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Gli alberi di Matteo Boato, prospettive – Di Daniela Larentis

L’ultimo ciclo di opere dell’artista trentino prende ispirazione dalla natura – L’intervista

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Matteo Boato, I Mesi - Trittico 1, olio su tela, 360x150cm, 2017.
 
Matteo Boato ci aveva abituati a vedute aeree di grande suggestione, immortalando città e piazze affollate, coloratissime «case danzanti», edifici antichi e moderni e sconfinati campi, visioni dall’alto di «terra e acqua», ma anche ad «archi» e mani nude che si allontanano e si avvicinano fino a toccarsi, animali come pesci, uccelli, asini e piante: nella fattispecie betulle ritratte frontalmente, i cui tronchi candidi emergono da variopinti boschi che emozionano.
E ora eccolo a proporci tronchi immensi che sembrano bucare il cielo, terminando in chiome fluenti, alberi ritratti dal basso verso l’alto in un cambio di prospettiva che affascina e incuriosisce. 
 
C’è, del resto, chi preferisce restare a terra e osservare gli alberi dal basso, non tutti amano le altezze. È tutta questione di punti di vista.
Cosa dire di quegli alberi maestosi, senonché essi sembrano evidenziare l’importanza che hanno per noi uomini, per la nostra vita presente e futura.
Noi ci arroghiamo il diritto di tagliarli, estirparli, senza ricordare che la nostra stessa sopravvivenza dipende dal loro benessere.
Le piante hanno molto da raccontare, nell’immaginario collettivo ognuno sembra assumere un significato, il cedro rappresenta l’immortalità e la fermezza, il cipresso ha da sempre un significato sacro, il mandorlo fin dall’antichità è considerato simbolo di purezza, gli esempi sarebbero infiniti.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Matteo Boato e gli abbiamo rivolto alcune domande.
 

Matteo Boato, Albero 1, olio su tela, 120x150cm, 2017 – Albero 9, olio su tela, 120x150cm, 2017.
 
La serie di 12 tele dal titolo «I mesi» cosa rappresenta?
«Il ciclo de I mesi è un progetto pittorico che risale al 1998, quindi con una lunga gestazione, ma al quale sono riuscito finalmente a dare forma consistente 19 anni dopo.
«Si tratta di una sequenza di 12 olii su tela 120 x 150 (bxh) cm dedicata allo stesso albero, un cedro, maestoso tra i suoi simili, che vive nel Parco Imperiale di Levico Terme.
«La serie è concepita per costituire un bosco che si evolve nel tempo, uno scenario che coinvolge e accerchia completamente lo spettatore, lo spinge a guardare in alto e prova ad accompagnarlo verso il cielo.»
 
Come sono state realizzate le opere?
«Ho dipinto i lavori in circa un anno, visitando continuamente il parco e raccontandolo in studio, sulla tela. Non c’è un legame stretto ai mesi ed alle stagioni ma una sequenza pittorica di momenti che racconto progressivamente ai piedi del grande albero.
«Alla base del lavoro c'è senz’altro l’idea che la natura sia un dono in ogni suo angolo, in ogni sua manifestazione. Interpretando le centinaia di colori cangianti nel tempo che un organismo vitale come il parco offre, ho cercato di dipingere la ricchezza straordinaria che ci abbraccia quotidianamente, mettere su tela la musica che ci pervade mentre respiriamo in ambienti naturali.»
 
