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Giovanni Ermete Gaeta, autore della «Leggenda del Piave»

In arte E.A. Mario, fu uno dei più prolifici autori musicali della prima metà del 1900

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E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta, era nato a Napoli il 5 maggio 1884 ed è stato uno dei più noti parolieri e compositori italiani, autore di numerose canzoni di grande successo, tra le quali La canzone del Piave.
Compose alcuni brani in lingua italiana, altri in lingua napoletana, dei quali quasi sempre scriveva sia i testi che la musica.
È sicuramente da annoverare, insieme a Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo e Libero Bovio, tra i massimi esponenti della canzone napoletana della prima metà del Novecento e uno dei protagonisti indiscussi della canzone italiana dal primo dopoguerra agli anni cinquanta, sia per la grandissima produzione - dovuta alla sua felicissima vena poetica - che alla qualità delle sue opere.
 
Il futuro E.A. Mario nacque a Napoli da una modesta e povera famiglia di Pellezzan, in un basso di Vico Tutti i Santi, a ridosso della Parrocchia S.Maria di Tutti i Santi, in uno dei quartieri più popolari della città (Borgo S.Antonio Abate), quartiere Vicaria.
Il padre, Michele Gaeta, era barbiere e la madre, Maria della Monica, una casalinga.
Il retrobottega della barberia del padre era tutta la loro casa. Un locale dove vivevano molte persone di famiglia; il fratello Ciccillo, le sorelle Agata e Anna, lui, la madre ed il padre. In altre due piccole stanzette, tre zie ed uno zio.
Si sposò nel 1919 con Adelina, figlia di un'attrice molto famosa all'epoca, Leonilde Gaglianone. Il loro fidanzamento fu brevissimo, durò infatti appena tre mesi.
Dal loro matrimonio nacquero poi tre figlie: Delia, Italia e Bruna.
In giovinezza frequentò un altro grande poeta e commediografo napoletano, da cui fu assai benvoluto, Eduardo Scarpetta, genitore dei fratelli Eduardo, Peppino e Titina De Filippo.
Collaborò molto con il massimo editore napoletano dell'epoca, Ferdinando Bideri.
 
Non divenne mai ricco poiché assai presto, per esigenze familiari e soprattutto a causa di una grave malattia della moglie, decise di vendere a una casa editrice di Milano i diritti di tutte le sue canzoni dei quali ricevette, negli anni successivi solo una piccolissima percentuale.
Fu un appassionato e accanito lettore di libri, specialmente storici, e così riuscì a formarsi una cultura assai ricca e pluridisciplinare.
Un suo vezzo era, di tanto in tanto, arricchire la sua dialettica con citazioni sempre precise e puntuali.
In gioventù si iscrisse all'Istituto nautico ma, poiché le tasse scolastiche risultavano troppo impegnative per la modesta economia familiare, non poté mai concludere gli studi e diventare capitano di lungo corso.
 
Quando aveva circa dieci anni, un posteggiatore, entrato nel negozio di barbiere del padre, dimenticò un mandolino sulla sedia e, grazie a quello strumento che prese a strimpellare da solo, iniziò a suonare e iniziò comporre le prime melodie.
Apprese poi a suonare bene il mandolino e imparò a leggere la musica da autodidatta grazie a una pubblicazione settimanale della Casa Editrice Sonzogno, «La musica senza maestro». L'intera raccolta è tuttora in possesso della figlia Bruna.
Molti lo chiamavano «maestro» ma, lui, pur essendo di fatto divenuto musicista, si schermiva dicendo di non esserlo. Egli componeva la melodia, l'armonia completa di motivo, e in seguito un maestro esperto trascriveva le partiture senza cambiare quasi mai nulla del motivo originale, sui testi precisi nel ritmo che, già all'abbozzo, risultavano perfetti e facili da trascrivere sul pentagramma.
 
