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Sergio Decarli espone a Trento – Di Daniela Larentis

Ospitata nelle splendide sale del Grand Hotel Trento la mostra dell’artista trentino sarà visitabile fino a metà giugno 2018 – L’intervista

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Alla mostra presso il Grand Hotel Trento.
 
Le splendide sale del Grand Hotel Trento, situato nel cuore della città, ospitano l’ultima mostra dell’artista trentino Sergio Decarli. Curata da Nicola Cicchelli, che segue per il Grand Hotel Trento le esposizioni di vari artisti, resterà aperta al pubblico (ingresso libero e continuato 24h) fino al 15 giugno 2018.
Pittore e musicista, Sergio Decarli è un artista eclettico. La sua arte è un’arte concettuale, egli si serve di simboli per rimandare a concetti, infatti utilizza lettere, parole per interpretare il mondo che lo circonda.
Così le scritte e le sequenze di numeri che osserva sui vagoni dei treni diventano elementi centrali delle sue opere, in cui anche i colori giocano un ruolo importante poiché rimandano a dei precisi significati.
 
Quanto è importante assegnare un significato all’esperienza e comunicarlo: che i segni risiedano nella nostra mente lo pensava Ferdinand de Saussure, intendendo che il significato delle cose non siano tanto le cose ma le classificazioni operate dalla lingua.
Secondo il noto linguista e semiologo svizzero la lingua stabilisce il significato delle cose in funzione del valore che le parole hanno nella sua struttura.
Anche l’arte può essere studiata come un codice, le opere di Sergio Decarli ne sono una testimonianza.
 

Alla mostra presso il Grand Hotel Trento con il dott. Stefenelli.
 
Come abbiamo detto, Sergio Decarli è pittore e musicista. Nella veste di musicista molti lo ricordano, in quanto è entrato a far parte negli anni Sessanta di un mitico gruppo musicale, i Britanni.
Ma Decarli non si ferma, la sua ricerca lo conduce alla scultura sonora, lasciando un segno nella storia della musica trentina, continuando al contempo a dipingere.
WPN114 è il nome scientifico di un albero millenario cresciuto sotto i cieli del Nevada, USA, tagliato – ci racconta Decarli - per motivi di studio, e da lui adottato come pseudonimo musicale con l’intenzione di sottolineare l’importanza del rapporto che intercorre fra l’uomo e la natura, con tutte le sue implicazioni.
 

Performance al Castello di Pergine.
 
Scrive Riccarda Turrina nel suo intervento critico, a proposito dell’arte di Decarli (riferito alla mostra intitolata «Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere», Museo Diocesano, Trento, novembre 2016-maggio 2017).
«Il risultato è un effetto visivo con rimandi poetici, capace di mettere in gioco la bellezza di un tempo visivo fatto di ritmo e di essenzialità, un insieme di elementi grafici percepiti come susseguirsi armonico di suoni, rumori e pause. Proprio per questo la lettura dell’immagine pittorica si articola su più piani: partendo dal colore e dalla particolarità del supporto, passando attraverso lo stile tipografico, la dimensione del carattere, il respiro del vuoto, per arrivare a cogliere il dialogo fra le parti.
«La parola, però, sebbene sia la protagonista, ovvero il principale elemento compositivo, che acquista valore visuale e formale proprio in virtù dell’importanza attribuitale a livello spaziale, deve anche parte della propria energia alla superficie che la accoglie.
«L’artista, infatti, riesce a rendere, in maniera del tutto realistica, gli effetti cromatici e materici dei vecchi vagoni ferroviari: la ruggine che corrode, l’acqua che cancella, il tempo che modifica e altera. Ma anche il bianco, lucido, scavato dagli eventi, delle targhe industriali, o l’effetto morbido del cartone attraversato da messaggi rapidi, capaci di creare un forte contrasto percettivo fra ciò che affermano e l’involucro che li accoglie. Si sente, dunque, in queste opere una forte propensione a ricercare gli effetti di una materia in continua mutazione, quella materia che poi restituisce, attraverso la scrittura, un messaggio in codice […].»
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Sergio Decarli e gli abbiamo posto alcune domande.
 

