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Storie di donne, letteratura di genere/ 183 – Di Luciana Grillo

Pia Pera, «Al giardino ancora non l’ho detto» – È un cammino intenso, doloroso e nonostante tutto sereno, che l’autrice compie quando sa di essere ammalata

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Titolo: Al giardino ancora non l'ho detto
Autrice: Pia Pera
 
Editore: Ponte alle Grazie 2016
Collana: Scrittori
 
Pagine: 215, Brossura
Prezzo di copertina: € 15
 
Da tanti anni leggo con identica attenzione e con sana curiosità romanzi, saggi, racconti.
Nel caso di «Al giardino ancora non l’ho detto» devo subito ammettere che non so se considerarlo un saggio, o un diario intimo, o altro.
È un cammino intenso, doloroso e nonostante tutto sereno che l’autrice compie quando sa di essere ammalata e pensa di non avere molto tempo da vivere.
Con pudore e dolcezza, racconta i suoi pensieri che si intrecciano e sovrappongono con le descrizioni dei fiori, dei cespugli e delle siepi del suo amato giardino.
 
Dopo aver scritto numerose opere che proprio con orti e giardini hanno a che fare, Pia Pera, partendo da versi dolcissimi di Emily Dickinson, comincia il suo racconto considerando la differenza fra l’opera d’arte, ideata da un artista o architetto, che continua a vivere anche se l’ideatore muore, e il giardino che ad un tratto non sarà più curato e amato dalla stessa persona, «dovrà vedersela da solo… Quella pergola regolarmente potata, straborderà. Quella siepe di lecci diventerà un bosco…».
Pia ritorna bambina, ricorda la sua «filosofica Maman» e quel «mondo materno da cui, adolescente, mi sentivo minacciata», poi – con un notevole salto temporale – per l’adolescente diventata donna arriva la malattia: «Ammalarsi è stato un repentino passaggio da una sensazione di gioventù a una di vecchiaia… la malattia mi costringe a prendermi cura del corpo senza più troppo pensiero per il giardino, quasi il corpo fosse diventato un mio più urgente campicello minacciato… da qualcosa di indefinito che ne mina dall’interno la vitalità».
 
Cosa fare, dunque? Curarsi, affrontare viaggi spese cure sperimentazioni oppure «…accettare serenamente la fine. Perché ostinarsi a volere una vita più lunga?».
E naturalmente affiorano pensieri drammaticamente attuali, come ad esempio la possibilità di decidere autonomamente se e quando porre fine alla propria vita.
«Quando toccherà a me, mi piacerebbe essere sola…» e nel frattempo, in compagnia del fedele Giulio e di tanti amici, Pia va al cinema, a cena fuori, parla con persone care lontane e vicine, legge e si chiede perché in questi nostri tempi si parli tanto della morte, mentre sente che la sua malattia avanza ed i gesti, anche i più semplici, cominciano per lei a diventare faticosi.
Si rifugia nel passato, si rivede nella casa degli zii, «dotata di un giardino rigoglioso ma piccolo… Il ricordo delle ore meravigliose trascorse in quel piccolo, sovraffollato giardino, vive ancora» e torna al presente, alla sua crescente disabilità, all’amata lettura: «Chiudo il libro… la serenità di un semplice giardino irradia nel tempo, fa bene anche a distanza, nutre ricordi capaci di sostenere nei momenti difficili».
 
Quando sente ormai prossima la fine, Pia – che voleva «arrivare preparata al momento della morte» si rende conto che «così occupata dal pensiero della morte, mi sono dimenticata di vivere».
Cerca sostegno negli amici, nelle letture, nel buddhismo e, «almeno da spettatrice, torno a godermi il giardino. Ho un margine di autonomia…».
Dipinge con le parole il susino bianco, che «sembra una nuvola di panna montata… gli ultimi tulipani botanici, giallo rosato… i fiori dell’erba… così leggeri e aerei, nemmeno sembrano fiori… il glicine… il melograno», e consapevolmente si avvia alla fine, accompagnata dalle parole di Gottlieb Zornberg e di José Saramago e dai versi intensi di Stevenson:
«Ma non vi pare brutto,/col cielo così chiaro e azzurro,/quando si vorrebbe tanto giocare,/dovere andare a letto di giorno?».
Così Pia Pera conclude questo suo ultimo libro, coraggioso e dolente.
 
Luciana Grillo – lgrillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)

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