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Un salvagente al vescovo: «Matteo Miotto, ma quale eroe?»

Che bisogno c'era di esprimersi in maniera così intempestiva, quando ancora non sono asciugate le lacrime dei genitori?

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Non vorrei sembrare di parte, dato che ho passato una decina di giorni in Afghanistan con i nostri alpini, ma mi ha fatto una certa impressione leggere che il vescovo di Padova si sia apertamente schierato contro l'idea di considerare «eroe» Matteo Miotto, l'alpino che è morto in un conflitto a fuoco in un avamposto del Gulistan.
Quantomeno piuttosto intempestivo.

«Non è un eroe. - Ha detto il vescovo. - Come si diventa eroi? Quali azioni deve compiere un uomo per fregiarsi dell'appellativo di eroe? C'è qualche corsia preferenziale da percorrere per diventarlo? Chi decide chi è un eroe e chi non lo è? Se è un eroe chi muore combattendo per lo Stato, lo è anche chi muore lavorando in fabbrica? Domande forse banali e poco interessanti ma che nelle ultime ore hanno scatenato l'ennesima polemica sulla presenza delle truppe italiane in Afghanistan.»

«Certo sono dispiaciuto per la morte di questo ragazzo, - ha subito precisato il vescovo - Ma non sono d'accordo con una certa esaltazione retorica. Non facciamone degli eroi. Magari poi si scopre che un soldato è morto per una mina fabbricata in Italia.»
Poi ha avanzato i propri dubbi sulla «missione di pace».
«Ma quelle non sono missioni di pace. I nostri soldati vanno lì con le armi…»

Il nostro commento è semplice e si svolge in cinque considerazioni.

Matteo non è morto dando la vita per salvare qualcuno, se è questo che l'iconografia popolare intende per eroe. D'altronde esistono vari livelli di encomio proprio per dare diverso peso ai singoli episodi.
Ma il fatto che Matteo non abbia messo in dubbio che la vita doveva rischiarla, lo pone comunque su un livello decisamente elevato di per sé.

Che sia o non sia una missione di pace, è ininfluente per un soldato: è la politica (cioè il Paese) che lo decide, che lo manda in un teatro anziché in un altro.
Ma la differenza tra una missione di guerra e una di pace non è una sottile linea rossa. Consiste nel diverso codice militare. In quello di pace, l'uso delle armi è talmente circoscritto da rendere la missione paradossalmente molto più rischiosa di una di guerra.
Basti pensare che se i nostri militari venissero presi a cannonate da un villaggio, in missione di pace non potrebbero rispondere al fuoco finché non hanno accertato che nel villaggio non ci sono civili.

E per favore non paragoniamo il militare a un operaio di fabbrica.
Quest'ultimo va a lavorare in un posto dove la morte non può essere neppure messa in discussione nei contratti di lavoro. Tanto vero che se accade qualcosa, la proprietà ne è responsabile.
Il primo invece lavora in un posto e in condizioni dove la morte è considerata un evento possibile.

Quanto alle armi «che magari sono costruite da italiani», per carità, almeno non incolpiamo le vittime!

Infine, l'opportunità di parlare. Tutti possono farlo in questo Paese, grazie a Dio. Anzi, grazie al nostro Dio, dato che nei paesi islamici non c'è proprio una gran libertà di parola.
Quindi il vescovo ha espresso la sua soggettività, così come noi stiamo esprimendo qui la nostra.
Probabilmente ha ragione a invitare di non esagerare sugli atti di eroismo.
Ma poiché siamo certi che chi dovrà valutare il comportamento di Matteo lo farà con estrema obbiettività, ci domandiamo che senso abbia avuto declamarlo ai quattro venti.
Non si poteva lasciare che i poveri familiari pensassero che tutto il paese considerasse il proprio figlio un Eroe?
Anche perché lo è a tutti gli effetti.

GdM
g.demozzi@ladigetto.it

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