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Pulchérie, un'imprenditrice venuta dall'Africa – Di Maurizio Panizza

Una massima africana dice «Tukki wuala torokh», che in italiano all’incirca significa: «Viaggia, ragazzo, per non perdere la speranza»

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Chi, come Pulchérie Hyacinthe Sene, è via da casa da molto tempo, sa quanto sia difficile sollevare il cuore dal peso della lontananza.
Per lei il richiamo della Terra d’Africa è sempre lì, appena dietro all’angolo.
Può nascondersi dappertutto: in uno sguardo, in un profumo, dentro a una parola o a una suggestione.
 
Lo scrittore Cesare Pavese sosteneva che un paese «ci vuole» perché significa sapere che in quella gente, in quelle piante, in quella terra c’è qualcosa di tuo che ti appartiene e che anche quando non ci sei, quel paese resta lì ad aspettarti, per sempre.
Così è per Pulchérie e per il suo Senegal.
Oggi lei è rientrata dopo due mesi di «immersione» africana. E’ ritornata a Rovereto in quello che Pulchérie considera non un secondo paese, ma il «suo» paese, alla pari di Thiès, in cui è nata, città di 600mila abitanti a 50 chilometri da Dakar.
Del resto sono 25 anni che lei è in Italia, la seconda ragazza di colore arrivata a Rovereto quando gli africani in Trentino erano una vera rarità.
 
Pulchérie ci descrive come da molti anni i suoi sentimenti siano divisi in due: una parte senegalese e una italiana. Due spicchi di cuore che si confrontano e si scontrano in continuazione. E il confine - non tanto astratto - è quello di Affi, a sud di Borghetto. Infatti, quando lei arriva lì, la nostalgia africana si manifesta alla vista delle prime montagne; quando invece parte, quelle stesse montagne lasciate alle spalle le fanno mancare quel senso di protezione che il paesaggio aperto e indefinito non le sa regalare. L’uno, insomma, è diventato col tempo complementare all’altro.
 
Prima, però, di arrivare a raccontarci di oggi - del suo lavoro d’imprenditrice di successo nel settore delle pulizie - Pulchérie parte da lontano nel descriverci come lei abbia incontrato l’Italia senza mai avere ipotizzato o sperato in tale evenienza.
Tutto iniziò per caso nel 1988 a Dakar, quando al matrimonio di una sua cugina era presente pure un giovane trentino giunto in Senegal al seguito di una organizzazione umanitaria. Qui, nel corso della festa, il ragazzo incrociò gli occhi di Pulchérie e per lui fu un colpo di fulmine e l’inizio di una corte serrata.
 

Pulchérie oggi, alla scrivania del suo ufficio.
 
E per te? – Chiediamo.
«No, per me non fu così. In principio fu quasi un fastidio questo italiano che non parlava né francese, né inglese e che per diversi giorni mi veniva dietro in compagnia di un amico che gli faceva da interprete.
«Poi la sua educata insistenza convinse mia madre a invitarlo a casa, com’è abitudine di ospitalità dell’etnia Serer, alla quale noi apparteniamo.
«E qui, con grande sorpresa, lui si dichiarò davanti a tutta la famiglia.»
 
Accidenti, determinato il ragazzo! E poi?
«Beh, dopo alcuni giorni lui dovette rientrare in Italia, ma comunque non si arrese. Mi scriveva lettere su lettere e ogni quindici giorni veniva a trovarmi in Senegal.»
 
Scherzi, vero?
«No no, non scherzo, è tutto vero. A tal punto che dopo un po’ di mesi, non potendo più ottenere permessi di lavoro, fu lui a chiedermi di venire in Italia.
«E fu così che nel 1989 arrivai a Rovereto trovando quasi subito un lavoro part-time per due mesi come commessa presso la gelateria La Torretta di Corso Rosmini.»

Pulchérie in costume tipico.

L’incredibile storia di cuore, tanto diversa da quelle di migliaia e migliaia di immigrati africani di questi ultimi anni, ci rende impazienti di conoscere il seguito.
«La nostra relazione proseguì anche dopo il mio rientro in Africa. Poi, nel 1991, al mio paese facemmo una grande festa di fidanzamento, come è usanza del nostro popolo. L’anno dopo arrivai in Italia per sposarci.
«Andammo ad abitare in Vallarsa, nel paese di mio marito, ma all’arrivo in quella valle chiusa fra strette montagne a precipizio, sinceramente mi parve di arrivare in un altro mondo. Abitandovi, conobbi poi la diffidenza della gente, la paura del diverso, la solitudine.
«Gente buona, ma non ancora abituata a confrontarsi con una donna dalla pelle nera. Tutti i giorni, comunque, andavo a lavorare a Rovereto in motorino. Nel 1993 nacque Michel.»

Pulchérie si è commossa. Si interrompe per un attimo. Poi riprende con il suo italiano sicuro. Ci racconta di come quella situazione di disagio diventò per lei via via insopportabile a tal punto da contribuire a mettere in crisi il matrimonio e a costringerla, nel 1996, a rientrare in Senegal con il piccolo Michel.
Poi, purtroppo, arrivò la separazione e al successivo rientro in Italia pure la necessità di trovarsi un alloggio e un lavoro sicuro, anzi più di uno: prima i turni alla Sony e poi, dopo la chiusura della fabbrica, barista alla sera, baby-sitter e donna delle pulizie di giorno.
Ed è proprio attraverso quest’ultima esperienza che Pulchérie inizia a intravedere un futuro.
 
