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Alice Viaggiatrice, Capitolo 2 – Nives dal Cappello Rosso

Incroci di vite sulle strade del mondo raccontate da una ragazza con le gambe in spalla e la valigia in mano – Racconto di Astrid Panizza

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Link alla puntata precedente.

 Capitolo 2: Nives dal Cappello Rosso  

La città di Trento è capoluogo di Provincia, ma a differenza di altri capoluoghi che somigliano più a metropoli che a città, Trento invece può essere considerata come un grande paese; un posto in cui, passeggiando per strada capita di incrociare vecchie conoscenze, di fermarsi a chiacchierare e di portare a spasso il cane senza fare slalom tra le persone.
Ricordo, i primi anni della mia vita, la sensazione di guardare gli edifici dall’alto in basso, con il naso all’insù, immersa nell’osservazione delle alte mura di piazza Fiera, o del rosone del Duomo che si affaccia sull’omonima piazza.
Durante la permanenza a Trento i primi anni della mia vita vivevo assieme ai miei genitori in un appartamento in centro città, all’ultimo piano di tre, in un luogo dove non esistevano pericoli per me, perché tutte le persone che incontravo erano amici. Nel palazzo vivevano altre due famiglie, al piano terra una donna con due bambini più grandi di me, e al secondo piano una signora anziana, Nives, dai capelli canuti e il sorriso dolce e sempre presente.
 
Ho il chiaro ricordo di Nives che cammina con il suo carrellino rosso a scacchi e il cappello dello stesso colore, fatto a maglia da lei. Mi fa ancora sorridere il pensiero che in quegli anni era per me naturale paragonarla a Cappuccetto Rosso solo per questi suoi particolari.
Ogni volta che salivo le scale mi fermavo, senza mancare mai una volta, da Nives, mettendomi sulle punte dei piedi per arrivare al campanello.
Mi apriva la porta di casa sempre volentieri, c’erano volte in cui mi dava una caramella e poi scappavo a casa, mentre altre volte mi fermavo da lei a guardarla cucinare, mi preparava un tè o una cioccolata e facevamo merenda assieme.
Era una persona sola, una donna anziana senza figli e nipoti e per questo vedeva me come la bambina da coccolare e viziare, che non avrebbe avuto altrimenti, mentre io riconoscevo in lei la nonna da cui imparare a cucire e cucinare.
 
La realtà era che i genitori di mio padre erano venuti a mancare prima che io nascessi, mentre invece quelli di mia madre erano in Spagna, e li vedevo raramente.
Quindi Nives rappresentava sul serio per me, in quel periodo di vita, un’àncora sicura al di fuori della porta di casa mia, qualcuno «di grande su cui contare».
Durante il periodo natalizio ci dedicavamo spesso, dopo il mio ritorno da scuola, a costruire presepio e albero di Natale, di quelli finti, comprato probabilmente qualche decennio prima, con quattro rami smilzi che faticavano a tenere su tre bocce della grandezza di una noce.
Eppure, sotto quell’albero ogni 25 dicembre c’era un pacchetto per me, in cui trovavo sempre rigorosamente capi d’abbigliamento fatti a mano da lei, guanti, maglioni, calzini... L’ultimo Natale che abbiamo passato in Italia c’era per me un cappellino rosso, uguale al suo.
Poi sono partita, con il cappello in testa.
 
