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Autonomie di Trento e Bolzano, una storia da rileggere oggi / 23

Il nuovo volto dell’Autonomia – Di Mauro Marcantoni

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La missione era chiara ed era ormai condivisa da una significativa quota di consiglieri provinciali trentini. Tra questi una figura di primario spicco fu quella di Bruno Kessler che in un intervento del 1973 in Consiglio provinciale ebbe a sostenere che: «Ora, signori, bisogna prendere atto che anche in quella che definivo rifondazione di questa autonomia, il Trentino non sarà più sempre «Trentino-Alto Adige.
«Il che può essere più o meno sentito, perlomeno a seconda delle sensibilità che si hanno, ma credo che tutti conveniamo che è una cosa diversa. E quindi l’esigenza anche di una certa personalità di questo Trentino credo che realisticamente, doverosamente e responsabilmente dobbiamo averla presente».
 
La responsabilità cui Kessler faceva appello era anzitutto quella della classe politica ma anche, più in generale, la responsabilità e la consapevolezza della società civile. Si trattava, infatti, per il Trentino di affermare, riappropriandosene, una propria specifica identità, non più vincolata alla questione sudtirolese.
In Provincia di Bolzano, prendere coscienza della nuova autonomia significava, invece, verificare se i cambiamenti introdotti dal secondo Statuto corrispondevano effettivamente alle attese e alle speranze che ne avevano accompagnato l’approvazione.
Non era solo il gruppo di lingua italiana a guardare con apprensione al mutato quadro istituzionale e politico.
Nella SVP il gruppo degli oppositori al Pacchetto era ancora piuttosto agguerrito. I nuovi poteri non erano considerati garanzia sufficiente contro i pericoli dell’assimilazione e restavano dubbi legati ai tempi con cui le norme di attuazione necessarie per dare effettivo compimento allo Statuto sarebbero state approvate.
 
L’esigenza di una concreta e tempestiva attuazione della nuova autonomia era stata peraltro opportunamente prevista dallo Statuto che, all’articolo 108, richiamava la formazione di una commissione «paritetica» fra Stato e Province autonome di Trento e di Bolzano a cui affidare i lavori di studio sulle norme di attuazione.
La composizione di questa commissione fu accuratamente soppesata: dodici membri – da cui la denominazione «Commissione dei 12», – dei quali sei nominati dallo Stato, due dal Consiglio regionale, due dal Consiglio della Provincia autonoma di Trento e due dal Consiglio della Provincia autonoma di Bolzano (tre componenti appartenevano al gruppo di lingua tedesca).
All’interno di questa Commissione si previde la formazione della «Commissione dei 6», per le norme di attuazione di competenza della Provincia autonoma di Bolzano, composta appunto da sei membri, di cui tre di nomina statale e tre della Provincia autonoma di Bolzano (uno dei quali appartenente al gruppo linguistico italiano).
Il compito delle due commissioni era quello di elaborare proposte condivise dal Trentino, dall’Alto Adige e dal Governo italiano, allo scopo di garantire l’attuazione dello Statuto sia a livello regionale, sia a livello internazionale in vista di una formale conclusione della vertenza davanti all’ONU.
 
Nelle intenzioni e nelle speranze di trentini e sudtirolesi, i lavori delle commissioni avrebbero dovuto concludersi nel giro di pochi anni.
In realtà, si sarebbero protratti, tra interruzioni, crisi del Governo nazionale, ostacoli a livello regionale e internazionale per due decenni prima di raggiungere un numero di norme approvate, tale da consentire il rilascio della «quietanza liberatoria» da parte dell’Austria.
Nel corso degli anni, le due Commissioni riuscirono, in ogni caso, a lavorare con regolarità e diligenza, superando via via le molte difficoltà, soprattutto di natura interpretativa, che si trovarono ad affrontare.
Un’esperienza, quella delle Commissioni, che nel tempo si rivelò in tutta la sua importanza venendo ad assumere di fatto una sorta di «Costituente permanente» dell’Autonomia.
 
Mauro Marcantoni
(Precedenti puntate)

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