Lei ci ha abituato a visioni aeree, questa serie rappresenta invece visioni dal basso verso l’alto. C’è una ragione filosofica all’origine di questa scelta?
«Prediligo il punto di vista dall’alto nel dipingere luoghi urbani e persone. La visione aerea mi permette di allontanarmi e osservare meglio, non i dettagli certamente, ma le dinamiche complessive. Dal mio vascello in volo riesco a cogliere più serenamente la realtà, a raccontare l’umanità in modo distaccato con la consapevolezza che la specie Homo Sapiens e la sua breve storia di 200.000 anni è un frammento infinitesimale, quasi trascurabile, rispetto alla lunga e turbolenta vita della Terra.
«Il cambiamento di prospettiva scelto, cioè il punto di vista da sotto, per la lettura di questo albero in evoluzione, è essenziale per mettere me stesso, e chi guarda i lavori, a confronto diretto con la Natura, con la terra che ci ospita.
«Percepisco in generale gli alberi come i capelli del globo, come il collegamento diretto e privilegiato tra terra e cielo e, metaforicamente, tra materia e spirito, tra mente e pensiero tra noto e ignoto (anche se il mondo nel quale viviamo non è per nulla noto, per la stessa fisica teorica, e offre ben poche certezze).
«Pure noi, come gli alberi siamo delle antenne, dei collegamenti diretti tra terra e cielo: il nostro fisico accoglie, processa, combina, come succede per le piante, elementi primari (Carbonio, Ossigeno e Idrogeno) ed energia solare. Solo in sintonia, in vibrazione con questi due mondi, appunto terra e cielo, siamo vitali e i nostri pensieri possono davvero volare».
 

Matteo Boato,  I Mesi - trittico 2, olio su tela, 360x150cm, 2017.
 
La prospettiva da cui sono ritratti gli alberi in questo ciclo di lavori pare indicare che essi abbiano uguale valore e dignità dell’uomo, anzi, sembrano quasi suggerire simbolicamente un cambiamento radicale del modo di concepire la natura stessa. È così?
«In questi lavori l’albero si protende silenzioso al cielo, è in posizione dominante, visto da sotto, come peraltro spesso ci accade quando siamo in un bosco e ci confrontiamo con piante decennali. L’uomo però non nascondendo la sua pretesa superiorità lo rappresenta quasi esclusivamente di fronte. L’albero è molto più antico, più resistente e saggio, molto più lungimirante dell’essere umano.
«Siamo abituati a parlare di Natura come se il termine non ci riguardasse, come se noi esseri umani non ne facessimo parte. Su grande scala quasi tutto quello che l’uomo produce, costruisce, coltiva, in qualsiasi direzione l’uomo (parlo del mondo occidentale) si muova è per trarre profitto dall’ambiente o per dominarlo, raramente per entrare in sintonia.
«L’uomo, animale con straordinarie possibilità ed elevata intelligenza, sembra non la usi e neghi la sua essenza naturale per attingere energia, fino ad esaurirla, da qualsiasi fonte entrando in serio conflitto con la vita che lo circonda e lo accoglie».
 
Lei è sempre stato sensibile al tema dell’ambiente. Secondo lei la giustizia ambientale è inseparabile dalla giustizia sociale, ovvero, formulando meglio la domanda, è dell’idea che il dominio sulla natura sia il riflesso del dominio di una parte dell’umanità sull’altra, quella più debole?
«Chi eleva ad essere supremo il potere economico e il denaro, ha un rapporto arido con il mondo, un rapporto cinico, povero di emozioni primarie, limitato e negativo. I singoli individui sono certo responsabili, maggiormente i governi nazionali, ma in forma molto più invasiva, anonima e devastante lo sono le Corporation (gruppi di società commerciali con estensione sovranazionale) che votate a questa religione non si fermano di fronte a nulla e rappresentano un cancro non arginabile per l’umanità. Chi agisce in questi termini non ha alcun rispetto né per l’uomo né per l’ambiente in cui vive. Il dominio sulla Natura viene di pari passo al dominio sociale.
«Con il mio modesto lavoro di pittore provo a comunicare che su questa terra siamo tutti parte di una grande famiglia.
«La terra ha affrontato già quattro estinzioni di massa dalla sua nascita. Credo anche la storia dell’uomo sia ciclica e sia ricca di civiltà passate molto evolute, forse più di noi, e scomparse nel corso dei millenni. Le cause sono stati eventi naturali straordinari quali meteoriti, glaciazioni, inversioni dei poli magnetici, possibilmente pure slittamenti della crosta terrestre, come archeologia seria e geologia suggeriscono da tempo.
«Ma ora l’uomo sta provocando da solo un disequilibrio enorme nella vita del globo. Il coro di alberi che compone l’intero ciclo mi ricorda che senza il rispetto per loro, metafora della Natura, e senza il rispetto per la vita tutta, l'uomo si incammina verso la quinta estinzione di massa».
 