Gli anni a Salamanca sono letteralmente volati. Ho conosciuto tante persone e mi sono ricreata un nucleo di amici come avevo a Trento. Ho avuto il piacere di scoprire una vita con i miei nonni, a spasso per le strade mano nella mano, sulla cima della torre a guardare la città dall’alto, o lungo il fiume Tormes a piedi e in bicicletta.
Nonna Muriel e nonno Jorge erano molto diversi però da Nives. Mi volevano bene ed ho condiviso momenti unici con loro, però ho imparato da subito a condividere il loro amore con altri nipoti, che avevano sempre vissuto in Spagna sotto la casa dei nonni, un po’come io con Nives a Trento.
Lei mi mancava spesso, ma ho tenuto questo sentimento dentro di me, forse perché ero una bambina timida e riservata e non mi piaceva mostrare le mie debolezze, forse perché sentivo i miei genitori felici e quando stavo con loro preferivo far parte della gioia, piuttosto che contaminarla con la mia tristezza.
A volte, infatti, lasciavo da parte questo pensiero, ma quando mi trovavo da sola riaffiorava, soprattutto all’inizio.
 
Così, con il passare del tempo, e con il fatto che a Trento sono poi tornata di rado, ho cominciato a perdere i ricordi che mi legavano a Nives. Proiettata in un mondo in cui lei non era presente e dove veniva nominata sempre meno, l’immagine di lei cominciò a sbiadirsi nella mia mente finché, passati molti anni, un giorno d’inverno, facendo ordine nella mia camera e frugando tra vecchie scatole, mi capitò in mano il cappellino rosso e, interdetta, per un attimo mi chiesi di chi fosse e cosa ci facesse nella mia camera.
Nives si fece strada però tra le pagine dei miei ricordi e tutto d’un tratto, come una cascata in piena, ricordai i momenti più importanti passati con lei. Avvicinai il cappello al mio viso, per sentirne la morbidezza e cercare cogliere il profumo di Nives magari ancora impigliato nelle trame cucite da lei.
 
Cominciata l’Università nella mia città natale, Trento, decisi un giorno di tornare lì dove avevo passato momenti magici. Arrivata davanti all’edificio mi soffermai a guardare la finestra della mia vecchia stanza. Mi sembrava quasi di poter vedere la piccola Alice che con la sua manina mi salutava e mi mostrava un timido sorriso.
Entrai quasi di soppiatto, e trattenni il fiato nel salire le scale che tante volte avevo percorso correndo, con la cartella più grande di me. Arrivai davanti alla porta di Nives e suonai il campanello guardandolo, pensando a quando saltavo per arrivare a schiacciarlo.
Nel momento in cui sollevai la testa sentii la porta aprirsi e la mia bocca si curvò in un sorriso, pronta a rivedere capelli bianchi familiari e il sorriso timido che aveva segnato la mia infanzia.
 
Mi trovai di fronte, invece, una donna sulla quarantina, vestita da casa con una coda mal fatta che faceva ricadere sulle sue spalle una chioma di capelli rossi.
Percependo la mia perplessità mi chiese in tono sgarbato se avessi bisogno di aiuto, e alla mia richiesta di sapere dove fosse Nives, mi rispose frettolosamente che la donna era passata a miglior vita già l’anno precedente, richiudendosi poi la porta alle spalle e lasciandomi lì, attonita.
Rimasi qualche secondo immobile sul pianerottolo, fissando la porta ma in realtà guardandoci attraverso, tornando indietro a quando quella casa era un po’anche mia.
Decisi che era venuto il momento di andarmene solo quando sentii che il portone si era aperto e qualcuno stava salendo le scale.
Uscendo dal palazzo una ventata di aria fredda mi colpì in viso, spostando un po’ le lacrime che rigavano il mio volto. Si era chiuso così un capitolo della mia vita. Per sempre.
 
Camminando sulle strade del centro mi sentivo un po’spaesata, mi guardavo intorno senza un motivo apparente, fino a quando vidi fuori da un negozio un cesto pieno di cappelli invernali, quelli di lana, della stessa fattura di quello che mi aveva regalato Nives quando ero piccola.
In cima alla pila di cappelli ne spiccava uno dal colore rosso acceso. Entrai nel negozio con il portafoglio già in mano.
Appena uscita me lo calai in testa pensando dentro di me: «Lo sapevo che non mi avresti lasciata senza dire nulla».

Astrid Panizza
(Continua)

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