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Chiarina, la donna che morì due volte – Di Maurizio Panizza

Chiarina Curti, vedova Beltrami, fu prima massacrata dal suo assassino, poi «uccisa» dalla comunità in cui viveva. La misteriosa vicenda della donna uccisa nel 1929

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La tela del pittore John Everett Millais che si ispira a Ofelia dell'Amleto di William Shakespeare.

Per quasi un secolo, nulla si è saputo di un efferato omicidio compiuto in Trentino, lungo un sentiero di montagna che dalla chiesa di Montalbano di Mori porta a Nomesino, un piccolo paese della Valle di Gresta.
Ora un’inchiesta rivela i particolari di quel delitto.
Era il 30 ottobre del 1929 quando una donna di 42 anni veniva orrendamente ferita a morte da uno sconosciuto lungo quel sentiero.
Se di quell’omicidio fino ad oggi si sapeva ben poco, ora finalmente se ne conoscono i risvolti grazie a una minuziosa indagine condotta dal «ricercatore di storie» Maurizio Panizza, non nuovo a inchieste del genere che raccoglie nella rubrica de l’Adigetto.it intitolata «Da una foto una storia».

La vittima, Chiarina Curti vedova Beltrami.

Attraverso testimonianze e atti istruttori rinvenuti dal giornalista negli archivi del Tribunale di Rovereto e in quello della Corte d’Appello di Trento, nel Comune di Ronzo Chienis, di Rovereto e in quello di Mantova, per la prima volta adesso è possibile ripercorrere le ore precedenti e quelle successive alla morte della povera Chiara Beltrami, detta Chiarina, e svelare le indagini condotte con perizia dagli inquirenti.
Una storia triste che ci riporta ai nostri giorni, al tema dei condizionamenti sociali, dell’emancipazione della donna e a quello della violenza.
Una storia in cui, a distanza di quasi un secolo, si fondono e si confondono, ancora una volta, amore e morte, verità e mistero.
 
Coloro che dalla chiesa di Montalbano di Mori percorrono l’antico sentiero che sale verso Nomesino, in Val di Gresta, giunti a mezza montagna, nei pressi di una località chiamata «Prea de la farina», a un certo punto si imbatteranno in una vecchia lapide che li lascerà sbigottiti.
Sulla pietra sono incise queste testuali parole: «Qui cade colpita a morte da mano assassina il 31.10.1929 – Beltrami Chiarina n. Curti d’a 42 – Chi legge prega per lei – i figli posero».

La chiesa di Montalbano, sopra Mori.

Chi fosse la vittima e come avvenne l’uccisione lo possiamo desumere da notizie frammentarie rimaste nella storia della comunità di Mori e rintracciabili in qualche vecchio opuscolo riguardante la borgata.
Ad esempio, leggendo le poche annotazioni riportate nel 2005 dalla rivista «Campanò» potremmo apprendere che «La donna, residente a Nomesino, vedova di guerra e madre di quattro figli, tre maschi e una femmina, in una giornata piovigginosa, sul confine fra Mori e Nomesino fu colpita alla testa con un pezzo di ferro a forma di croce.
«Fu il messo del comune di Pannone a trovarla, ma non poté fare nulla per salvarla. Il paese fu sconvolto da quella terribile morte».
 
Il fatto poi che sul capo della vittima furono trovate quelle strane ferite a forma di croce, non poté altro che dare il via alle ipotesi più inquietanti e fantasiose circa un delitto compiuto a scopo rituale, oppure satanico.
In effetti, la tragedia fu talmente grande che in poco tempo si preferì rimuovere per dolore o per vergogna il ricordo stesso di quella povera donna massacrata «da mano assassina».
Neppure recenti indagini fra la gente del posto, condotte da chi scrive, hanno dato alcun esito se non la ripetizione approssimativa di quel poco che già si conosceva, accompagnata in qualche caso da uno strano disagio per il fatto di voler resuscitare quell’antica vicenda.
Eppure, a distanza di novant’anni, questa è una storia che reclama ancora se non una giustizia improbabile, quanto meno un minimo di verità.
Una storia che raccontando di un cippo abbandonato in mezzo al bosco, mai nessuno, fino ad ora, era riuscito ad indagare nel tentativo di fare luce sulla triste vicenda della povera Chiarina Beltrami.


