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Storie di donne, letteratura di genere/ 219 – Di Luciana Grillo

Erika Fatland, «Sovietistan. Un viaggio in Asia centrale» – In viaggio con l'autrice dal Turkmenistan al Kazakistan, dal Kirghizistan al Tagikistan, all’Uzbekistan

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Titolo: Sovietistan. Un viaggio in Asia centrale
Autrice: Erika Fatland
 
Traduttrice: Eva Kampmann
Editore: Marsilio 2017
 
Pagine: 544, Brossura
Prezzo di copertina: € 19,50
 
Quando l’Unione Sovietica è diventata un insieme di ex Repubbliche, in Asia centrale sono nati Paesi nuovi, che si raggiungono in genere dopo uno scalo a Istanbul, il cui nome finisce in -stan: Turkmenistan, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan.
Una giovane antropologa norvegese, Erika Fatland, racconta in Sovietistan il suo viaggio, sottolineando in ogni luogo ex sovietico «la medesima nostalgia… anche se l’opinione su Putin e sulla Russia contemporanea oscillava tra la profonda ammirazione, il senso d’impotenza e il disgusto…».
 
La prima tappa è il Turkmenistan, Paese visitato da pochi turisti, dove i giornalisti – se accreditati – vengono comunque controllati e pedinati. Non a caso Erika riesce a ottenere il visto spacciandosi per studentessa.
La prima sensazione che prova quando arriva nella capitale - Ashgabat - è di essere in un luogo abbagliante, ricco di palazzi di marmo e fontane, ma privo di abitanti: «Era se come tutto di quella città appartenesse al futuro, perfino le fermate degli autobus, munite di aria condizionata. Però mancavano gli abitanti del futuro».
 
Dunque, marmo e solitudine. E palazzi dalle forme più strane, come il Ministero dell’Istruzione che sembra un libro e la Facoltà di Odontoiatria un dente…, statue e immagini dei Presidenti un po’ dovunque, e divieti incredibili: niente barbe e capelli lunghi; niente spettacoli lirici, circensi, teatrali; niente studi di materie umanistiche e scientifiche, ma solo il «Ruhnama», storia nazionale scritto dal presidente (e sostituito quando al primo presidente segue il secondo).
La situazione cambia nei luoghi lontani dal potere, quando a bordo di una jeep Erika attraversa «un paesaggio piatto e immutabile… oltre la metà dei Turkmeni vive in piccoli insediamenti e villaggi nel deserto… però è proprio lì, fra quella povera gente che possedeva appena qualche pentola, un paio di cammelli e un gregge di capre, che sono stata accolta con più calore».
 
Qui ritrova le tracce della storia, di Gengis Khan e delle sue stragi: «I cavalieri mongoli annientarono completamente Otrar… i soldati saccheggiarono ogni singola città conquistata… A Samarcanda furono uccisi due terzi degli abitanti…».
La città di Merv – oltraggiata e saccheggiata più volte – ribattezzata da Stalin Mary, è oggi la seconda del Paese e la capitale del gas, è una città-cantiere, dove si continua a costruire.
Eppure, dal Turkmenistan dei palazzi di marmo, la gente vuole andar via, come l’autista che accompagna Erika alla frontiera con il Kazakistan, dove ci sono una striscia di terra, recinti di filo spinato, aria del deserto e strade maltenute: terra di nessuno.
 
Eppure, questa è la repubblica più ricca grazie al petrolio, al gas, ai minerali, ma è proprio in Kazakistan che l’Urss per molti decenni ha condotto i test nucleari che ancora oggi provocano la morte degli inermi cittadini.
L’autrice racconta l’interminabile viaggio in treno e la catastrofe ambientale che ha sconvolto Aralsk, una volta importante porto ittico, diventata ormai deserto e sabbia, dopo la scomparsa del lago; descrive le steppe kazake e il ripopolamento forzato voluto da Stalin che «si diede il tempo di spostare milioni di persone all’interno dell’impero… a metà degli anni ’30 Stalin si tolse definitivamente i guanti di velluto. Quei polacchi che non erano già stati incarcerati o uccisi furono deportati in Kazakistan… Intere nazionalità furono definite nemiche del popolo… Milioni di persone furono sradicate e costrette a rimettere radici a migliaia di chilometri di distanza…».
 