Matteo Boato,  I Mesi - trittico 3, olio su tela, 360x150cm, 2017.
 
Ogni generazione lascia alla successiva dei processi in atto, abbiamo quindi delle precise responsabilità verso i nostri figli, verso le generazioni future. Collegando questa riflessione all’ambiente e alla natura, qual è il suo pensiero a riguardo?
«Lasciamo ai nostri figli una bellissima ma stanca e stempiata terra che, esausta, non vede l'ora di eliminare il virus più persistente che l'abbia mai popolata: l'uomo. In sintonia con quanto il film Matrix (1999) suggerisca, l'animale Homo si comporta come una vera infezione e prolifera fino a sopprimere il suo organismo ospite ovvero il bello, ma finito, globo terrestre.
«Mi auguro il virus si ravveda, riconosca lo sfruttamento demenziale e insostenibile, la deturpazione oramai quasi onnipresente, per cambiare repentinamente e definitivamente rotta. Altrimenti l'unica rotta possibile per i nostri posteri sarà di costruire, con gli ultimi respiri, un'arca volante gigantesca, alla stregua di Ziusudra (da cui deriva la figura del Noè biblico) e puntare verso lo spazio aperto, verso un pianeta lontano, tra i tanti che brulicano di vita, e chiedere asilo ad una razza più intelligente della nostra.
«Siamo in tempo ma credo questo stia per scadere e non basta essere positivi, bisogna essere determinati fino al midollo per sovvertire questo destino.»
 
Esiste ancora secondo lei una natura incontaminata?
«No, purtroppo. L’isola di residui plastici grande quanto quasi due volte la superficie degli Stati Uniti individuata nel Pacifico ultimamente sta a significare che abbiamo raggiunto il fondo, abbiamo completamente riempito di residui tossici tutto il globo, causando comunque distruzione anche dove non arriviamo direttamente, come al Polo Nord e in Antartide.»
 
A Bardolino sono ancora esposti i suoi lavori presso la Loggia Rambaldi?
«Assolutamente sì, una parte di questi sono stati collocati nell’antica e bellissima loggia ristrutturata per la quale erano stati dipinti lo scorso anno. Ho integrato l’esposizione nella Barchessa (due spazi interconnessi dello stesso complesso) con altri lavori sulla tematica della terra e dell’acqua.»
 

Matteo Boato,  I Mesi - trittico 4, olio su tela, 360x150cm, 2017.
 
È dell’aprile scorso la sua ultima mostra inaugurata a Roma. Dove è stata allestita precisamente?
«Si chiama Spazio Veneziano ed è una galleria al piano terra di una villa immersa nell’affascinante e sereno quartiere Coppedé. I lavori in esposizione erano più di trenta ed è stata un’occasione ghiotta per approdare nella capitale.»
 
Con che criterio sono state selezionate le opere?
«Ho scelto lavori efficaci e dimensionalmente importanti sul tema della Piazza (da cui il titolo). Sono quadri che mi hanno accompagnato lo scorso anno in un’ampia mostra al MUSE di Trento.»
 
A cosa sta lavorando?
«Sto dipingendo in modo corposo luoghi urbani ed in particolare Riga (Lettonia), dove ho una mostra fino a settembre 2018. Ho appena terminato di dipingere interamente un’auto che sarà oggetto di mostra permanente a Trento, da giugno, presso Viaggigiovani.it. 
«Per ultimo sto approcciandomi ad un pianoforte che dipingerò per Hai mai suonato un’opera d’arte 2018, iniziativa parallela al Festival dell’Economia di Trento organizzata dall’ass. Il Vagabondo.
«In sostanza sono felice».
 
Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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