 
Quelli erano tempi di grandi rivolgimenti sociali e Mori e la Valle di Gresta erano paesi poveri, paesi di contadini e soprattutto di emigranti.
Si era usciti da poco dall’immane tragedia della Prima Guerra Mondiale passando dall’Impero d’Austria al Regno d’Italia.
Da 7 anni il governo del Paese era in mano a Mussolini e al Fascismo e la ricostruzione era ancora in atto.
Il 1929, poi, sarebbe passato alla Storia come l’anno del crollo di Wall Street e della grande depressione, quella grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l'economia mondiale con forti ripercussioni anche durante i primi anni del decennio successivo.
 
Dicevamo della triste vicenda di Chiarina Beltrami. Cercando di colmare quel vuoto, nel contesto di un lavoro promosso dal Comune di Mori e su invito di alcuni storici, mesi fa mi sono messo all’opera e, come fatto in altre mie inchieste, la prima «mossa» è stata quella di rivolgermi all’Archivio storico della Biblioteca di Rovereto dove è possibile visionare i quotidiani dell’epoca.
Un lavoro, questa volta, che sembrava essere abbastanza semplice dal momento che l’omicidio era accaduto nel 1929, un tempo relativamente vicino a noi, in piena epoca fascista.
È bene ricordare al proposito che durante il Regime tutti i giornali erano stati chiusi d’autorità per cui sostanzialmente l’unico quotidiano rimasto in Trentino era «Il Brennero», organo del Partito Nazionale Fascista.
Al di là di questo, speravo comunque di trovare su quelle pagine qualche notizia utile alla mia inchiesta.
 
Diversamente dalle aspettative, però, la ricerca risultava ben presto vana in quanto né il giorno dopo l’assassinio (il 31 ottobre), né i giorni successivi, il giornale aveva scritto qualcosa nello spazio dedicato a Mori e alla Valle di Gresta, così come niente risultava neppure in cronaca di Rovereto.
Dopo aver sfogliato il Brennero in lungo e in largo sino alle pagine del 31 dicembre, la speranza di trovare qualche indizio era praticamente sfumata.
Se non che, quando ormai stavo per rinunciare, nella cronaca di Trento del giorno 5 novembre rinvenivo finalmente un breve articolo sull’omicidio. 
 

 
Curioso, mi ripeto ancora oggi, che la notizia del delitto di Mori si trovasse fra quelle del capoluogo. Probabilmente c’era stato un errore di impaginazione e forse era stato proprio questo il motivo per cui nessun ricercatore prima di allora aveva avuto la possibilità di attingere direttamente dalla stampa i particolari del «feroce delitto».
Il giornale, infatti, descriveva in maniera abbastanza dettagliata la cronaca dell’avvenimento.
 
Spronato da quel primo successo che confermava in parte quel poco che già si sapeva, mi sono rivolto prima al Tribunale di Rovereto e successivamente alla Corte d’Appello di Trento alla ricerca dell’eventuale fascicolo giudiziario.
Tempo neppure un mese (quello necessario a presentare l’istanza ed ottenere risposta) che una gentile impiegata del Tribunale mi telefonò annunciandomi che il dossier era pronto per la consultazione.
 
 L’inchiesta 
Il primo documento che si affaccia al grosso faldone, appena aperto, è un verbale della Legione Territoriale dei Carabinieri Reali - Stazione di Mori.
È datato 1 novembre 1929, quindi due giorni dopo l’omicidio. In esso si legge in premessa: «Verbale di lesioni gravi seguite da morte, riportate da Curti Chiara, vedova Beltrami, a scopo di rapina e di arresto di BUZZACCHI Glauco Giuseppe come autore di detti reati».

