origine nordafricana e di religione islamica, per una qualche ragione non si riconoscono pienamente nell’offerta socio-culturale dell’Occidente.
Dal momento che tra i foreign fighters occidentali non ci sono solo i giovani sbandati delle periferie, ma anche persone istruite e con una storia di apparente integrazione lavorativa (pensiamo ad esempio allo status socio-economico dei foreign fighters del Regno Unito), la natura del disagio sembra riguardare cause più profonde di quelle riconducibili alla sola mancanza di opportunità economico-professionali.
 
La seconda considerazione riguarda le donne musulmane che vivono nei Paesi occidentali e le neoconvertite.
Che siano europee, americane o australiane, le donne occidentali che vanno nello Stato Islamico al seguito dei loro mariti o per diventare spose di un miliziano dell’Isis hanno ormai raggiunto quote più che significative.
Se le donne europee mediamente sono il 10-20% del totale dei foreign fighters europei, una ragione ci sarà.
Sono donne giovani, istruite e immerse nella tecnologia.
Usano quotidianamente i social - Twitter, Facebook e Skype - ma nel contempo aspirano a valori tradizionali e romantici come l’amore, la famiglia e l’eroismo.
Per molte di esse passare allo Stato Islamico ha il sapore della fuga. Scappano da un mondo piatto, forse eccessivamente secolarizzato, certamente per molti aspetti alienante, e dal quale, sicuramente, non si sentono rappresentate. Nel loro immaginario lo Stato Islamico costituisce uno spazio-opportunità.
 
A prescindere se riusciranno a coronare i loro sogni diventando devote musulmane, giovani eroine, spose fedeli e madri solerti, ovvero se diverranno solamente vittime sacrificali sull’altare di una violenza ideologica profondamente sessista, resta comunque il fatto che molte giovani musulmane decidono di partire.
Uomini e donne che vivono in Europa sono chiamati dal Califfato a costruire nuove famiglie nell’attesa di nuove generazioni di jihadisti, che nascano e crescano nella pedagogia della violenza ed in una cultura antioccidentale.
La vera sfida nel contrasto allo Stato Islamico pertanto, più che militare deve essere condotta sul piano socio-politico e mediatico-culturale, incrinando in tal modo il progetto di ingegneria sociale di al-Baghdadi.
 
Luca Bregantini
(Ce.S.I.)

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