L'inaugurazione al MUSE nel 2013.
 
Quando si è avvicinato per la prima volta al mondo dell’arte?
«Mi sono avvicinato al mondo dell’arte da bambino. A 12 anni, più o meno, sono entrato in un coro dove si faceva musica ecclesiastica. Già allora cantavo e avevo amore per la pittura.
«Mi sarebbe piaciuto andare al conservatorio ma non ne avevo la possibilità, sono nato nel 1946 e all’epoca non c’erano le opportunità che ci sono adesso.
«A 18 anni mi sono imbattuto per la prima nella batteria, ci sono salito sopra come fosse un cavallo e ho imparato subito a suonarla. Avevo innato il senso del ritmo, in soli sei mesi ero diventato già uno dei migliori batteristi a Trento. Facevo parte di un gruppo, uno dei migliori in Trentino e forse anche fuori regione.
«Per una ventina d’anni ho fatto il musicista. Il gruppo si chiamava i Britanni. Coltivavo al contempo la pittura come hobby, ero autodidatta e mi interessavo anche alla fotografia, alle immagini in genere.
«In campo musicale mi sono formato anche da autodidatta fino a 28 anni, dopodiché ho frequentato il Conservatorio per tre anni (mi avevano assegnato uno strumento che non mi piaceva, il flauto traverso). Ho potuto così imparare il linguaggio musicale, in particolare a scrivere la musica.
«Sarei stato portato per il pianoforte, purtroppo non lo ho mai suonato. Avevo tanto entusiasmo, voglia di imparare e ho sempre portato avanti anche la pittura, la passione vera e propria è esplosa prima dei 30 anni. Il pittore Rolando Trenti abitava sotto casa mia, ogni tanto ci trovavamo a dipingere, lui mi dava consigli preziosi, pur essendo più giovane di me.
«Ho avuto la grande fortuna di conoscere diverse persone, in ambito pittorico, che mi hanno dato sia consigli che delle bastonate, talvolta. La prima mostra curata da Riccarda Turrina risale a quando avevo 30 anni circa, era intitolata Disastri della guerra.
«Ci tenevo molto alle tematiche, mi piaceva sviluppare un concetto artisticamente. Lavorando con la calce e il bitume ho creato per l’occasione delle scarpe di diversa fattura e provenienza che rappresentavano il cammino dell’umanità.»
 

Performance al Parco S. Chiara, Trento 2013.
 
Ci sono artisti che hanno influenzato il suo lavoro o che le piacciono particolarmente?
«Ce ne sono tantissimi. Ne cito uno fra i tanti, Segantini. Io sono andato avanti per gradi e mano a mano che maturavo artisticamente restavo affascinato da questo o quel pittore.
«Mi piaceva anche il cubismo, Picasso, poi un po’ tutte le correnti. Sono poi approdato al minimalismo americano, a me sono sempre piaciuti molto, artisticamente, gli americani.»
 
Potrebbe delineare le tappe principali della sua evoluzione artistica?
«Dai 28-30 anni circa non ho più abbandonato la pittura. Le tecniche da me utilizzate sono quasi sempre state terre e calce, quindi pigmenti naturali, la calce dosata in maniera equilibrata e collante.
«Oltre alla pittura mi sono dedicato anche alla scultura, utilizzando materiali riciclati. Allora c’erano diverse discariche abusive, per me erano fonte di ispirazione sia per la pittura e scultura che per la musica.
«La discarica abusiva per me era interessante perché vi trovavo materiali fra i più disparati, rotti, inutilizzabili, apparentemente. Mi servivano sia come ispirazione per la pittura che per essere direttamente utilizzati nella scultura. Usarli era per me come dare nuova vita a degli oggetti destinati all’abbandono e alla distruzione, per renderli vivi.
«Per quanto riguarda la musica, vedevo questi oggetti abbandonati che avevano già una loro forma, vi aggiungevo delle corde o altro, trasformandoli in strumenti musicali.
«Attraverso delle placche il loro suono veniva amplificato e io li suonavo. Da lì è nata la scultura sonora. Ho fatto 40 anni di ricerca nella scultura sonora, dopodiché ho dovuto fermarmi per mancanza, fondamentalmente, di spazi e di soldi da investire in questo tipo di arte: ho dovuto abbandonarla per mancanza di sbocchi.
«Ho tenuto concerti, chiamiamoli di prova, per diversi anni. La pittura, invece, mi permette ancora di creare, in quanto vivendo in appartamento è più facilmente realizzabile, è più immediata.
«Ritornando alla pittura, la parte più significativa della mia produzione è legata alla Brut Art, poi sono passato a un’arte concettuale, legata alla contemporaneità. L’idea è stata quella di creare opere d’arte attingendo ai linguaggi contemporanei, alla società dei consumi.»
 