Chi sia tale Buzzacchi lo apprendo con enorme sorpresa più avanti, dopo che il verbale avrà ricostruito, tramite i testimoni, la scena del delitto.
«È nato il 19 febbraio 1890 in Mantova, colà domiciliato, residente in Rovereto, Via 2 novembre 3, cementista disoccupato, venditore ambulante di stoffe a tempo perso e pregiudicato, secondo il di lui detto, per truffa e già ricoverato da ragazzo in casa di correzione per furto


Nel dossier della Corte d’Assise di Trento vi sono anche fotografie che ricostruiscono la scena del delitto con un figurante.
 
Ma torniamo di nuovo alla prima pagina del verbale, quella in cui il maresciallo maggiore Francesco Zandegiacomo della Stazione Carabinieri a piedi di Mori rivela particolari interessanti in merito alla vittima.
Secondo la testimonianza di un familiare, infatti, troviamo scritto che «Chiarina Beltrami era partita da Nomesino alle ore 8,30 e doveva recarsi in Mori per effettuare dei pagamenti. Aveva preso seco L. 500,00, in 4 biglietti da L. 100; uno da L. 50; L. 30 in argento e L. 20 circa in nichel e rame».
Lo stesso riferisce poi che alcune settimane prima la povera donna aveva avuto una proposta di matrimonio da un venditore ambulante e che quasi in contemporanea l’uomo aveva chiesto in prestito alla Beltrami 300 lire per ritirare della merce a Milano.
Aggiunge, inoltre, che la donna «non aderì alla proposta di sposalizio e che non gli dette il prestito richiesto».
 
Poi il verbale dei carabinieri prosegue.
«Ci siamo immediatamente recati sul posto, vestiti della nostra divisa, e lì abbiamo interrogato un testimone il quale ci riferì di essere giunto nei pressi e di avere notato un tale Pizzini che sorreggeva la donna.
«Proseguita la strada e giunti in Pannone, abbiamo colà interrogato il messo comunale [il primo arrivato sul luogo – NdR] il quale trovò la donna per terra in mezzo ad un lago di sangue, con la testa rivolta a valle, con le vesti appena rialzate fino al ginocchio
Fra altre testimonianze, troviamo pure quella del medico comunale, dott. Enrico Less, il quale poche ore dopo il delitto dichiara ai carabinieri di «avere curato la donna e di averla trovata affetta da ferite da arma da punta e taglio nella parte superiore della testa, alla fronte e all’avambraccio sinistro, nonché affetta da commozione cerebrale e da forte anemia per il sangue perduto».
Di tutte queste ferite, verrà predisposto in accordo con i periti del tribunale uno schizzo dettagliato depositato agli atti.
 

Lo schema disegnato a mano, con le ferite riportate dalla vittima.
 
Le indagini proseguono e i carabinieri così scrivono nel loro verbale.
«Ritornati a Mori abbiamo appreso dai titolari della Birreria Montalbano che la Curti era un’assidua cliente del loro esercizio e che nella giornata stessa era stata colà verso le 10,45, che vi aveva consumato un vermut pagandolo con una lira e che era partita subito per Nomesino».
 
Nelle pagine seguenti troviamo un’importante deposizione, quella della figlia della povera Chiarina, secondo la quale, alla domanda se fosse stato il Buzzacchi a ridurla in quello stato, «essa, non potendo parlare, annuì con il capo in segno affermativo».
 
In poco tempo, chiedendo informazioni a Nomesino e a Mori, viene rintracciato l’indirizzo del sospettato.
È così che già nel pomeriggio del primo novembre, a poche ore dal fatto i carabinieri giungono a Rovereto in Via 2 novembre, al numero 3.
Trovano il Buzzacchi in quella che oggi viene comunemente chiamata la «Casa dei Turchi», a ridosso del Torrente Leno, dove l’uomo è da qualche tempo ospite del fratello, lì domiciliato con la moglie.
 

La «Casa dei Turchi» nei pressi del ponte sul torrente Leno.
 
