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Gianfranco Baruchello al Mart di Rovereto – Di Daniela Larentis

La mostra dell’artista curata da Gianfranco Maraniello è visitabile a Rovereto dal 19 maggio al 16 settembre 2018

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Autonomia della morte all'angolo di via Fiuminata il nove settembre 1974, 1974.
 
Una mostra che sorprende, semplice solo in apparenza, quella allestita al Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, dedicata all’artista Gianfranco Baruchello, celebre a livello internazionale come uno dei più interessanti artisti interdisciplinari.
Curata da Gianfranco Maraniello in collaborazione con Fondazione Baruchello, sarà visitabile al Mart di Rovereto dal 19 maggio al 16 settembre 2018.
Ad accogliere il visitatore un «Giardino di piante velenose», che racconta la relazione speciale dell’artista con la natura. L’opera è dunque un invito a prestare attenzione e a individuare i pericoli che possono celarsi dietro a forme e narrative affascinanti.
 

 
Dalla pittura ai lavori tridimensionali, passando per la pittura e il cinema sperimentale, l’esposizione esplora l’immaginario raffinato e vasto di questo noto artista contemporaneo al quale il Mart dedica la più ampia rassegna, alla ricerca di trame che continuano a intrecciarsi nella straordinaria vicenda di un grande protagonista dell’arte contemporanea.
Nato nel 1928, Gianfranco Baruchello dopo la guerra, nel 1945, si laurea in Giurisprudenza con una tesi in Economia, andando a lavorare alla Bombrini Parodi Delfino. Tra il 1949 e il 1955 si occupa della creazione dell’azienda di ricerca e produzione chimico-biologica Società Biomedica, azienda che lascia per dedicarsi completamente all’arte nel 1959.
La sua prima formazione avviene tra l’Italia e Parigi: conosce Sebastian Matta e nel 1962 Alain Jouffroy.
 

Red Riding Hood Contrariwise, 1964.
 
Indipendente dalle principali tendenze del periodo, nella sua lunga carriera di artista e pensatore, Baruchello ha intessuto rapporti intellettuali e di amicizia con grandi figure culturali come Marcel Duchamp, Jean-François Lyotard, Alain Jouffroy e Italo Calvino. Con loro ha condiviso l’esplorazione dei territori incerti del pensiero: la rottura delle convenzioni narrative, la critica ai modelli di controllo e potere, la decostruzione degli ordini di senso.
È del 1962 la partecipazione alla mostra «New Realists» alla Sidney Janis Gallery di New York (alla quale espongono anche Enrico Baj, Tano Festa, Mimmo Rotella e Mario Schifano).
Nello stesso anno è anche presente alla mostra curata da Alain Jouffroy e Robert Lebel a Parigi, presso la Galerie du Cercle.
Realizza oggetti in cui assembla libri o giornali che chiama «Cimiteri di opinione».
 

More news in a moment, 1966.
 
Pittura, cinema e produzione di libri sono solo alcuni dei linguaggi che Baruchello sperimenta; a partire dalla seconda metà degli anni sessanta pubblica un romanzo costruito da sole trascrizioni di sogni, «Avventure nell’armadio di plexiglass» (Feltrinelli, 1968) e il libro-oggetto «La quindicesima riga» (Lerici, 1967).
Nel 1998 con Carla Subrizi, Baruchello decide di donare la sua casa-studio, opere e archivi a una Fondazione che porta il suo nome.
Sue opere fanno parte di collezioni internazionali tra le quali quelle dei musei: Guggenheim e MoMA (New York), Hirshhorn Museum and Sculpture Garden (Washington), Philadelphia Museum of Art, Deichtorhallen (Amburgo), ZKM (Karlsruhe), Macba (Barcellona), Galleria nazionale d’arte moderna (Roma), Macro (Roma), MADRE (Napoli).
 

Casa in fil di ferro, 1975-1982 - Courtesy Massimo De Carlo, Milan London Hong Kong.
 
Nelle sale del Mart, il visitatore potrà osservare oltre duecento disegni realizzati a partire dalla fine degli anni Cinquanta, la maggior parte dei quali mai esposti prima.
Una vera e propria mostra nella mostra che descrive una pratica costante e quotidiana con cui Baruchello interpreta il reale.
Attraverso formati e intenzioni differenti, egli sperimenta tecniche e soggetti, esplora i temi e i progetti che si ritrovano in tutte le sue opere.
Spiccano all’interno del percorso espositivo lavori di grandi dimensioni, che nelle grandi sale del Mart vengono per la prima volta presentati al pubblico come nel caso di «Milioni di colori nitidi» o trovano la loro ideale configurazione come «Il fiume» e «La quindicesima riga».
 