Scultura sonora: cliccando l'immagine si accede al demo della Scultura sonora.

 
Quali sono i soggetti o le situazioni da cui trae maggior ispirazione?
«Prendo come esempio l’opera intitolata Revisione di serbatoio, che stava a significare la revisione della società. Io lavoravo con delle metafore di questo tipo.
«Leggevo sui vagoni dei treni, non sulla motrice, delle parole che io utilizzavo come segni. Poi ero attratto dalle case abbandonate, anche la parte lavorativa di un condominio poteva essere fonte di ispirazione.
«Per me erano importanti anche i colori. Un certo tipo di grigio mi dava l’idea del grigiore dell’esistenza, tutti i colori rimandavano a dei concetti.»
 
Potrebbe commentarci il quadro dal titolo «Parole arrugginite»?
«Il quadro esposto dal titolo Parole arrugginite misura 1,5 mtx1,15 mt; la base è realizzata con calce e terre. Sulla base di grigio sono adagiate delle lettere, lettere che solo apparentemente sono casuali, in realtà contengono un messaggio.
«La frase viene evidenziata da lettere di colore differente, leggendo da sx a dx la si può individuare. Per me l’opera esprime l’idea che ci sia poco dialogo fra le persone, ecco il senso di quelle parole arrugginite.
Il dialogo è una cosa importante, nella sua mancanza si nasconde anche la sofferenza dell’uomo contemporaneo.»
 

Parole arrugginite – Segnale assente.
 
Secondo lei la tecnologia ha aiutato il dialogo?
«Secondo me sì, poi nel campo della musica la tecnologia ha offerto e offre grandi possibilità. Nella mia scultura i suoni prodotti grazie anche alla tecnologia sono importantissimi, ma non devono sovrastare tutto. Io sono per un uso intelligente e moderato della tecnologia.»
 
Le parole che significato assumono nelle sue opere?
«Hanno un doppio significato. Sono parole semplici ma nascondono concetti complessi. Io lavoravo con la macchina fotografica. Utilizzavo le parole che leggevo sui vagoni dei treni che poi, come ho detto, inserivo nelle mie opere. Era determinante anche il colore. La ruggine, per esempio, simboleggia la nostra sofferenza. Il colore per me parla, il colore ha molto da dire».
 

Terre e Calce su tela - Sole, Terre e calce - (entrambi 2017).
 
Rispondendo in maniera molto sintetica, che messaggio vuole trasmettere attraverso la sua arte?
«I miei quadri dal 2005 in poi esprimono il concetto del dialogo, tutto il mio lavoro da lì in poi è impostato sul dialogo, sullo scambio delle parole. Le mie opere sottolineano l’importanza del dialogo.»
 
È più potente l’immagine o la musica?
«Io potrei fare venire la pelle d’oca con la musica, non so se potrei farlo con un quadro, chissà.»
 
Da artista, come immagina il futuro dell’arte?
«Dipende dall’evoluzione umana, dal non egoismo dell’uomo che speriamo possa prevalere. Sono ottimista. L’uomo ha ancora molte potenzialità da sviluppare…»

Progetti futuri?
«Vado sempre avanti, finché le forze me lo consentiranno andrò avanti e continuerò a sperimentare.»
 
Daniela Larentis - d.larentis@ladigetto.it

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