Giovanissimo si impiegò nelle Regie Poste Italiane a Napoli, lavorando negli uffici di Palazzo Gravina, nella zona di Monteoliveto, vecchia sede delle Poste Napoletane, dove - alcuni anni prima di lui - aveva lavorato come telegrafista una grande scrittrice napoletana, Matilde Serao.
Gaeta fu assegnato allo sportello delle raccomandate e dei vaglia, dove, dopo poco tempo, fece un incontro fortunato. Un giorno, riconobbe davanti a lui, avendone letto il cognome come mittente di una raccomandata, il musicista Raffaele Segrè, noto compositore di canzonette dell'epoca.
Con la sfrontatezza e la sincerità propria del suo carattere e della sua giovanissima età, ebbe a dirgli: «Maestro, le vostre musiche sono bellissime ma i testi sono tante papucchielle!».
Il musicista, risentito, stava quasi per rispondergli in malo modo ma le molte persone presenti e i colleghi del poeta, che già lo conoscevano molto bene, gli fecero capire che il ragazzo era molto bravo poeticamente: «Professò, chisto è uno ca 'e poesia se ne intende!».
Il Segrè allora, preso da un'istintiva simpatia, gli lanciò una sfida: «Facimme 'na cosa, scrivetemi voi un testo, una poesia, e io, se sarà bella, ve la musicherò!».
Fu così che nacque la sua prima canzone in lingua napoletana, «Cara mamma», pubblicata dalla Casa editrice Ricordi.


 
La sua attività di poeta iniziò nel 1902 a Genova e a Bergamo. A Genova conobbe Alessandro Sacheri, giornalista e redattore capo de "Il Lavoro" che, resosi conto del valore del giovanotto (aveva diciotto anni), gli diede il suo primo lavoro da giornalista. Il giovane talento scelse di utilizzare lo pseudonimo di «Hermes» utilizzato alternativamente con «Ermes».
Grazie alla cultura molto varia che si era costruito attraverso la lettura, era in grado di scrivere e pubblicare articoli su vari argomenti.
Dalle Poste fu successivamente allontanato per «scarso rendimento», poiché l'impiegato postale Giovanni Gaeta si assentava assai spesso, in apparenza senza giusti motivi. Successivamente, accertato che Giovanni Gaeta altri non era che il celebre E. A. Mario, fu reintegrato perché tutti erano orgogliosi di lui. E nell'amministrazione postale continuò a lavorare per tutta la vita.
 
Alla sua notevole cultura letteraria e musicale, unì un carattere generoso e sensibile, il che gli meritò grande stima e affetto da parte di tutti coloro che ebbero modo di frequentarlo.
Le sue composizioni furono anche oggetto di imitazioni: Totò, agli inizi della carriera, compose e recitò «Vicoli», una parodia della canzone «Vipera» di E. A. Mario.
 
Nel 1918, nella notte del 23 giugno, poco dopo il termine della Battaglia del Solstizio, in seguito alla resistenza e alla vittoria italiana sul Piave, scrisse di getto i versi e la musica de La canzone del Piave, che gli procurò subito una grande notorietà.
La canzone servì a risollevare il morale dei soldati, e lo stesso comandante in capo Gen. Armando Diaz gli telegrafò per fargli sapere che la sua canzone era servita a dare coraggio ai nostri soldati e ad aiutare lo sforzo bellico «più di un generale».
La canzone fu considerata una sorta di inno nazionale, poiché esprimeva la rabbia e l'amarezza per la disfatta di Caporetto e l'orgoglio per la riscossa sul fronte veneto.
In particolare, nel periodo costituzionale transitorio durante la fase conclusiva della seconda guerra mondiale, la canzone fu adottata provvisoriamente come inno nazionale italiano.
In seguito, ad Alcide De Gasperi, che l'aveva convocato a Roma, per chiedergli di scrivere l'inno ufficiale per la Democrazia Cristiana, facendogli intendere che avrebbe, con grande piacere, appoggiato la candidatura della sua canzone nella scelta dell'inno definitivo, E. A. Mario rispose che non se la sentiva di scrivere qualcosa su commissione, perché componeva solo per ispirazione. Comunque sia, lo statista trentino sostenne l'Inno di Mameli.
La canzone del Piave è stata riproposta come inno nazionale il 21 luglio del 2008 da Umberto Bossi.
 