Le moi fragile, 2018.
 
Due nuove opere ambientali sono state realizzate appositamente per la mostra al Mart: «L’archivio ci guarda», una riflessione sugli sguardi collettivi e individuali che provengono dalla storia, e «Le moi fragile», un’installazione sul rapporto fra il sogno, la politica e il cinema nella forma di un set contemporaneamente psicoanalitico e cinematografico.
Infatti, quello del sogno è uno dei leitmotiv non solo della mostra ma di un’intera vicenda artistica.
Il visitatore si muove in una sospensione, uno stadio intermedio tra la coscienza e l’inconscio, tra la scomparsa e la memoria.
Non mancano i celebri plexigass: scatole di legno appese alle pareti o disposte nello spazio con le stratificazioni di sogni e le combinazioni di oggetti, ritagli, materiali secondo un approccio narrativo che affianca ciò che sembra non possa coesistere, sperimentando nuove adiacenze e analogie fra le cose.
Definiti da Carla Subrizi come veri e propri alfabeti, i lavori di Baruchello sono una topografia del pensiero nella quale si intrecciano vicende personali e vicende pubbliche, riferimenti letterari e scientifici.
 

 
Fra le varie e interessanti sotto molti punti di vista opere esposte (ogni opera si presta a più letture), una fra le più recenti ha colpito particolarmente la nostra fantasia, quella intitolata «Oblioteca» (2018); si tratta di una fila di boccette in vetro collocate su di una mensola, etichettate, affiancate da un tampone a inchiostro e un modulo sul quale è riportata la seguente indicazione: «Nei giorni 17 e 18 maggio 2018, alcune persone hanno eseguito la prevista azione di dimenticare, pronunciando all’interno della bottiglia parole (o nomi).
«Le bottiglie, sigillate anonime, non numerate, (contrassegnate dalla sola impronta del pollice della mano destra dell’utente), sono dal giorno 18 maggio 2018 conservate per sempre nella oblioteca.»
 

La presqu' île intérieure, 1963.
 
Quanto sarebbe bello poter dimenticare alcune delle parole che rimandano ai tremendi fatti che accadono ogni giorno nel mondo, alle tante ingiustizie che vengono perpetrate in ogni angolo del pianeta, e come sarebbe bello dimenticare alcune delle parole che rimandano a «cose» che affollano, complicandola, quotidianamente la vita di ognuno: offese ricevute, sgarbi, dolori grandi e piccoli.
Quanto sarebbe bello consegnare ogni parola che rimanda a un pensiero negativo, a ogni dispiacere, a ogni aspettativa disattesa, a ogni sofferenza grande o piccola che sia alla formidabile oblioteca creata da Gianfranco Baruchello e che ora, temporaneamente, si trova al Mart.
 

Oblioteca, 2018 - Courtesy l’artista.
Oblioteca, 2018 - Courtesy l’artista, particolare.

 
La tentazione di lasciare anche noi la nostra impronta è stata grande, affidando una parola a una di quelle bottigliette, tuttavia ci siamo astenuti più per timore di alterare, rovinandola, un’opera d’arte che per altro (e per paura di essere giudicati).
Del resto, si sa, le parole sono segni e servono per assegnare un significato all’esperienza e a comunicarlo.
Lo sapeva bene il linguista e semiologo svizzero Ferdinand de Saussure, il quale concepiva le parole come classi, l’insieme delle cose, delle sensazioni, degli eventi che la parola può denotare.
 

L'organo degli organi, 1963.
 
Per Saussure i segni sono nella nostra mente, il significato delle cose non sono le cose ma le classificazioni operate dalla lingua, la quale stabilisce il significato delle cose in funzione del valore che le parole hanno nella sua struttura.
Anche l’arte può essere studiata come codice, le arti ritagliano una forma da una materia (dell’espressione e del contenuto) per dare vita a una sostanza delle singole opere e delle interpretazioni individuali di quest’ultime.
Chi ama l’affascinante e sconfinato mondo della semiotica troverà in questa interessantissima mostra pane per i propri denti…
 
Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it
 
A little more paranoid, 1962.

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