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Renato Pancheri in mostra a Trento – Di Daniela Larentis

La prestigiosa esposizione di 20 opere inaugurata presso il Grand Hotel Trento sarà visitabile fino al 14 giugno 2017

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A Trento, una ventina di splendide opere di Renato Pancheri, realizzate interamente ad olio su tela, sono esposte nelle sale del Grand Hotel Trento, nel cuore della città.
La mostra, il cui allestimento è stato curato da Nicola Cicchelli, è stata inaugurata venerdì 14 aprile alla presenza di un folto pubblico e del figlio dell’artista, scomparso otto anni fa, il noto pittore trentino di adozione milanese Aldo Pancheri, con intervento critico di un altro apprezzato artista, Paolo Tomio, affermato architetto trentino, Presidente della FIDA – Trento – Federazione Italiana Degli Artisti dal 2012 al 2015, ideatore e curatore della rivista online sull’arte FIDAart, dal 2016 icsART, e di Paola Pizzamano, Responsabile Sezione Arte della Fondazione Museo Civico di Rovereto (la quale già qualche anno fa aveva presentato una mostra di Renato Pancheri sempre al Grand Hotel Trento).
 
Gino, Renato e Aldo Pancheri, tre grandi nomi del panorama artistico trentino del Novecento, fratelli i primi due, dei quali Aldo è rispettivamente nipote e figlio.
A tutti e tre la Galleria Civica di Trento ha dedicato anni fa una prestigiosa mostra accompagnata da un esaustivo catalogo (nel 1989 a Gino Pancheri, nel 1993 a Renato e Aldo). Risale al 1990 la mostra dal titolo «I Pancheri: una casa di pittori», organizzata a Milano presso Palazzo della Permanente.
 

 
Abbiamo chiesto ad Aldo Pancheri com’è nata l’idea di questa ricca esposizione.
«Mio padre è mancato nel 2009, nel 2019 cadrà il decimo anniversario della sua morte e mi piacerebbe per l’occasione rendergli omaggio con una mostra a lui dedicata possibilmente in spazi istituzionali, quindi questa esposizione vuole rappresentare una sorta di premessa a tale evento.»
Sapendo quanto Aldo Pancheri fosse legato al padre, gli chiediamo di condividere con noi un ricordo di lui.
«Mio padre è sempre stato estremamente rispettoso del mio modo di esprimermi, dal punto di vista artistico non ha mai voluto influenzarmi.»
 
Vogliamo ricordarlo anche attraverso le parole di Elena Pontiggia, la quale riferendosi a Renato Pancheri scrisse: «[…] E ha capito che il colore, quando è veramente tale (quando non è coloriage, coloritura, come diceva sprezzatamente Delaunay, alludendo ai pittori che aggiungono la tinta in modo esteriore) non è sopra le cose, ma dentro le cose. Un po’ come l’anima.»
 
Di lui scrisse Roberto Sanesi (il suo intervento critico è tratto dalla pubblicazione intitolata «Testimonianze sulla pittura di Renato Pancheri»): «Lo sguardo di Renato Pancheri, fratello di Gino, si sprofonda nell’impasto generativo e tuttavia confuso della natura, della materia (che gli diventa materia pittorica), aprendo i volumi, o accennandoli quel che basta per farne segnali di un intricato universo riconoscibile.
Qui il dettaglio, se si può definire dettaglio l’immagine circoscritta di una sua opera, non è e non vuole essere che un frammento esemplare di un groviglio vitale, generativo, solo più grande, non diverso.
 

 
«La materia – ha scritto Danilo Eccher – confessa una incontenibile fisicità, l’impianto compositivo testimonia una profonda raffinatezza narrativa.
«Se uno dei suoi maestri è Cézanne, l’insistenza critica su un discrimine incerto fra espressionismo e informale è solo di comodo. Sebbene non si possa escludere che l’uno e l’altro derivino da un metodo seguito almeno in parte proprio da Cézanne quando parlava di arte come appercezione personale, e indicava che la forma raggiunge la sua pienezza quando il colore esprime tutta la ricchezza di cui è capace.
«In qualche modo, è come se Renato Pancheri avesse deciso di narrare la ricchezza, la densità, i bagliori di un progetto che poteva apparire altrimenti un coacervo incomprensibile di energie. E alla fine è proprio questa energia che egli dipinge, non rinunciando al disegno, ma affidando al colore il compito di disegnare, di designare l’oggetto.
«E poiché tale oggetto si manifesta in ogni momento come un processo di formazione, la sua forma è quella di ogni metamorfosi: riconoscibile, e però mobile, sfuggente, compiuta nella sua incompiutezza, sempre virtuale.
«E nelle opere ultime sempre più limpida, toccata da una liricità lieve e freschissima, di meditazione mai preoccupata di dover avanzare definizioni, tale da offrirsi con innocenza nella sua inspiegabile bellezza.»
 
Una mostra che, in conclusione, merita davvero di essere vista e che non deluderà certo il visitatore.
 
Daniela Larentis –d.larentis@ladigetto.it


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