E.A. Mario volle anche rendere un tributo alla amata Patria: di tutte le medaglie che aveva ricevuto dai comuni interessati, le prime cento le donò «alla Patria», assieme alle fedi nuziali sua e di sua moglie, nel novembre del 1941. Le altre che gli restarono furono poi rubate dopo la sua morte, nel maggio 1974 nella casa di una delle figlie, esclusa la Commenda in oro che gli aveva consegnato il re Vittorio Emanuele e i gemelli in oro donati dall'ex re Umberto II in occasione del suo settantesimo compleanno.
Questi cimeli sono attualmente conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli, Lucchesi Palli, nella sala a lui intitolata e dedicata.
 
Nel 1904, Giovanni Gaeta adottò per la prima volta lo pseudonimo di E. A. Mario, che gli avrebbe poi portato tanta fortuna facendolo diventare famoso in tutto il mondo con le sue canzoni. Il suo nome d'arte E. A. Mario, è la composizione di varie scelte.
«E» deriva dal suo primo pseudonimo Ermes (o Ermete), «A» fu scelto come segno di riconoscimento e stima verso Alessandro Sacheri, giornalista e scrittore, suo amico fraterno, nonché caporedattore del quotidiano genovese Il Lavoro, che gli pubblicò i primi lavori di scrittore. Mario stava ad indicare il patriota Alberto Mario, che fu suo idolo nella giovinezza, trascorsa con grande passione mazziniana e, forse, anche perché gli piaceva lo pseudonimo con il quale si firmava la poetessa polacca, direttrice del periodico Il Ventesimo di Bergamo Maria Clarvy.
Il suo pseudonimo fu adottato per la prima volta nel 1904, nella pubblicazione della sua prima canzone, in napoletano, intitolata Cara mammá, della quale si è detto in precedenza presso l'Editore Ricordi di Milano.
 
Agli inizi della carriera, era solito firmare i suoi lavori con il suo vero nome, Giovanni Gaeta. Nutriva in quel periodo, una grande ammirazione per il Carducci e per Mazzini, ai quali spesso dedicava i suoi versi.
Una delle sue prime composizioni in lingua, nel 1905, fu proprio la Canzone a Mazzini, con prefazione della poetessa veneta Vittoria Aganoor Pompilj, un poemetto di 999 novenari, che gli procurò anche un «amichevole richiamo» da Mario Rapisardi, appassionato mazziniano.
Ciò però non lo distolse dal desiderio di portare la prima copia del suo lavoro, direttamente sulla tomba di Mazzini a Staglieno, in segno di grande ammirazione.
Il 9 febbraio 1916 fu iniziato in Massoneria nella Loggia Unione e Lavoro di Napoli.
Un aneddoto narra di quando, nel 1922, venne convocato al Quirinale dal re Vittorio Emanuele III in occasione dell'inaugurazione del Vittoriano, e non seppe trattenersi dal professare apertamente in faccia al sovrano la sua fede repubblicana e mazziniana.
Il re, che evidentemente quel giorno era di buon umore, gli rispose: «Vi sono parecchi repubblicani che, come lei, hanno reso grandi servigi alla monarchia!», e lo nominò commendatore.


 
Nell'attività di poeta e compositore esplose tutta la carica vulcanica della sua viscerale napoletanità. In tutta la sua lunga carriera scrisse oltre duemila canzoni, musicandone anche una buona parte.
La versatilità del suo genio artistico lo portava a toccare, con eguale abilità, tutte le varie sfaccettature di quel prisma luminoso che è l'arte letteraria: saggi storici, novelle, poesie, canzoni.
La sua passione per le poesie e la sua vena ricca e inesauribile - oltre che di grandissimo spessore e qualità, finezza e originalità - lo portarono ad essere, nella storia della letteratura partenopea, uno degli autori più produttivi e fecondi; un gigante e un punto di riferimento, diventato con il tempo un vero monumento artistico.
 
