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«Laggiù tra il ferro. Storie di vita. Storie di reclusi» - Di Nadia Clementi

L'avvocato Nicodemo Gentile racconta il dolore e la rabbia delle nostre prigioni italiane che ha riportato nel suo nuovo libro

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Di carcere se n’è parlato e se ne parla fin troppo. È sempre stato un argomento scottante, controverso, che divide le coscienze e che apre a riflessioni molteplici e di varia natura.
Quello dei penitenziari è un mondo complesso e foriero di dolore; le vite e le vicende che si intrecciano dietro le sbarre sono sempre drammatiche, per i colpevoli e per le vittime, per chi ci lavora e per chi cerca di restituire una vita dignitosa ai carcerati.
Al di là dei giudizi morali (gli unici che possiamo dare perché solo il tribunale può decidere chi è colpevole e chi innocente) ogni cittadino merita una seconda opportunità e lo Stato deve potergliela offrire. Quello della finalità rieducativa della pena è un argomento ampiamente discusso e che spesso schiera opinioni diverse.
 
L’Italia ha proprio nella sua Costituzione l’indicazione che il carcere deve essere uno strumento di rieducazione e di correzione del comportamento del reo, non un mero strumento di detenzione e privazione della libertà.
Belle parole, certamente, ma come sa bene chi il carcere lo vive e chi ci lavora, non sempre è così.
Il sistema penitenziario in Italia soffre di grandi disagi, in primis il sovraffollamento e la mancanza di risorse economiche, che impediscono di fatto di creare un percorso ad hoc per ogni detenuto; anzi, è già difficile che, una volta scontata la pena, quelle persone non ricadono nel crimine.
 
È dunque significativo che una delle ultime riforme varate dal governo Gentiloni sia stata proprio quella sul sistema detentivo in Italia, a firma del Ministro Orlando, un piccolo passo che mira a migliorare un sistema complesso, per non dire, al limite della sostenibilità.
Meno carcere e incremento delle pene «alternative», riorganizzazione degli uffici del settore penitenziario per restituire efficienza al sistema, diminuzione del sovraffollamento.
Sono solo alcuni dei principi fondanti del decreto legislativo elaborato dal Ministero della Giustizia e da pochi giorni pubblicato sulla Gazzetta dello Stato.
 
Un’approvazione arrivata nell’ultimo momento utile del Governo di un Parlamento ormai sciolto, mentre all’interno degli istituti di pena italiani il sovraffollamento ha ricominciato a farsi sentire con i suoi numeri impressionanti: 58.115 detenuti presenti, rispetto ai 50.511 previsti dalla capienza regolamentare (dati del Ministero della Giustizia).
Un risultato commentato positivamente e che si propone di cambiare il volto del sistema carcere italiano, nel recente passato al centro anche di sanzioni europee.
In sintesi, ci sarà l’allargamento della popolazione carceraria che potrà ottenere i benefici di legge, come la «messa alla prova» e il lavoro esterno, o altre forme di espiazione della pena.
 
Si sono dunque poste le basi per semplificare le procedure davanti al magistrato di sorveglianza, facilitare il ricorso alle misure alternative, eliminare automatismi e preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari, incentivare la giustizia riparativa, incrementare il lavoro all’interno del carcere e all’esterno, valorizzando il volontariato, riconoscere il diritto all’affettività e gli altri diritti previsti dalla Costituzione ma spesso, aihmè, disattesi.
A questo si aggiunge la valorizzazione al mantenimento delle relazioni familiari anche attraverso l’utilizzo di collegamenti via Skype, al riordino della medicina penitenziaria, all’agevolazione dell’integrazione dei detenuti stranieri, alla tutela delle donne e, nello specifico, delle detenute madri, al rafforzamento della libertà di culto.
Tutte misure che mirano non solo a migliorare la vita del detenuto ma soprattutto a renderlo un cittadino migliore, un cittadino sul quale lo Stato investe risorse ed energie per renderlo una persona migliore.
 
Noi per parlare di questo tema delicato eppure così importante abbiamo interpellato Nicodemo Gentile, avvocato penalista di grande fama e con il quale abbiamo già parlato altre volte.
Da poco è uscito nelle librerie il suo libro dal titolo «Laggiù tra il ferro. Storie di vita. Storie di reclusi». L’avvocato e scrittore per raccontare il carcere italiano si è recato anche lui nei luoghi di dolore e di rabbia che sono le nostre prigioni, raccogliendo storie sconosciute della vita dietro alle sbarre, spaccati di quotidianità spesso drammatici.
Con le competenze tecniche che gli derivano dalla sua professione, Nicodemo Gentile dipinge un quadro estremamente accurato della situazione in cui versa la maggior parte dei detenuti nel nostro Paese per cercare di capire chi non ha più prospettive di vita libera, chi non riesce assolutamente ad adattarsi alle privazioni quotidiane, chi ha perso ogni speranza o chi non vuole e non sa rassegnarsi ad una vita chiusa a chiave.
 