Disponendo di un diploma in chimica (uno dei requisiti richiesti dalla legge in alternativa all’esperienza di 5 anni), nel 1997 apre una partita Iva e grazie a un contributo provinciale di 9 milioni di lire fonda la sua impresa individuale e incomincia a lavorare anche per 15-17 ore al giorno, pulendo giroscale, banche e uffici. 
 
All’inizio lavora da sola, poi l’anno successivo assume due collaboratori e poi via via - riuscendo a trovare sempre più commesse - altri ancora. Da allora Pulchérie ne ha fatta di strada e di pulizie! La sua ditta, la P&P, oggi conta poco meno di 50 dipendenti, fra questi, 7 sono africani, mentre i rimanenti sono italiani; è certificata ISO 9001, si è aggiudicata importanti appalti in Enti pubblici in tutta la Regione, lavora in Centri commerciali, Banche e Imprese e dispone di una bella sede a Rovereto.
 
Michel, ora ventiquattrenne, lavora al suo fianco come responsabile delle squadre di pulizia. Anche Marianna, l’altra figlia, seppur ancora studentessa, talvolta aiuta nell’azienda di famiglia, mentre lei - ancora amministratore unico della ditta - non disdegna affatto di tornare sui cantieri a lavorare in prima persona come un tempo.
Approfittando del fatto che Pulchérie è stata chiamata in un’altra stanza, chiediamo a Isabel, una delle giovani ragazze che si occupano di contabilità e gestione del personale, com’è in ufficio la sua principale.
 
«Io lavoro alla P&P da due anni, non appena uscita dall’Istituto Fontana, per cui non ho termini di paragone con altri datori di lavoro. Posso dire, però, che qui mi sento come a casa mia e che Pulchérie è sempre disponibile.
«Fin dall’inizio lei mi ha seguito con attenzione, mi ha insegnato cosa dovevo fare mettendosi con pazienza al mio fianco. Certo che poi, una volta imparato il lavoro, lei è esigente. E come lo è con me, così lo è pure con tutti gli altri collaboratori.»


Pulchérie al lavoro in un cantiere.
 
Visto che ora non ci sente nessuno, saprebbe dirci in confidenza quali sono i pregi e i difetti di Pulchérie? – domandiamo ancora a Isabel, un po’ sorpresa.
«Pregi ne ha molti, lei è sempre pronta a confrontarsi, capisce al volo se a volte ci sono dei problemi e sa venire incontro a chi magari è in difficoltà.»
 
E difetti?
«Mi faccia pensare…»
 
Non mi dica che non ha difetti.
«Sì, ecco, forse è troppo accentratrice, magari dovrebbe un po’ delegare, ma questo semmai è lei che dovrebbe deciderlo.
«E poi, sì, un problema c’è – sorride: – quando è occupata a fare qualcosa, molto spesso non risponde al telefono.
«Comunque – prosegue la ragazza, mentre Pulchérie sta ritornando – qui ci sentiamo tutti come in famiglia e lei sa riconoscere i meriti. Per dirle di me, da poco tempo ha trasformato il mio contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.»
 
Dunque una bella storia a lieto fine, Pulchérie! Ma quanto ti è costata?
«Se alludi a come ho costruito tutto questo, io donna di colore in un Paese che allora non era il mio – risponde – il segreto per un’integrazione felice forse esiste.»
 
Per davvero? Dai dimmi qual è.
«Ascolta, ti ripeto una frase che mia madre ha spesso ricordato a noi 10 figli prima che partissimo per il mondo: Quando vai in un Paese in cui ballano su di una gamba, anche tu devi imparare a ballare con una sola gamba. Con questo, voglio dire che deve esserci sempre in noi la disponibilità a conoscere, a rispettare e a fare proprie le usanze di chi ti ospita.»
 

Pulizie anche negli uffici per Pulchérie.
 
Oggi sei anche un’attivissima vicepresidente della Comunità Senegalese del Trentino-Alto Adige. Di cosa vi occupate?
«Lavoro non ne manca. L’arrivo di nuovi nostri connazionali ci pone davanti a questioni legate più che altro all’integrazione, al lavoro e al sostegno alle famiglie in difficoltà.
«Ma è pure l’occasione per ritrovarci a fare festa, a mantenere un legame con le nostre tradizioni e a creare gruppi di acquisto solidale di prodotti e cibi africani.»
 
Pulchérie, con questo accenni al fenomeno migratorio. Tu, come lo vedi?
«Oggi parlare di immigrati è un argomento che scotta. Certamente deve esserci una regolamentazione per il bene di tutti.
«Non so come sarà il futuro, però guardandolo con realismo da un punto di vista sociale ed economico, credo che con il continuo calo delle nascite ci sarà bisogno nei prossimi decenni di altri giovani per sostenere il sistema.
«Lavori magari poco qualificati, ma comunque utili per mantenere i livelli contributivi e pensionistici in vigore.»
 
Questo è vero, però la gente spesso vede in questi nuovi arrivati un pericolo.
«È comprensibile, com’è evidente l’incertezza di noi tutti per quello che sarà il domani. Non pensiamo, però, che i giovani africani siano molto diversi dai nostri giovani italiani, – aggiunge Pulchérie. – Anche loro sono preoccupati per il futuro, anche loro cercano di migliorare la propria vita. Non hanno in mente chissà quali carriere o successi.
«Partono con un sogno negli occhi e con in testa una massima africana che dice Tukki wuala torokh, che all’incirca significa: Viaggia, ragazzo, per non perdere la speranza
 
©Maurizio Panizza   

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