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Storie di donne, letteratura di genere/ 4 – Di Luciana Grillo

Trilogia di Carla Carloni Mocavero: le sue storie, la grande Storia – Secondo romanzo: «La donna che uccise il generale – Pola, 10 febbraio 1947»

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Titolo: La donna che uccise il generale. 
            Pola, 10 febbraio 1947
 
Autrice: Carla Carloni Mocavero 
Editore: Ibiskos Editrice Risolo, 2012
 
Pagine: 248 pagine, brossura
Prezzo di copertina: € 12 
   
Qualche anno dopo la pubblicazione di «Lo sconosciuto che le dormiva accanto» (vedi recensione precedente), Carla Carloni Mocavero offre un altro quadro relativo all’Italia nord orientale, affrontando un crudele fatto di cronaca.
Ma lo fa non per giudicare, condannare, criticare o assolvere un’assassina, ma semplicemente per capire.
Il romanzo è «La donna che uccise il generale – Pola, 10 febbraio 1947».
 
L’autrice si chiede – e ce lo chiediamo anche noi – perché intorno ad un fatto di cronaca così efferato e inspiegabile ci sia stato e ci sia tanto silenzio.
Perché i patrioti come Oberdan o Nazario Sauro vengono ricordati e celebrati con monumenti, lapidi, intitolazione di strade, piazze, scuole, aule… E invece la Pasquinelli viene ignorata?
Non diventa una nuova Giovanna d’Arco… Una volta scontata la pena, la Pasquinelli si chiude in un doloroso e rigoroso riserbo.
 
Noi incontriamo il 10 febbraio 1947 l’assassina Maria Pasquinelli già armata, pronta a colpire – perché l’Autrice entra “in medias res” – e l’assassinato, il generale inglese Robin de Winton che cammina tranquillo, senza scorta.
È lo stesso giorno in cui a Parigi è stato deciso il passaggio alla Jugoslavia di Fiume, Zara e tanta parte del territorio nord orientale italiano.
A omicidio compiuto, l’Autrice ci racconta – e tutto ciò presuppone una ricerca capillare in archivi, redazioni ecc. – ciò che accadde subito dopo, le reazioni immediate, gli interventi dei politici, gli articoli apparsi sui giornali, lo svolgersi del processo.
 
Ma chi era davvero Maria? forse la signorina di buona famiglia, laureata in pedagogia, insegnante, timorata di Dio, riservata, innamorata della sua Patria, delusa profondamente dagli avvenimenti politici che vedono il passaggio di tanta parte del territorio dell’Italia Orientale nella Jugoslavia di Tito, traumatizzata dalla visione dei cadaveri dei suoi amici infoibati e da lei esumati e identificati?
O invece aveva contatti con persone politicamente attive sul piano nazionale e internazionale?
Chi le aveva dato la pistola e chi le aveva insegnato a sparare?
E c’è stato, forse, l’intervento dei servizi segreti o di chi sosteneva i ribelli e diceva «armiamoci e partite»?
O era forse una squilibrata, fanatica, incapace di intendere e di volere?
 
L’Autrice ci fa partecipare al processo, riportando le arringhe della difesa e dell’accusa e anche la risposta della Pasquinelli, così descritta da Amedeo Lasagna, giornalista del Corriere della Sera l’11 aprile 1947:
«Maria Pasquinelli, soffuso il volto di un lieve rossore, sotto il casco bruno dei capelli ricciuti, le braccia conserte, non si scompone, sorride alle suore, che sembra vogliano infonderle coraggio e prende poi a parlare con il suo difensore.»
 
La donna sembra addirittura distratta, forse sprezzante.
Sicuramente non chiede perdono, vuole immolarsi per la Patria perduta.
L’autrice ci dice che fino al 1956 non fu chiesta la grazia per la Pasquinelli, però ci racconta che intorno a questo caso giudiziario nacque un vivo interesse, che non si limitò all’area geografica di nord est, se già nell’aprile del ’47 alla Lega Nazionale di Trieste pervennero sei volumi rilegati in pelle sui quali si leggeva in oro «Napoli domanda la grazia per Maria Pasquinelli».
“Da tutte le terre d’Italia, dalle città, dai villaggi dolenti e tristi ancora per le rovine spaventose di una guerra mostruosa, sale il grido implorante grazia dalla Nazione amica per Maria Pasquinelli, dalla iniqua mutilazione della Patria trascinata a un atto che la sua viva e operante umanità e la fervida sua fede cristiana profondamente riprovavano”.
 
Ancora da Napoli fu spedito all’on. De Nicola questo telegramma:
«Le donne napoletane la scongiurano a nome di tutte le donne italiane di intercedere presso le autorità alleate per la grazia di Maria Pasquinelli.»
A Trieste, poi, sono numerose le iniziative a favore della Pasquinelli, dal lancio di manifesti in cui si chiede «un atto di umanità» alle lettere inviate all’avv. Giannini, suo difensore al processo.
L’unico risultato che si ottenne fu la decisione di tramutare la condanna alla pena di morte in ergastolo.
 
Mi sembra interessante ricordare quanto pubblicato sull’Osservatore Romano il 23 maggio 1947 sotto il titolo «Due sono le vittime: l’eroe per gli uni può essere il colpevole per gli altri…»
Questa espressione è sintomatica, indica la consapevolezza della confusione che regnava in quegli anni, quando non si capiva più dove fosse il bene e dove fosse il male, chi fossero gli amici e chi i nemici.
 
Risulta interessante la lettura di un articolo pubblicato su Il Sole 24 ore del 9 marzo 2008 secondo cui «È giusto condannare l’orrore delle foibe e l’esodo forzato dall’Istria, ma occorre anche ricordare le nefandezze commesse prima nei territori occupati».
Chi scrive è Boris Pahor, notissimo intellettuale sloveno, nato a Trieste nel 1913, laureato a Padova, che si augura di poter leggere la relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena «che farebbe conoscere all’opinione pubblica e, includendola nei manuali di storia, anche ai giovani, la verità storica delle due memorie».
 
La Carloni, insomma, racconta una storia vera come se fosse un romanzo…
 
Luciana Grillo

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