 
Avvocato Gentile, ci racconta la genesi di questo libro: come ha deciso di raccogliere le storie dei detenuti italiani e quali carceri sono stai presi in esame?
«Qualche anno fa, lungo il percorso che ero solito fare per andare a far visita ad un mio assistito, è nata l'idea di questo libro. Ci sono voluti un po' di tempo e di energia per dare forma a questo progetto, per fare ordine tra i miei ricordi, acquisire materiale e selezionarlo. È stato poi ultimato la scorsa estate.
«Come scrivo nel libro, è un viaggio all'interno del penitenziario, dove a parlare sono i detenuti e le loro esperienze in diversi penitenziari (Regina Coeli di Roma, Castrogno di Teramo, Capanne di Perugia ed altri).»
 
Lei ha seguito processi importanti e drammatici che tutti conosciamo: dal delitto di Melania Rea a quello di Sarah Scazzi, solo per citare i più noti. Questa sua esperienza le ha permesso di difendere le vittime ma di battersi anche per gli accusati. Questa esperienza cosa le ha insegnato sulla giustizia italiana?
«Chi sceglie di fare l'avvocato, a volte si ritrova a difendere gli imputati, altre volte le persone offese. Nella giustizia italiana, a prescindere da quale parte della barricata uno si trovi, il ruolo dell'avvocato è sempre importante e delicato perché si è sempre difensori non solo di regole, ma anche di persone, e quindi di interessi ma soprattutto di esperienze umane, con tutto il loro carico di difficoltà emotive.»
 
Che i carceri italiani versino in una situazione allarmante è cosa nota, soprattutto dal punto di vista umano, ma per quanto riguarda l’anima dei detenuti lei che cosa ha rilevato nel suo viaggio «dietro le sbarre»?
«Sicuramente il carcere, con le sue restrizioni, amplifica il senso di solitudine e di fragilità emotiva di chi vive un'esperienza di questa portata.
«Spesso l'avvocato diventa l'unico punto di riferimento del detenuto, che chiede di essere sostenuto non solo tecnicamente ma anche sotto il profilo umano.»
 
La riforma Orlando è stata accolta da più parti con commenti entusiastici, Lei che ne pensa?
«Le recenti modifiche legislative che dovrebbero incidere anche sul regime carcerario e sulle misure alternative alla detenzione ritengo vadano viste con favore, anche se, come per tutte le cose, il vero banco di prova sarà la concreta applicazione.»
 

 
Si parla di maggiore attenzione ai bisogni dei detenuti: maggiori contatti con le famiglie, possibilità di lavorare fuori dal carcere e così via. In molti però temono che si tratti di circostanze troppo «morbide», lei come la pensa?
«Dovrebbe trovarsi un giusto contemperamento tra le esigenze di tutela della collettività e le aspirazioni di rieducazione cui, costituzionalmente, dovrebbe tendere la pena.»
 
Un altro problema è quello della detenzione di una grande quantità di persone accusate di aver commesso piccoli reati (come lo spaccio o i furti in appartamento), gente che entra ed esce dal carcere per tutta la vita e da questa esperienza non trae nessun beneficio. Quale può essere una soluzione?
«Purtroppo la recidiva è la dimostrazione tangibile che in molti casi il tentativo di rieducazione fallisce. Dovrebbero quindi mettersi a punto misure alternative capaci di limitare il rischio di ricadute nel reato.»
 

 
Dal lato opposto del mondo del carcere c’è il 41bis o l’ergastolo con isolamento, pene durissime che a tanti sembrano disumane (pensiamo al caso Provenzano). In molti in questi casi evocano addirittura la pena di morte come soluzione più adeguata. Al di là della provocazione, qual è il confine da non superare?
«Il confine da non superare mai ritengo sia la dignità umana. Come diceva il compianto magistrato di Sorveglianza Dott. Margara, i detenuti vanno sempre e comunque trattati come uomini perché tali rimangono a prescindere dai fatti di cui si sono macchiati.»
 
Nadia Clementi - n.clementi@ladigetto.it
avv. Nicodemo Gentile - nicodemo.gentile@virgilio.it


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