Erika raggiunge anche la capitale, Astana, per entrare nella quale auto e pullman «venivano fermati e tutti i passeggeri dovevano mostrare i bagagli e i documenti di identità. Noi, invece, passammo senza difficoltà» forse perché l’autista diciottenne aveva lavato l’auto, «convinto che una macchina tirata a lucido avesse più probabilità di riuscire a entrare».
Le informazioni che l’autrice raccoglie sono originali, curiose, preziose: il Tagikistan la sorprende per la quantità di auto di lusso (Mercedes-Benz) che percorrono le strade del Paese più povero, dove le autorità avevano costretto «gli abitanti dei villaggi montani» a trasferirsi, una sorta di deportazione, come quella subita dalla popolazione yaghnobi.
 
Erika, nel suo viaggiare di città in città ascolta racconti e riflessioni della gente semplice, con cui entra in contatto facilmente, come con Sveta, cameriera di un bar che di sera si trucca e - tra clienti vestiti di scuro - spera di trovare un marito.
Condivide ricordi di guerra, (c’è chi ripete che «l’importante è tenere insieme i cocci, sopportare la paura e l’incertezza, e procurarsi il pane quotidiano»), raggiunge il confine con l’Afghanistan, cammina sul Pamir, detto «il tetto del mondo», va a Bulunkul, dove vivono «quarantasei famiglie… abbarbicate a questo paesaggio lunare… senza copertura né per i cellulari né per internet», rievoca conflitti e occupazioni.
 
Poi è la volta del Kirghizistan, dove entra dopo aver visto l’autista consegnare il passaporto con una banconota all’interno, mentre «all’entrata era attaccato un adesivo con la scritta: Combattiamo insieme la corruzione e adoperiamoci per un Kirghizistan migliore!».
Erika sa che questo è il Paese più libero e democratico dell’Asia Centrale, la gente parla normalmente anche quando critica le istituzioni, ride dei politici, veste alla moda, è povera, ma si industria per sopravvivere e anche una donna può guidare un taxi… ma può essere rapita e costretta al matrimonio. Sono parecchie le storie di donne trascritte da Erika, giovani che avrebbero voluto studiare e conquistare l’indipendenza e che invece avevano dovuto piegarsi alle decisioni prese da genitori e suoceri.
«Tutto il nostro modo di considerare le donne e i bambini va cambiato. Non sappiamo neanche cosa siano le tradizioni romantiche. Nelle campagne l’unico sistema di procurarsi una moglie che gli uomini conoscono è quello di rapirla e violentarla… Tutta la nostra società è aggressiva… C’è parecchia violenza domestica, anche tra generazioni diverse. Dobbiamo diffondere una cultura più tollerante e pacifica. Ma come si fa?»
 
Ultima tappa l’Uzbekistan, dove «è consigliabile varcare la frontiera durante la raccolta del cotone… vengono cooptati centinaia di migliaia di medici, insegnanti, infermiere, funzionari e altri impiegati pubblici, oltre agli studenti del paese… E siccome il periodo di fioritura è breve, tutto il milione e quattrocentomila ettari di piante va privato dei fiocchi di bambagia in poche, febbrili settimane».
Tutto si lavora a mano e sotto il controllo di un potere invadente e oppressivo che condiziona pesantemente la vita dei cittadini.
Fatland rievoca gli attentati terroristici che hanno insanguinato la capitale uzbeka: «le autorità non esitarono ad attribuire la responsabilità al movimento islamista uzbeko, ad Al-Qaeda e a Hizb al-Tahir, il partito di Liberazione islamica» e suppone che proprio gli attentati possano essere un utile strumento di controllo e pressione sulla popolazione.
 
Uno degli ultimi capitoli è La stoffa di cui sono fatti i sogni e in qualche modo la lettura alleggerisce la tensione: ci sono i bozzoli in un catino di zinco, i gomitoli di seta, i colori naturali usati dai tintori, «i telai meccanici degli anni cinquanta che emanavano visioni di un futuro passato».
E c’è una cittadina operosa dove un ragazzo piange perché la ragazza di cui è innamorato sposerà un altro.
Tashkent, la capitale uzbeka, è l’ultima tappa del lungo viaggio di Erika che conclude così: «…è impossibile capire i cinque nuovi paesi dell’Asia centrale senza tener conto dell’influenza che hanno subito durante il periodo in cui erano repubbliche sovietiche… L’antica cultura dei clan è sopravvissuta alla collettivizzazione e ai comitati centrali… L’ospitalità, la passione per i tappeti, l’antica cultura dei bazar, l’amore per i cavalli e i cammelli: tutto questo è sopravvissuto fino ai nostri giorni e rende indimenticabile un viaggio nella regione».
 
Con Erika abbiamo viaggiato anche noi e con lei possiamo pensare che «ora come ora, potrebbe accadere praticamente di tutto».
 
Luciana Grillo – l.grillo@ladigetto.it
(Recensioni precedenti)

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