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25 aprile, l’intervento del sindaco di Trento Alessandro Andreatta

«Quando qualcuno mette in dubbio il valore del 25 aprile, ricordi che il nazifascismo aveva fatto dell'Europa il continente più barbaro e insicuro e inabitabile»

Autorità, gentili ospiti, signore e signori
 
Non posso fare a meno di osservare che il sentimento di orgoglio, gratitudine, speranza alimentato dalla festa del 25 aprile si trasforma sempre più spesso, con il passare degli anni, in risentimento.
Risentimento per le promesse mancate della nostra democrazia, risentimento da parte di chi non si sente rappresentato dalla storia repubblicana, risentimento alimentato da presunti torti storici subiti da questa o quella parte politica.
Il 25 aprile oggi è vissuto da molti se non con ostilità, perlomeno con disincanto o con indifferenza, come se questa data fosse un giorno qualsiasi e non una tappa fondamentale della nostra storia: la premessa agli oltre 70 anni di pace e prosperità che, nonostante le difficoltà, hanno contrassegnato la storia della repubblica italiana.
 
A preoccuparci è anche un altro fatto. Ora che i testimoni oculari di quel massacro che fu il secondo conflitto mondiale sono sempre meno numerosi, tornano parole d'ordine e rancori simili a quelli che avevano caratterizzato gli anni seguenti alla Grande guerra.
In nome di un relativismo che elimina ogni tabù, si proclama il diritto alla nostalgia di un regime che forse faceva arrivare i treni in orario, ma promulgava le leggi razziali, ammazzava gli oppositori, mandava a morire in campagne belliche spericolate un'intera generazione di giovani.
Sentiamo ripetere ed enfatizzare parole come razza, confini, stranieri, invasione, complotto o addirittura fascismo. Termini che sembravano fuori corso, come una qualsiasi moneta senza più valore, e invece oggi reclamano visibilità e dignità.
Qualcuno dirà: le parole sono innocue. Con Mariapia Veladiano, sono convinto invece che «il problema di tante parole indecenti (...) è che rivelano un animo indecente». E che dunque «non dobbiamo inseguire il linguaggio del mondo per avere il consenso del mondo. Dobbiamo tenere il punto del parlare bene, specchio del pensare bene».
 
Per ridare significato a questa festa, è allora il caso di guardarci indietro e di ridare alle parole della storia il loro vero significato. Settantatré anni fa, oggi, il nostro Paese si liberava da un regime dittatoriale e violento, fautore di una guerra che, in un lustro, aveva causato oltre 470 mila morti di nazionalità italiana.
Per darvi l'idea dell'ecatombe, nella Siria di Assad, sicuramente oggi uno dei luoghi più martoriati della terra, dall'inizio del conflitto i morti si attestano più o meno sulla stessa cifra.
Quando qualcuno mette in dubbio il valore del 25 aprile bisognerebbe ricordare questo: che il nazifascismo aveva fatto dell'Europa il continente più barbaro e insicuro e inabitabile.
L'esercito d'occupazione aveva trasformato la culla della civiltà moderna in un territorio ostile, punteggiato di città bombardate e ridotte in macerie e di campi di detenzione e sterminio. Da Parigi a Roma a Berlino, l'arbitrio, le atrocità, i plotoni d'esecuzione - in due parole: i peggiori crimini - avevano reso un inferno la vita di civili e militari. Nel 1945, alla fine del conflitto, su tutti i fronti si contarono 54 milioni di morti: meno della metà di questi vestivano una divisa, gli altri erano cittadini inermi. E nella sola Europa vagavano 64 milioni di profughi: come se tutti gli italiani oggi fossero sradicati e senza casa.
 
La festa del 25 aprile celebra la fine di questa regressione dell'umanità alla barbarie e soprattutto rende onore a tutti coloro che, con la disobbedienza, l'opposizione, la diserzione, la resistenza a un regime iniquo e liberticida, hanno contribuito alla nascita della nostra democrazia.
Ricordiamo Carlo Merler, magistrato militare scampato fortunosamente al massacro della Divisione Acqui, partigiano, sopravvissuto al lager di via Resia a Bolzano: a lui è stata intitolata ieri è stata una piazzetta a Povo.
Ricordiamo Bruno De Gasperi e i fratelli Alfredo e Luciano Gelmi, tre ragazzi trentini tra i 19 e i 20 anni che, per avere rifiutato l'arruolamento nella repubblica di Salò, sono stati fucilati a Venezia insieme ad altri oppositori al fascismo: al loro tragico «no» è dedicata la riva dei Sette Martiri, a due passi da piazza San Marco.
 
Credo che il nostro compito oggi sia quello di raccontare queste storie ai nostri ragazzi. Ai nostri figli, ai nostri allievi, ai giovani che ci capita di incontrare a casa, a scuola, nei campi sportivi o in parrocchia: è bene che conoscano le fondamenta su cui si regge la nostra democrazia. Ed è bene che sappiano decifrare i segni dell'intolleranza, dell'ingiustizia e della disumanità.
Talvolta mi è capitato di chiedermi: se tornasse il fascismo, saremmo capaci di riconoscerlo? Non è detto, perché non sempre la retorica violenta è annunciata dal saluto romano, non sempre l'intolleranza o la xenofobia vengono sostenute con ragionamenti esplicitamente razzisti.
Talvolta il messaggio è più sottile e fa appello alle nostre paure più che alle nostre convinzioni ideologiche.
Anche Umberto Eco ci ha messo in guardia a questo proposito: «Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: ‘Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!’ Ahimè, la vita non è così facile – ammonisce lo scrittore - Il fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme, ogni giorno, in ogni parte del mondo.»
 
Per questo la celebrazione del 25 aprile è oggi più che mai necessaria. Questa festa del nostro calendario civile ci ricorda non solo che dobbiamo onorare la memoria delle donne e degli uomini caduti in difesa della libertà e della giustizia; ci rammenta, soprattutto, che dobbiamo vigilare sul nostro presente a beneficio dei vivi e delle generazioni che verranno.
 
Buona festa della Liberazione a tutti voi.

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