Sin da subito l’uomo nega qualsiasi addebito, affermando che quella mattina «si era alzato verso le 11 e di avere speso il tempo recandosi al Sindacato Fascista, dal calzolaio Villa Luigi, all’osteria delle Due Colonne».
Tuttavia, il verbale dei carabinieri riporta che «al Sindacato non poterono accertarci se effettivamente egli sia stato colà; il calzolaio Villa attestò che non lo vide assolutamente nelle ore antimeridiane ed il proprietario dell’esercizio delle Due Colonne affermò pure egli che il Buzzacchi non fu colà in dette ore».
La stessa cognata, interrogata a parte, affermò tuttavia che l’uomo si alzò verso le ore 9.00. Per questi motivi, proseguono i carabinieri, «Abbiamo dichiarato in arresto per omicidio il Buzzacchi e lo abbiamo tradotto a Mori».
 
Nel frattempo, la mattina del giorno seguente giunge alla stazione dei carabinieri il seguente documento: «Il sottoscritto medico comunale, attesta che Beltrami Chiara di anni 43, ferita d’arma da taglio come risulta dall’attestato denunzia, è morta ai 31/10/1929, ore 24, per anemia acuta e commozione cerebrale, senza mai avere ripreso conoscenza. Firmato, dott. Enrico Less».
 

Chiarina, profuga durante la guerra a Tyniste nad Orlici (Boemia), con i quattro figli: Gisella, Arcangelo, Bruno e Virginio.
 
Ma chi era la povera Chiarina Beltrami così brutalmente ammazzata su quel sentiero nel bosco?
Di sicuro era una donna laboriosa, una madre coraggio che allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, mentre il marito kaiserjäger era già prigioniero in Russia, era stata costretta a partire come profuga in Boemia assieme ai quattro figli e a una cinquantina di suoi compaesani.
Nel 1919, rientrata a Nomesino a guerra finita, Chiarina attese invano il ritorno del suo sposo: la sua ultima lettera era stata spedita il 20 agosto 1918 da Kirsanov, poi più nulla.
Cinque anni dopo, perse ormai le speranze, la donna avviò la procedura per ottenere la dichiarazione di morte presunta dopo aver preso in mano le redini della sua famiglia dandosi da fare per continuare ad allevare da sola i suoi figli e a fornire loro di che vivere.
 
Determinata, la Chiarina, anzi «emancipata», come chiameremmo oggi una come lei.
Una donna di famiglia economicamente sopra alla media, indipendente, che sapeva destreggiarsi bene nei campi così come negli affari con i creditori, con il Comune, la Cooperativa e la Cassa rurale.
Fin troppo libera, forse, a tal punto da attirare su di sé la malignità delle bigotte e l’invidia di chi quell’autonomia la apprezzava sommessamente in privato e la condannava in pubblico.
 
Ma c’era un «ma» che probabilmente angustiava la donna: il fatto di essere ancora, dopo dieci anni, una vedova per così dire «presunta», legata alle regole religiose e sociali imposte dal tempo e dunque ancora sottoposta al controllo della comunità.
La donna, in altre parole, non era considerata vedova a tutti gli effetti perché era già accaduto che qualche prigioniero di guerra fosse rientrato al paese anche dopo molti anni di assoluto silenzio. Libera dunque di lavorare per il sostentamento della famiglia, ma non libera eventualmente di ricostruirsi una vita con un altro uomo.
 
E di Giuseppe Buzzacchi cosa possiamo dire in più di ciò che già sapevamo?
Un verbale dei carabinieri di Mori lo descrive in questo modo: «Statura media e corporatura snella; capelli corti castani; colorito bruno con guance infossate e dentatura irregolare con mancanza dell’incisivo sinistro».
Inoltre, ricordando come la famiglia fosse di «povere condizioni economiche», con cinque figli e il padre morto già nel 1900, troviamo scritto che «l’imputato, nel 1904, all’età di appena 14 anni, risulta assegnato alla Casa di Correzione Patronato S. Martino in Firenze.
«In seguito, nel 1905, viene condannato dal tribunale di Mantova a tre mesi e 15 giorni di reclusione per furto; recluso di nuovo nella stessa Casa di correzione, viene scarcerato nel 1908; emigrato in Svizzera, nel 1910 è condannato a due anni di esilio per lesioni dal Cantone di Lucerna; nel 1921 dalla Corte di appello di Brescia ad anni due di reclusione per truffa e nel 1923 ancora dal Tribunale di Mantova a 30 giorni di arresto per contravvenzione al foglio di via».
 