Incisioni famose di sue canzoni sono le interpretazioni di Santa Lucia luntana di Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Franco Ricci, Gilda Mignonette, Francesco Albanese, registrate sui dischi a 78 giri di allora.
In seguito, molte delle sue canzoni più famose vennero registrate ed interpretate dai più grandi tenori di tutti i tempi, quali, tra gli altri, Giuseppe Di Stefano, Mario Del Monaco, José Carreras, Plácido Domingo, fino al grande Luciano Pavarotti.
Le sue canzoni hanno fatto parte del repertorio dei maggiori cantanti napoletani di varie generazioni, da Massimo Ranieri a Mario Merola, da Peppino di Capri a Roberto Murolo, Mario Abbate, Sergio Bruni, Bruno Venturini e tanti altri ancora.
 
La famosa canzone Tammurriata nera, della quale E. A. Mario compose la musica, nacque da una circostanza assai curiosa avvenuta nel 1945. Edoardo Nicolardi, amico di E. A. Mario, nonché dirigente amministrativo del famoso ospedale napoletano Loreto Mare, un giorno vide un particolare trambusto nel reparto maternità. Ciò che suscitò tanta meraviglia fu una ragazza napoletana che aveva partorito un bambino di colore. Il caso però non rimase isolato, vi furono altre ragazze che partorirono bambini frutto di relazioni con soldati afro-americani.
Quando la sera i due amici si ritrovarono a casa di E. A. Mario (i due, oltre che essere amici e colleghi, stavano per diventare anche consuoceri, poiché Italia, terza figlia di E. A. Mario, doveva di lì a poco sposare Ottavio, figlio del Nicolardi), si resero subito conto della svolta epocale che quel fatto rappresentava ed E. A. Mario esclamò commosso: «È 'na mamma curaggiosa! È ‘na mamma chiena 'e core! Edua', facimmo 'sta canzone!»
E fu così che sull'onda della commozione, con spirito partenopeo, sull'immediatezza dei versi del Nicolardi, dettati di getto, e l'istintiva melodia di E. A. Mario, nacque quella canzone diventata poi famosa.
 
Nel 1922, il re Vittorio Emanuele espresse il desiderio di conoscerlo, avendo avuto modo di ascoltare per la prima volta La leggenda del Piave, in occasione dell'arrivo al Vittoriano, a Roma, della salma del Milite Ignoto.
E fu in quella occasione che il Re, entusiasta, chiese chi fosse l'autore e lo convocò al Quirinale.
Saputo che l'autore era un impiegato delle Regie Poste Italiane, diede l'incarico al ministro delle Poste Giuffrida, che con orgoglioso interessamento lo fece cercare.
Il poeta si presentò al Quirinale, al cospetto del Re che gli conferì personalmente l'onorificenza insignendolo della Commenda della Corona, assieme alla sua ammirazione e a parole di lode.
 
Quando per strada incontrava dei soldati, questi gli facevano il saluto militare.
A Santa Croce del Montello, il carillon del campanile, suona ancora oggi, ad ogni mezzogiorno, le note de La leggenda del Piave.
L'ultima sua abitazione, in affitto, fu in viale Elena, oggi viale Antonio Gramsci, dove poi morì. A ricordarlo vi è affissa una lapide. La moglie morì pochi mesi prima di lui.
Le figlie, giacché il poeta era molto malato, per non dargli un ulteriore dispiacere, gli nascosero la morte della moglie, conoscendo il suo profondo affetto per lei e lo trasferirono al piano inferiore, nell'abitazione dell'altra figlia. Inizialmente non riusciva a comprendere perché non potesse vedere la moglie ma, dopo pochi giorni, capì e disse: «Adelina è finita, è vero?».
Da quel momento, smise di parlare e incominciò a lasciarsi morire piano piano.
Si spense il 24 giugno 1961, giorno del suo onomastico. Aveva settantasette anni.
 
Un'altra targa che ricorda uno dei suoi più grandi successi mondiali, oltre che l'emigrazione di tanti napoletani, è quella fatta apporre sopra la scaletta del Borgo Marinari, sulla quale sono incisi solo i primi due versi di “Santa Lucia luntana”.
In molte città italiane esistono oggi, strade, piazze e scuole che ricordano il poeta E.A. Mario.
Molte delle sue 2.000 canzoni, specie quelle napoletane, sono divenute famose e hanno dato un notevole contributo alla diffusione della musica partenopea in tutto il mondo.
 
Si ringrazia Wikipedia per le note e le foto che ci ha lasciato attingere.

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