La «casetta Pippel», nel bosco sopra Mori, da dove alcune persone videro passare Chiarina Beltrami preceduta dal suo assassino.
 
Tutto ciò, a quanto pare, sembra deporre contro l’arrestato, compresi anche alcuni testimoni che dichiarano di aver visto quella mattina sul sentiero, poco avanti alla povera Chiarina, un uomo che seppur nascosto da un berretto calcato sulla fronte poteva corrispondere perfettamente all’imputato.
«Di certo un forestiero, comunque, perché altrimenti l’avremmo riconosciuto» - aggiungono.
Inoltre la deposizione rilasciata da Gisella Beltrami, figlia di Chiarina, conferma che nel corso della notte in cui la madre morì, sollecitata a rispondere su chi fosse stato a ridurla in quello stato, la donna, con un filo di voce e a monosillabi, rispose che era stato proprio il Buzzacchi.
 
Eppure, come sappiamo, il certificato medico attestava che in considerazione delle ferite devastanti al capo, la vittima non aveva mai ripreso conoscenza. Per di più sfogliando ancora il dossier della Corte d’Appello, rinveniamo con grande sorpresa due lettere molto significative che sembrano smentire quelle parole.

Sono quelle che Chiarina e Giuseppe si erano scritti una quindicina di giorni prima, dopo essersi incontrati per caso il 3 ottobre nell’osteria di una certa Poli Luigia, a Mori.
Dalle loro parole si comprende che fra i due era iniziata una tenera relazione e che a breve si sarebbero incontrati di nuovo.
Chissà forse proprio dalla condizione della donna non libera di decidere della propria vita, scaturì la spinta di guardare in un certo senso oltre i confini del suo paese e ad intrecciare una storia amorosa proprio con quel Buzzacchi, un forestiero, che da quei condizionamenti, quanto meno era del tutto estraneo.
 
Alla luce di queste due lettere, scritte in un italiano a volte approssimativo, ma ricco di sentimento, sembra ora difficile pensare a un omicidio ad opera di quell’uomo che sembrava veramente innamorato.
Tuttavia gli inquirenti sono di parere opposto, per cui sulla base dei numerosi indizi a suo carico si spalancano le porte del carcere di Rovereto al presunto omicida.
 

 
Nei mesi successivi, l’istruttoria prosegue senza novità sostanziali, a parte il fatto che viene confermato che l’uomo notato sul sentiero, poco avanti la povera Chiarina, è sicuramente l’omicida.
Infatti, i testimoni ricordano che costui portava con sé una lunga asta di ferro, quella che sarebbe stata poi usata per l’aggressione.
«Un residuato di guerra a sezione triangolare - diranno le indagini dei carabinieri - divelto da una recinzione di campagna poco distante
Circostanza, questa, che farà sfumare di colpo la fantasiosa «pista» del delitto di natura rituale o esoterica.
 
Il Buzzacchi, proclamatosi sempre innocente e sinceramente legato alla vittima, nel frattempo rimane in cella in attesa di giudizio, sino a quando accade un colpo di scena.
Infatti, vengono sentiti nuovi testimoni i quali dichiarano «di avere notato l’imputato a Rovereto la mattina del 30 ottobre dalle ore 10 alle 11.45», esattamente alla stessa ora in cui, sopra Mori, veniva consumato il delitto.
Neppure i testi che mesi prima avevano sostenuto con convinzione la somiglianza fra il Buzzacchi e l’uomo notato sul sentiero, sono ora così certi delle proprie dichiarazioni.
In più, anche sul vestiario indossato quel giorno dall’assassino le risultanze dell’istruttoria sono discordi: chiaro il vestito e il berretto notati dai testimoni oculari; scuri entrambi quelli usati solitamente dal Buzzacchi, secondo quanto ribadito dalle ultime testimonianze.
 
Alla fine di febbraio le accuse iniziano a scricchiolare e per questo motivo il Sostituto procuratore del Re, cav. Grisoli, formula la richiesta di immediata scarcerazione: per il Buzzacchi sembra finalmente giunta la liberazione, ma non è così.
Nonostante il parere a lui favorevole resta ancora chiuso in carcere in quanto l’accusa, nient’affatto convinta del risultato, richiede un supplemento d’istruttoria.
È interessante a tal proposito, un’accorata istanza di scarcerazione presentata dal difensore, l’avvocato napoletano Leone Ventrella del Foro di Rovereto, che si rivolge al Procuratore con queste parole: «Se chi ha mancato piega il capo di fronte alla pena; chi è innocente, come il Buzzacchi, rischia di impazzire vedendo persistere l’errore che non certo al Magistrato può ascriversi, ma che il Magistrato è l’unico capace di riparare».
Il ricorso dell’accusa tendente a rivedere l’orientamento degli inquirenti, una settimana più tardi viene tuttavia respinto «non essendo emersi nuovi elementi di reità che consiglino la riapertura dell’istruzione».
 
Si giunge in tal modo alla chiusura dell’istruttoria. In essa la Sezione d’Accusa presso la Corte d’Appella di Trento smonta pressoché tutti gli indizi a carico del Buzzacchi, in particolar modo l’accusa fatta in punto di morte dalla povera Chiarina, in quanto «seppur veridica nella sua obbiettività non può essere presa in seria considerazione atteso lo stato fisico della paziente e delle gravi lesioni alla testa».
«Per questi motivi – conclude il dispositivo – dichiara il non luogo a procedere per insufficienza di prove nei confronti dell’imputato e ordina la sua immediata scarcerazione
 

 
Così, Glauco Giuseppe Buzzacchi esce libero dal carcere il 19 aprile 1930, quasi sei mesi dopo il suo arresto.
Qualche giorno più tardi prenderà le sue poche cose e all’insaputa di tutti salirà su di un treno con un biglietto di sola andata per la Francia dove rimarrà per vent’anni, forse nelle fila della Legione Straniera.
Quello che è certo comunque - nella complicata incertezza di seguire le tracce di soggetti senza fissa dimora - è che il Buzzacchi rientrerà a Mantova nel 1953, ospite da lì in poi in strutture di accoglienza per persone con disagio sociale.
Morirà nella città lombarda il 28 luglio 1961, all’età di 71 anni.
 
Chiarina Beltrami, considerata da sempre madre esemplare, dopo la sua morte sarà invece condannata all’eterno oblio, colpevole di avere infranto le leggi della comunità intrattenendo una relazione clandestina con quell’uomo che molti, sin da subito, avrebbero voluto a tutti i costi condannato come capro espiatorio per lavare l’offesa e la vergogna gettata su quella povera famiglia e sull’intero paese.
Adesso sappiamo che le cose non andarono esattamente in quel modo, così come al tempo stesso siamo consapevoli che a distanza di novant’anni quella triste vicenda, che poteva avere allora contorni di storia familiare, ora può e deve appartenere alla memoria collettiva per ciò che sa ancora insegnarci.
 
Per quanto riguarda la povera Chiarina, per lei, purtroppo, non ci fu mai giustizia e il dubbio se il suo amante fosse stato veramente anche il suo assassino sarebbe rimasto per sempre senza risposta.
Un dubbio che come il resto della storia sarebbe ben presto svanito nelle pieghe del tempo e della memoria lasciando dietro di sé, a testimonianza di quell’assurda tragedia, solo una piccola lapide grigia, quasi illeggibile, lungo un ripido sentiero ormai perduto nel bosco.

Ringraziamenti:
-    Tribunale di Rovereto
-    Corte d’Appello di Trento
-    Comune di Mori
-    Comune di Ronzo-Chienis
-    Comune di Rovereto
-    Comune di Mantova
-    Museo della Cartolina di Isera.

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